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8 Gennaio 2015 | Racconti d'autore

Bologna a modo nostro

Testi di Serenella Gatti Linares e Nicoletta Maldini tratti dal volume omonimo (a cura di Maria Beatrice Masella e Alba Piolanti, Bologna, ScriviconloScrittore, 2012)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Tutto il contrario della solita guida alla città: il libro curato da Maria Beatrice Masella e Alba Piolanti raccoglie molte voci di donne, legate a Bologna da fili sottili, fatti di ricordi, sensazioni e storie vissute. Ne abbiamo scelte due.

Bologna la Rock

I luoghi di Bologna sono infiniti nella realtà e nei ricordi. Impresa ardua sceglierne solo alcuni.
Bologna non è una città semplice, come può apparire. Ha mille volti: il centro e la periferia; la pianura e i colli; le zone eleganti e quelle popolari. Ti trovi non lontano dal centro, e puoi capitare in strette viuzze con le case a pianterreno, simili ai “bassi” napoletani. A Bologna sono infinite le strade da percorrere: ce n’è per tutti i gusti. Ci sono ambienti esclusivi, in cui non entrerai mai, ma esiste la possibilità di rintracciare il proprio percorso. Io ho avuto questa fortuna. Ci sono voluti tempo, pazienza, fatica, voglia di comunicare.
Ho compiuto un cammino inverso: appena giunta sono andata dalla periferia al centro; in seguito dal centro alla periferia, dove ormai sono le mie radici. Non dico: “Sono di Bologna”, ma: “Sono di San Donato”, perché questo quartiere è a sé stante, con caratteristiche precipue. Lo chiamano: “semiperiferia” o “periferia-dormitorio”; io preferisco definirlo il quartiere più rocchettaro della città.
Ho notato nel tempo le trasformazioni in me e nei rocker delle vicinanze. La mia anima-rock si è ricongiunta con la loro, pur nelle differenziazioni, dalle catenate fra Judas e Jaguars nella Sala Sirenella degli anni Sessanta, ai nuovi bar della zona fieristica. Qui c’erano o ci sono: il Qbo, il Bertini, il Cavallazzi, la Scandellara, il Casalone, il Covo, l’Estragon, la Cupola del Pilastro, l’osteria di Re Artù, il Dragon Pub di viale della Repubblica… Qui c’era Ciarly Roketto, prematuramente scomparso, che girava sul suo inconfondibile, pittoresco furgoncino. Non prima di avere scritto: “Jimi nel cerchio del Musico”, sul concerto di Jimi Hendrix al Palasport del 26 maggio 1968.
Nei leggendari anni Sessanta, si ascoltavano concerti dal vivo al Parco Verde. Gli adulti godevano del benessere economico; i giovani volevano “fantasia al potere”, spirito critico, radicali cambiamenti. La musica inglese beat travolse tutto velocemente. A volte, a fine serata, scoppiavano risse e scazzottate, volavano vecchie seggiole, ma non esistevano violenza e cattiveria autentiche. I concerti erano un crescendo di divertimento, di intensità, di decibel, mentre il pubblico si scatenava, urlava, ballava, rompeva oggetti. Le prove si svolgevano nelle cantine umide, popolate da decine di gruppi della “capitale del rock”.
Molto cambiò negli anni Settanta. Ci fu un mitico concerto al Palasport, dove il pubblico seppellì gli Skiantos sotto ortaggi e farina, durante la loro performance. L’avvento dei DJ nei locali tolse molto lavoro ai gruppi, nonostante gli spazi fossero aumentati. I posti più ospitali per i concerti erano per assurdo le parrocchie, con feste e festival affollati.
Tutto mutò con l’avvento dei punk, dei Gaz Nevada, che inventarono il progressive, al posto delle solite cover: dinamite contro il sistema. In città nascevano le radio libere, il DAMS, l’Arte Fiera, i reading nelle osterie, i fumetti di Andrea Pazienza, gli scambi con l’estero, gli studi di registrazione, i teatri sperimentali, l’uso di sostanze chimiche. Nelle cantine era molto seguito anche il jazz di Jimmy Villotti. Un mondo folle, pieno di vino, birre, fumo, free, privo di barriere fra persone ed età.
Nel marzo 2009 è nata “Bo Ground”, un’associazione per la riscoperta e la valorizzazione del patrimonio culturale rappresentato dall’underground bolognese. Ad essa hanno aderito singoli e band di cinque generazioni di rock locale, da quelle storiche degli anni Sessanta alle emergenti.
Non sarebbe Bologna senza i suoi “orchestrali”, come li definirebbe Andrea Mingardi.

[Serenella Gatti Linares]

I cinema fantasma

Quando giro in bici passo davanti a molte lapidi emotive e immaginarie. Parecchie di queste sono collocate dove esistevano sale cinematografiche scomparse. Partendo da via Saffi verso il centro, sulla destra, il grande edificio del Marconi, solido e grigiastro: lì una indimenticabile visione di Apocalypse now di Coppola con mio fratello, e il sonoro in un paio di punti leggermente sfasato, proiettore molto rumoroso.
Passata la porta, la diroccata Arena San Felice, tante visioni estive di serie B, tipo L’aereo più pazzo del mondo, a volte beccando amici sudati quanto me nella città deserta.
Poi il cinema Adriano: visto lì con la zia francofila il fastoso, col senno di poi anche noioso, Bolero di Claude Lelouch, poi Arancia meccanica di Kubrick, visto, anzi intravisto nelle scene più crude, a fianco di un vecchio amico, e le prime rassegne in inglese, conveniva stare sull’ultima fila in fondo con la borsa di fianco, perché spesso c’era un signore ambiguo e molesto.
Poco più avanti il cinema Admiral, molto cinema giapponese e cinese in seconda visione, sedili con poco spazio gambe, ma la maschera sempre gentilissima.
Su via Indipendenza, l’Imperiale e il Metropolitan, per i filmoni in prima visione: in uno dei due, ma avevo tre anni e non sono sicura, Mary Poppins e/o anche Fantasia, con le zie cugine, le giovani cugine di mia mamma, sontuose babysitter spesso a mia disposizione.
Su via Oberdan il cinema San Martino per Let it be, ultimo film dei Beatles, visto con la cugina superappassionata che mi aveva contagiata e che al ritorno, dopo la terza visione consecutiva, mollò il volante della 500 su via Rizzoli costringendomi a “guidare” per un attimo. Gridavamo entrambe qualche canzone, ubriache di quei quattro appena visti sullo schermo.
Al cinema Alfa di via de’ Carbonesi ancora musica, ma non solo, con le rassegne a basso costo per gli universitari. Indimenticabili No nukes, prima volta che ho visto Bruce Springsteen vivo e in gran spolvero, e Woodstock, una copia rovinatissima e virata al giallo, ma piena di energie comunque primitive. E, una domenica di Pasqua con l’amica Silvia per la prima di innumerevoli visioni, Blade runner, volti bellissimi e disperati sullo schermo, e noi pronte per le nostre avventure: io sarei partita per gli Stati Uniti, lei per una prestigiosa scuola londinese.
Al Castiglione, vicino ai Giardini Margherita, in una piovosa domenica invernale, Perché Bodhy Darma è partito per l’Oriente? Anche noi partimmo in gruppo, ma alla fine eravamo solo in due… ritrovammo gli altri amici in birreria.
Tornando verso ovest il cinema Nosadella, con mio nonno credo di aver visto lì I tre della Croce del Sud di John Ford con John Wayne marinaio invece che cowboy, e il mio primo film col fidanzato, L’attimo fuggente di Peter Weir. Poi mille film in inglese e l’ultima proiezione prima della demolizione, il divertentissimo Little Miss Sunshine, fra lacrime e abbracci, non capita spesso di sapere che è l’ultima volta che vai in un posto che ami.
Fuori porta, in via XXI Aprile, il cinema Apollo, dove la sera della proiezione di Kamikazen, “nomen omen”, crollò il pavimento dell’ingresso per la calca. Non vidi mai la fine del film.
Su via Andrea Costa, all’Olimpia, nell’estate della maturità, un pomeriggio, il bellissimo Manhattan di Woody Allen con l’amica fanatica di New York: quando uscimmo c’era ancora il sole di luglio…

[Nicoletta Maldini]

Brano corrente

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