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4 Settembre 2014 | Racconti d'autore

Caravaggio. Nero fumo d’avorio

Testo tratto dal libro di Massimo Pulini “Caravaggio nero fumo” (Milano, Edizioni Medusa, 2010, info@edizionimedusa.it)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Artista e storico dell’arte, il romagnolo Massimo Pulini ha immaginato un intenso monologo interiore di Michelangelo Merisi: sei stanze dell’anima, in cui il pittore riflette sulla sua vita, alla vigilia dell’ultimo viaggio per mare.

I

C’è un angolo buio nella mia stanza, una parte negra che mi risucchia ogni volta che sposto il pensiero sugli occhi. C’è un gorgo negro al centro della mia stessa vita, illuminato ogni tanto da corpi imbevuti di luce, che passano, mi sorridono e vanno, quasi si trattasse di un sogno. Mi sento come un sordo in una città straniera, che ascolta solo il ruminare delle proprie parole, con l’unico privilegio di vedere senza disturbo alcuno, ma pure senza compagnia.
Un sordo ignora se quel che pensa è risuonato altrove, in altre teste, in altre piazze e questo sibilare incessante che da qualche tempo sento all’orecchio sinistro e che in continuo cresce, mi porterà alla pazzia. Ne sono certo, ma in qualche modo gli sono grato perché anche la grazia della vista è aumentata da quel giorno.
Quasi che i cinque sentimenti dell’uomo fossero governati da una segreta compensazione. Sopra tutti gli altri sentimenti, quelli del suono e della visione si specchiano, si rincorrono e talvolta danzano tra loro ma senza potersi unire davvero: se uno cresce l’altro diminuisce, come l’acqua in due recipienti collegati, come il Battista davanti a Christo.

I ciechi vedono con le orecchie e sarà per questo che ho iniziato a sentire con gli occhi. È vero che la musica fa nascere immagini, ma in forma interiore, per via di un allontanarsi dalla visione della natura vera, di quello che ti sta attorno. Non è un miglioramento della vista, è solo una distorsione. È quasi lo stesso effetto che i quadri hanno sui pensieri: li fanno fiorire in parole interne e finisci per non ascoltare più quello che stanno dicendo gli altri.
Da quel momento, dal giorno dopo la brutta febbre che mi ha lasciato questo profondo brusio nel pozzo che dall’orecchio arriva al cuore, ho dipinto di negro fumo due pareti di ogni stanzone che ho abitato, sempre nell’angolo diagonale a quello del mio letto. Così sono tenuto a vederle di continuo, anche nei giorni in cui i colori e i pennelli mi respingono e mi ringhiano come cani nemici.
Mi è capitato di pensare alla pittura come ad una bestia randagia. Ogni volta che hai esitazione quella subito lo avverte, mostra i denti e se fiuta la tua paura ti morde. Bisogna aver l’animo di avvicinarsi alla cagna con fermezza e affetto, allora si lascia accarezzare, ma solo se giunge a fidarsi pienamente, ti permette di vedere i suoi figli nascosti.

Le pareti negre e il quadro di terreno che gli sta in mezzo sono il luogo dove le mie visioni si fermano, dove prendono posizione. Torno a studiarle, a girarci attorno, a spostare le lanterne, i tessuti, le ali e i corpi di ogni angelo che vi passa.
Tutti gli angeli dipinti sono angeli. Non ho dubbio, tutti quelli che abitano i quadri lo sono. Ogni immagine che dalla forma interiore muta in oggetto, che dall’insostanza aerea diventa, dapprima liquida come il colore, per poi coagularsi, allora inizia ad esistere.
Quello che ho allestito nella stanza è il mio teatro personale, è parte della verifica, del processo che rende vero quel pensiero gassoso.
I miei detrattori, sì i miei, perché in pittura ognuno ha i propri avversari, mi accusano di presentare solo quello che vedo; quel che è già vero; e non avrebbe bisogno di venir dipinto se già esiste. È come affermare che il teatro non ha ragione di essere, perché consiste di uomini in carne ed ossa. Ma gli attori non si mostrano solamente, sono lì con l’intento di rappresentare. Interpretano historie, prestano le loro sembianze ai personaggi, agli dèi e li fanno parlare, gli fanno dire cose che non hanno mai detto. Così ho avuto il pensiero di portare il teatro in pittura, in questo palco sospeso tra la luce e il buio, tra la vita e la morte.
Come in teatro, pendono lunghe corde dal soffitto, perché gli arti possano riposarsi nelle pose più difficili da tenere e al muro vi sono alte mensole piene di cuscini, sulle quali far poggiare un bimbo, come fosse su una nuvola.

Dalla mensola del cielo domestico gli sguardi degli immortali arrivano a noi con un altro sapore, con un significare più vero, se anche loro sono investiti dalla nostra stessa luce. Non ho mai sopportato la luminescenza dell’empireo, il pulviscolo dorato che allontana gli dèi dalla terra. Sono cose da cupola. E dopo quella del Correggio, che è l’unica mirabile, non se ne dovevano fare altre, ché sono tutte copie. Quelle prospettive di luce hanno qualcosa di fasullo, quel che ci muove amore deve essere vicino a noi, imprendibile ma vicino, fatto di una forma che pesi e produca ombre, il resto sono fandonie!
Le pareti negre mi servono per un effetto di notte, per poter ritrarre la notte durante il giorno. Come dal fondo del pozzo è possibile vedere le stelle, per il buio che, nell’avvolgere l’occhio, vince il potere del sole. Così al centro della stanza, un passo oltre il cavalletto, ho messo una tenda pesante, che mi fa dipingere alla luce meridiana, e non potrebbe essere altrimenti, mentre al di là, nel mio picciolo teatro, non è ancora l’alba e non la sarà più.
Qua, intendo nell’inverno della terra, è sempre più notte e sempre meno giorno, è inutile che ci raccontino di un sole che inonda le chiese e le case, dentro di noi è notte fonda e da lì si deve ripartire.

[…]

VI

Amor vincit omnia. Non so più se l’amore vinca davvero su ogni cosa. Talvolta mi sembra che anche l’accadimento più minuto riesca a soverchiare il bene in questa morra della vita. In ogni caso io mi sento battuto da tutti e da tutto: dagli affetti e dagli accadimenti. Ho cercato di parlare dell’amore sacro in modo feriale e dimostrare quello profano in forme pure, scorgendo una strada di mezzo che è poi quella in cui camminiamo tutti.
Doveva essere un antidoto al veleno di Qohèlet quel mio genio della giovinezza, che domina sugli instrumenti delle arti con un riso ignudo. Il Tempo dell’Ecclesiaste porta vanità agli sforzi dell’uomo e si fa beffa delle imprese dicate alla durata. Quel libro della Bibbia mi era sempre sembrato uno smarrimento di Dio, il più alto grido rivolto al Signore del significato, ma ora lo rileggo nella disperanza di un uomo verso la sua parte, sempre affaccendata in lavori e in smanie che non valgono la polvere alzata in aria.

Anche io talvolta mi sono fatto giuoco degli uomini e dell’amore e a questo punto posso anche rivelare una facezia, di quelle che i pittori si divertono a secretare entro le loro opere, per poi udire li giudizi più inverecondi uscire dalla bocca dei saccenti.
Quando acconciai Cecco, quel mio giovine aiuto, a sedere su di uno sgabello, nella persona dell’Amor vincitore: con una gamba distesa in avanti e l’altra ripiegata sul polpaccio, di lì a poco la nudità esposta all’aria e le formiche, che si avvertono di dentro al corpo, gli provocarono prurito. Non teneva ancora le ali addosso, le aggiunsi dopo, ma avevo chiesto quel poco sforzo di sopportazione, che c’erano lavori più duri per un apprendista!
Per un po’ resistette ma ad un certo punto lasciò cadere la freccia che gli avevo messo nella sinistra e iniziò a grattarsi le natiche, sforzando all’indietro il braccio e usciendosene con un sorrisetto di circostanza. Gli dissi allora di lasciar la mano nascosta dove la teneva e pure di continuare a darsi sollievo. Quel riso di bambino mi parve la cosa più vicina all’amore che potessi mai sperare di avere davanti al pennello.

Qualcuno giunse a parlare di un’espressione priva di natura, di una posa troppo materiale e di una forma senza disegno. Questa fola che la mia pittura non habbia disegno è la cosa più stolta che si possa dire. Sotto il Peterzano un giovane non sarebbe giunto nemmeno alla pittura senza avere capacità di profilare e senza tirar di tratto. Ho sempre esercitato il disegno lungo tutta la mia vita e quei segni di sanguigna o di carbone sulla carta hanno preparato ogni volta il nido alle idee. Mi sono cari e misteriosi come le cose che riescono possenti nella semplicità.
Ma, da quando con la pittura intendo rappresentare la notte del mondo, i contorni hanno dovuto fare un passo indietro, e sono stati affogati almeno per metà nel lago di negro. Basterebbe avere occhi coi quali guardare l’altra parte, per comprendere che senza disegno non si riuscirebbe a compiere, allo stesso modo in cui non si scava un marmo senza aver prima formato un modello di terra. Chi non si è mai sporcato le mani finisce per lordare le parole e pensa che le imprese si trovino già bell’e pronte come si presentano innanzi al loro naso. Molti artisti, e il Buonarroti era tra questi, non hanno amato rivelare la parte di strumento della fatica e hanno costruito il silenzio attorno all’opera, lasciando a becco asciutto il pretesto. I miei fogli hanno seminato tutte le stanze in cui mi sono piantato, ed ogni volta che sono ripartito li ho lasciati per concime alla terra.

Anche l’opera che ho davanti a me è oramai asciutta ed è quella che può chiudere la mia stagione di fuga. Un quadro per il cardinal Scipione, l’unica persona che mi può riscattare; la sola strada rimasta alla mia pittura per ritornare fino a Paolo V. Il nepote del papa ha già diverse mie figure e so che ne vorrebbe altre. A tal proposito, per coscienza di quel che passo, mi sono figurato nella testa di Golia e questo lo vedono tutti, ma solo chi mi conosce da lungo tempo sa che vi sono le mie sembianze anche nel giovine David. Ero pressappoco così quando ho cominciato a pingere e solo un breve braccio di vita mi separa da quel che ora sono. L’incipit di un pittore serra in mano la sua stessa fine. Vale sia per lo stile che per l’esistenza. Da come si scocca la freccia si avverte subito se il bersaglio verrà colpito. Ma qui la preda sono io e l’unico premio al quale posso ambire è il perdono.
Atto di penitenza e di dolore è questo dipinto che mostra l’umile vittorioso mentre tiene per i capelli il superbo sconfitto. Humilitas occidit superbiam è la sigla sulla lama, sopra alla quale la mestizia e il rimorso si dispongono. Mi pare riuscita sincera la commiserazione che esprime il ragazzo, mentre gli occhi del gigante sono ancora al di qua della vita.
L’ultimo momento del Golia l’ho inteso per quando i pensieri si mettono in mezzo agli occhi e aggiungono tra loro un breve ma significativo spazio. Così, per una misura che di poco si percepisce, le sfere perdono il foco della visione. È nello smarrimento di quella fiamma, nel mancato nitore del senso, che lo sguardo si fonde e diviene un unico impasto con la mente. Un liquido caldo che vagheggia soprapensiero.

Domani mattina sarò imbarcato e spero per l’ultima volta. La feluca mi riporterà a Roma e lì potrò cominciare da un capo nuovo la mia vita.

 

Brano corrente

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