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23 Marzo 2017 | Archivio / Protagonisti

Elisabetta Sirani: a me i pennelli

La pittrice bolognese che dimostrò agli uomini del Seicento di cosa è capace una donna

A cura di Vittorio Ferorelli

Dipingere con passione, energia e sensibilità femminili in un mondo profondamente maschilista e retrivo, resistendo a tutele, sospetti e maldicenze: questo è ciò che fece la protagonista di cui vi raccontiamo oggi, cari amici e care amiche di RadioEmiliaRomagna. La macchina del tempo ci porta nella Bologna del Seicento e ci mette di fronte al viso aperto di una giovane donna che in dieci anni realizzò quasi duecento opere pittoriche, lasciando però il mondo troppo presto.

Elisabetta Sirani nasce all’ombra delle torri felsinee nel 1638. Comincia da bambina a tracciare disegni e a impastare colori dentro il laboratorio del padre, pittore e mercante d’arte, allievo del grande Guido Reni. Ma non si limita all’arte figurativa, legge libri con entusiasmo e allena il suo orecchio musicale. A soli diciassette anni è già in grado di dipingere piccole tele a soggetto religioso, commissionate da signori e dame che desiderano pregare nel segreto delle proprie stanze. Ha messo a punto una tecnica personale: parte da un rapido schizzo, mette a fuoco i dettagli con l’aiuto dell’acquerello e poi passa al dipinto vero e proprio. Con una velocità che sorprende.

Il suo stile pulito e la morbidezza dei suoi colori attirano l’attenzione di committenti sempre più importanti. Nel 1658, appena ventenne, riceve un incarico molto prestigioso: un grande telero che raffiguri il battesimo di Cristo, destinato alla chiesa di San Girolamo alla Certosa. L’opera andrà a completare un ciclo realizzato da altri pittori, tutti maschi, e la renderà famosa, anche al di fuori della città pontificia. Quattro anni dopo, quando il padre smette di dipingere a causa della gotta, sarà lei a dirigere la bottega. Al numero 7 di via Urbana ‒ raccontano i cronisti dell’epoca ‒ le fiaccole sono accese dall’alba al tramonto, tutti i giorni eccetto la domenica, e mentre Elisabetta lavora di pennello trova anche il tempo per conversare con gli ospiti e godere con loro, dal vivo, della raffinata musica barocca.

Dipingere in pubblico è anche un modo per fugare i sospetti di chi non ritiene capace di tanta maestria una donna. Ma non è solo la sua rapidità a colpire gli uomini del tempo. Li spiazza pure il suo stile, fatto di pennellate ampie e di impasti fluidi, quella “sprezzatura” che consiste nel fare cose mirabili con grazia leggera, “senza fatica e quasi senza pensarvi”. Li turba l’audacia con cui sceglie i soggetti di molti dipinti: non solo sante devote e madonne dolcissime, anche eroine pagane, capaci di uccidere il loro violentatore o di colpirsi con un pugnale per affermare la propria volontà. Li sconcerta il fatto che firmi le sue opere senza ritegno, in un’epoca in cui pochi pittori maschi lo fanno, e che lo faccia per giunta in maniera così “creativa”, tracciando nome e data su bottoni, polsini, scollature e cuscini. Li colpisce che crei una scuola d’arte per bambine e ragazze, dove accoglie anche le sue sorelle. Li rassicura, in fondo, pensare che dietro e sopra di lei, a far da nume tutelare, c’è comunque un uomo, suo padre. Ma alla fine li scandalizza che questa donna non si sposi e che viva della sua professione, al punto di annotare con dovizia ogni opera nel suo diario.

Nel 1665, quando a soli ventisette anni Elisabetta Sirani muore all’improvviso, fulminata da un’ulcera, la sorpresa è grande. Il suo nome è diventato familiare nelle corti italiane ed europee. Il funerale è solenne e la sua tomba viene eretta accanto a quella di Guido Reni, di cui viene considerata erede spirituale. Negli encomi ufficiali, in omaggio alla concezione maschiocentrica, si esalta la “virilità” di una ragazza che dipingeva “da homo, anzi più che da homo”. Poi, sulla sua morte, si costruisce il pettegolezzo, si adombra il sospetto di una trama, si chiacchiera di avvelenamento: che sia stato il padre invidioso? o l’allieva gelosa? o la serva traditrice? Qualsiasi cosa pur di negare l’evidenza di una fine provocata dall’eccesso di lavoro e ammantarla con una veste più “donnesca”.

[Per approfondire si possono leggere i contributi di Adelina Modesti e Benedetta Campo sui siti: “Enciclopedia delle donne” e “Storia e memoria di Bologna]

 

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