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17 Luglio 2014 | Racconti d'autore

Esame di coscienza di un letterato

Testo tratto dal libro omonimo di Renato Serra (a cura di Vincenzo Gueglio, Palermo, Sellerio, 1994) – terza puntata.

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Un secolo fa, nel luglio del 1914, aveva inizio il primo conflitto mondiale. Qualche mese dopo, prima di partire per la guerra in cui morirà poco più che trentenne, lo scrittore cesenate Renato Serra rifletteva sul da farsi, interrogando la sua coscienza e quella dei suoi contemporanei.

Che cosa rimane di tutto il peso di prima? Un sorriso mi riporta, attraverso spazi e spazi, a una inquietudine che si perde lontana, sotto i miei piedi, come le casette della mia cittadina, raccolte laggiù in una immobilità di pietra tagliata a secco, senza toni e senza intervalli: muri pallidi e campanili invecchiati; e tutto così piccolo, così fermo!
È lontana; non è più mia. In me non c’è altro che il vuoto. E in fondo al vuoto, il senso di tensione che viene dai ginocchi irrigiditi o da qualche cosa che si è fermato nella gola: la stretta delle mandibole, quando la testa si rovescia indietro a lasciar passare quello che cresce lento dal cuore.
Non è niente di straordinario. La mia carne conosce questa stretta improvvisa dell’angoscia, che sorge dal fondo buio, fra una pausa e l’altra della vita monotona, e l’arresta: così; le gambe inchiodate alla terra, e tutto l’essere concentrato in uno spasimo di ansia, che tende a una a una le fibre.
Finché la tensione diventa sospiro; lenta onda che cresce dal petto oppresso e gonfia la gola salendo su su per tutte le vene; irresistibile onda della vita, che non si può fermare. Se n’era andata, e ritorna. Tanto più calda e più piena, quanto da più lontano.
Solleva tutto, trasporta tutto con sé. Anche l’angustia, anche l’angoscia, anche il sospiro che sfugge dalle labbra stanche, e che io non penso di trattenere. Perché mai lo farei?
Esso è mio. È il mio essere, che non posso cambiare; e non voglio. È la parte più oscura e più vera di me stesso. Quando tutto il resto se n’è andato, questo solo mi è rimasto. Scontentezza, angoscia, spasimo; è la mia vita di questo momento. Adesso ho capito. Ho potuto distruggere nella mia mente tutte le ragioni, i motivi intellettuali e universali, tutto quello che si può discutere, dedurre, concludere; ma non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione.
Come ieri, come sempre. Quante volte ho portato con me questa compagnia. Non mai così intima come oggi, come questa, che non ha né volto né nome; è tutta una cosa con la mia solitudine più sola e con la mia contentezza più amara.
Il resto è caduto come scaglia dagli occhi dissigillati. Ho sollevato le palpebre e ho sentito la gioia del loro gioco, così semplice e così naturale nello staccare ciglio dal ciglio, e nel dare il passo quieto a tutte le cose del mondo: un piccolo cerchio viaggiante solo per me, nello spazio fra la retina e l’aria; l’ulivo che fa risuonare il metallo della sua scorza rugosa e il pallore delle sue foglie nella chiarezza che m’è davanti.
E insieme con ciò, dopo e prima di tutte le cose, la mia passione: angoscia: vita di questo momento. Perché non siamo eterni, ma uomini; e destinati a morire. Questo momento che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare.
Hanno detto che l’Italia può riparare, se anche manchi questa occasione che le è data; la potrà ritrovare. Ma noi, come ripareremo?
Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dirà, e noi lo sapremo; ci parrà d’averlo scordato, e lo sentiremo sempre; non si scorda il destino.
E sarà inutile dare agli altri la colpa. A quelli che fanno la politica o che la vendono; all’egoismo stolto che fa il computo dei vantaggi, e cerca nel giornale quanti sono stati i morti; ai socialisti ed a Giolitti, ai diplomatici o ai contadini. La colpa è nostra, che viviamo con loro. Esser pronti, ognuno per suo conto, non significa niente; essere indignati, disgustati, avviliti è solo una debolezza. La realtà è quella che vale. Anche la disgrazia è un peccato; e il più grave di tutti, forse.
Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo. Noi, quelli della mia generazione; che arriviamo adesso al limite, o l’abbiamo passato di poco; gente sciupata e superba. Chi dice che abbiamo spesa male la nostra vita, senza costruire e senza conquistare? Eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato; non avevamo perduto neppure un attimo dei giorni che ci son passati come l’acqua fra le dita. Perché eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice!
Non siamo asceti né fuori del mondo. Vivere vogliamo e non morire. Anche se ci tocchi quello che non si può scansare col corpo, e che è sempre vita, quando lo incontriamo camminando per la nostra strada. Non abbiamo paure né illusioni. Non aspettiamo niente. Sappiamo che il nostro sacrificio non è indispensabile.
Ciò fa più semplice e più sicura la nostra passione. Semplice come questo fremito del pascòre, che sorge dalla terra bruna e mi sfiora le dita, mi fa sentire che sono calde e gonfie nell’aria viva: e l’acqua dev’essere ghiaccia laggiù tra il grano dove s’è fermata tra solco e solco; son rivoli e pozzette chiare; che lascian vedere l’argilla cruda sul fondo; e, sopra, sul nastro liquido teso brilla svolgendosi il fumo denso delle nuvole, come inchiostro che si scioglie in luce.
Si ha voglia di camminare, di andare. Ritrovo il contatto col mondo e con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono venire con me. Sento il loro passo, il loro respiro confuso col mio; e la strada salda, liscia, dura, che suona sotto i passi, che resiste al piede che la calca. Non ho altro più da pensare. Questo basta alla mia angoscia; questo che non è un sogno o un’illusione, ma un bisogno, un movimento, un fatto; il più semplice del mondo. Mi assorbe tutto nella sua semplicità; mi fa caldo e sostanza.
Fede è sostanza… No. Fede è una parola che non mi piace, e quanto a cose sperate, non ne conosco.
Non credo che ci sia niente di fatale o di misterioso nel mio desiderio. Fatalità della razza risorgente, istinto di umanità ricuperata, son tutte frasi che non destano in me nessuna eco precisa.
Le cose che io penso sono determinate e comuni. Quanto all’umanità, conosco solo quelli che ho vicini: quelli che mi fermavano quest’estate, quando passavo in bicicletta, in riva al mare, o per lo stradone infocato: si ricorda, caro professore, quando glielo raccontavo? (Era una delle ragioni per cui io rimanevo più tranquillo accanto a lei che balzava e fremeva: mi guardava cogli occhi fissi: vedeva forse di me solo un’ombra, piccola, fra grandi ombre nere calanti sopra la terra. Anch’io cercavo altre cose, fuggite e desiderate, perdute e presenti, laggiù sulla riva del mare; sull’orlo, dove l’onda fugge e ritira con sé l’ultimo velo dell’acqua, mentre i fiocchi di spuma si spengono con un sibilo lieve; resta scoperta una riga di sabbia bruna umida e intatta, come un sentiero nuovo per venirci incontro a piedi scalzi… nessuno. Nessuno deve venire. – Così andavamo l’uno presso l’altro, scambiandoci le parole, da rive ora vicine ora lontane: qualcuna cadeva, o arrivava con suon mutato. Qualche volta le sembrava di ascoltar me; e io non avevo parlato; era il suo cuore che batteva. Avrei avuto tante cose da aggiungere o da spiegare, tante cose accumulate e messe da parte pensando a lei, dopo quella sera che ci lasciammo, quasi stanchi di parole, fuggendo ognuno verso la sua inquietudine: la sua voce mi seguiva ancora fra le lunghe ombre del tramonto e io fissavo la ruota silenziosa che correva sulla polvere biancheggiante, come se fossi già solo. Avrei dovuto tornare, se ci fossero state buone notizie del paese di Francia. Ci fu la Marna; vinsero i francesi e non tornai. Noi non avevamo – no non abbiamo ancora né combattuto né vinto). Una voce dal carro, che rasentavo passando; voce d’uomo supino, fra il sobbalzare e il cigolare del carico di barbabietole o di carbone, che va sotto il sole e arriverà a notte alta; o un richiamo lento di là dal canale, fra i solchi biancastri e calcinati su cui dorme il riflesso del cielo e del mare, carico di un azzurro così ricco, che anche la freschezza del suo soffio ha un peso sul viso. Sentivo la voce, strana, fra il silenzio e il fremere uguale delle gomme. «Signor tenente, ci torniamo presto?». Richiamati delle ultime manovre, che mi parlavano da uguali a uguale, così diversi, colla frusta o il badile in mano, la camicia aperta e la faccia in sudore, corrugata un poco dal dubbio; dura e chiusa, anche alla luce del sole. Sentivano la risposta, attenti; ci scambiavamo qualche altra parola indifferente; un saluto breve; e via. Nessun segno di commozione o di entusiasmo. Bastava essersi riavvicinati per un momento.
E così tutti gli altri che mi han fermato, interrogato tante volte quest’inverno. Tanti che avevo dimenticato, tanti che non avevo mai conosciuto; ma tutta gente che dovrebbe andare, se viene quel giorno; si sentono più vicini, intanto. Eran sempre le stesse domande: «che si vada? e quanto si tarda? e quand’è che ci ritroviamo?», qualcuno sorridendo aperto, qualche altro rassegnato, qualcuno anche sospettoso, con un desiderio torvo di sentirsi rispondere di no. E sempre le solite risposte: «ma, se ci tocca, si va tutti questa volta. – Quasi, quasi, credo che ci siamo proprio. – O prima o dopo, quando bisogna andare, si va. Ci troveremo…», con una reticenza istintiva, che mi spingeva a velare il mio desiderio, per avvicinarlo alla loro preoccupazione, senza offenderla. Tanto, quello che conta non è la parola; è l’occhiata di complicità che ci scambiamo e che ci unisce, anche su rive opposte e con animo diverso, gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come saremo nell’andare, domani.
Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso istintivo nell’incontrarmi – sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro –; quelli che mi stendon la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di me i loro occhi un po’ turbati con un senso di improvvisa fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri… Guida da poco: ma io andavo avanti, e loro dietro. Così si farebbe ancora. L’uomo non ha bisogno di molto per sentirsi sicuro.
Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene.
Mi contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è così naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c’è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti.
Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri fra i monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili.
Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore.
Può esserci anche qualche cosa di vero, finché si resta per quelle strade, fra quelle case.
Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché: se venga l’ora.
Può darsi che non venga mai. È tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!
Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre più forte?
Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza.
E questa è tutta la certezza che mi bisognava.
Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione.
Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene.
Dirai che anche questa è letteratura?
E va bene. Non sarò io a negarlo? Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi.

Cesena, 20-25 marzo [1915]

[fine]

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