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31 Ottobre 2013 | Racconti d'autore

Fellini, ovvero: la bella confusione

Racconto di Camilla Cederna, tratto da “La dolce vita del cinema d’autore (1942-1975)”, a cura di Renzo Renzi (Bologna, Cappelli Editore, 1999)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

31 ottobre 2013


Venti anni fa, il 31 ottobre del 1993, ci lasciava Federico Fellini, l’indimenticabile regista riminese. Ma il 2013 è un anno molto generoso di ricorrenze felliniane: si celebrano, infatti, i sessant’anni dei “Vitelloni”, i cinquanta di “Otto e mezzo” e i quaranta di “Amarcord”. 
Questo testo, risalente proprio alla preparazione di “Otto e mezzo”, introduceva il libro che alla pellicola-capolavoro fu dedicato nella collana “Dal soggetto al film”, ideata per l’editore Cappelli dal critico e cineasta bolognese Renzo Renzi.

Fango e Moby Dick
Ottobre 1960

Nella sua vasta automobile foderata di pelle color crema, subito dopo il successo della “Dolce Vita”, Fellini mi aveva parlato lungamente di sé. “Quando sono con te, mi par d’andare in giro con lo psicanalista”, diceva, e per me andava benissimo che la pensasse a quel modo, perché dovevo scrivere cinquanta cartelle su di lui per “L’Espresso-Mese”.

Così, in varie puntate e moltissime digressioni, avevo avuto un bel racconto della sua infanzia, con annessi terrori, mostri, complessi, avventure e bugie; della sua giovinezza con gli scherzi di Rimini, gli innamoramenti a catena, le esperienze nei giornali e nel varietà, la fuga dai tedeschi e ancora interventi prodigiosi e incontri fiabeschi.
Poi l’incontro con Giulietta, così diversa dalle donne che fino allora aveva conosciuto, il felice matrimonio, l’affannoso dopoguerra, la catena dei film, gli sconforti, il successo, e sempre, allora come adesso, un senso di assoluta disponibilità a tutto, un certo compiacimento di sé, il gusto mai cessato dello spettacolo, il piacere delle scene patetiche, più o meno pittoresche, menzogne da un lato e mascalzonate dall’altro, uno stato d’animo sempre oscillante fra il turistico, lo zingaresco e il randagio, una smisurata e cronica ammirazione per le donne (personaggi-chiave della fantasia di Fellini insieme ai preti intesi come i rappresentanti di una religione-paura-senso-di-colpa), un continuo affiorare di dubbi, rimorsi, rimpianti, e senza sosta inoltre quel senso dell’attesa di qualcosa di straordinario e d’insolito, che per suo uso e consumo stia lì lì per accadere.

Fu invece nella sua successiva automobile, altrettanto vasta ma foderata di pelle rossa che qualche mese dopo cominciò a farmi qualche accenno al film che sarebbe venuto dopo, ma non all’episodio di “Boccaccio”, bensì a quello che, tutto confuso e come diceva lui “allo stato magmatico”, gli stava dentro da un pezzo e a tutti i costi voleva saltar fuori. Attaccava quindi a parlarmene, in modo magmatico naturalmente, raccontandolo a brandelli, e interrompendosi ad ogni minimo appiglio che gli offrissero il paesaggio, o un passante, la forma di un albero o il sole che, prima del tramonto, faceva improvvisamente lampeggiare una casa.

(La vicenda, un ritratto di uomo a più dimensioni, la sua vita di giorno, i suoi sogni di notte, le sue fantasie a ogni ora, l’aveva già accennata a Flaiano, incaricandolo di aiutarlo a dipanarla. Con lui poi si era trovato varie volte, parlando come sempre di quasi tutto fuori che del film, ma gli incontri, come al solito, erano stati assai “nutrienti”).

Dunque, il protagonista è un uomo, immagina un uomo sui quaranta, piuttosto stanco, col fegato in disordine. (“Tu?” insinuavo. “Ma cosa dici?” faceva lui), che a un certo punto decide d’andare a fare una cura. “Lo immagini che meraviglia l’ambiente delle terme, il rituale della fonte, e tutto quel fango nei sotterranei, tutti quegli uomini che nel fango diventano mummie, io ci vedo benissimo il protagonista e chi sa perché anche un vescovo vecchissimo, quella è una visione precisa, tutto grigio, lo vedo, vischioso, a bolle, come screpolato…”.

E guidava mollemente, ampliando il tema del fango e delle terme, che ricostruiva naturalmente in stile liberty, tipo Kursaal o Casinò, accennando agli incontri che uno può farvi, al riposo che al protagonista suggerisce una revisione completa della sua vita, ai sogni stimolati dal completo rilassamento e dalla debolezza prodotta dalle cure e che si intersecano con la realtà, dovevano essere frammenti, bagliori, fatti per aumentare la confusione. Finché uno spiazzo di prato illuminato dai fari gli faceva cambiar tema di colpo, e rievocare il film appena fatto.

Ecco, era lì dove con Mastroianni e la Ekberg aveva girato la scena della passeggiata di notte col gatto in testa, era lì che quella valchiria-bambina lo aveva esilarato sì, ma anche esasperato perché appena cominciato a recitare, come a scuola, ma con più grazia, aveva alzato due dita per far capire al regista di voler fare pipì. Va bene per una volta; allora tutti spenti i fari, la troupe in attesa, e la diva appartata al buio nella campagna, ma dopo un quarto d’ora la stessa identica richiesta e ancora la corsa dello splendido candido cigno verso dei protettivi cespugli, e poi una terza volta ancora, e allora si era rifugiata nella sua roulotte.
Volevo sapere poi com’era andata a finire quella buffa leggenda diffusa nella troupe, la storia dell’elettricista che sulla toilette della diva, sempre dentro la roulotte, aveva trovato un bicchiere, così diceva, di champagne? Bè, in seguito al fatto, Anita gli aveva regalato ventimila lire e da allora chi sa perché, l’aveva sempre chiamato papà.

Allora dov’eravamo rimasti? Ah, sì, al fango e a quel pasticcione di protagonista arrivato a un punto morto della sua vita. Dev’essere un tipo un po’ serio e un po’ clown (“Tu in fondo” tornavo a sussurrare. “Ma fa un po’ il piacere!”). Alle Terme viene la moglie a trovarlo e anche l’amica, e lui una volta di più non sa come barcamenarsi e va avanti come al solito a furia di bugie. Poi il suo passato lo assale, carico di incertezze, rimorsi, nostalgie, e come in sogni successivi gli si presentano tutte le donne che ha avuto, o che ha soltanto desiderato.
“Ti avevo parlato della Saraghina, quella specie di Moby Dick riminese che sulla spiaggia quando avevo otto anni, era stata per me la rivelazione della donna in tutta la sua bieca potenza? Ce la vedo benissimo. Ci metterei dentro anche le punizioni inflitte in collegio, al protagonista bambino, te le avevo raccontate, non è vero? per esempio, quella a cui mi si obbligava se avevo disobbedito: stare in ginocchio sul granoturco almeno per mezz’ora.
E ancora altre donne, la bella amante-madre che sotto sotto in qualche modo somiglia alla balia e alla Saraghina, tutta la serie delle occasioni perdute, e hai in mente quello che resta sempre il mio sogno preferito: poter vivere in una casa piena di donne, e farmi dire i loro segreti, amarle tutte a turno, poi dar marito a una, cercare il fidanzato all’altra, far dei bei regali a tutte, questa specie di harem ce lo metto, e in mezzo il mio uomo, magari con la frusta in mano, una frusta affettuosa, s’intende. Forse anche una scena di guerra, e alla fine un gran circo con tutti i personaggi presenti nel film che fanno la passerella, un impiccato che ciondola a un lampione, e il protagonista che, magari anche vestito da pagliaccio, viene fuori a ringraziare. In fondo, te ne sarai accorta, questo film non ha niente di autobiografico. Come attore mi piacerebbe Laurence Olivier, ma anche Charlot, perché deve essere un film amaro, ma comico”.
“Comico?” facevo, perché mi sembrava di non aver capito bene. “Ma sì, salterà fuori un film comico” era l’ostinata conclusione.

E si rannuvolava tutto se non ci credevo, erano idee che lo tormentavano allo stato di abbozzo, personaggi che erano ancora ombre, ma erano diventati ossessivi. Aveva già parlato ai suoi sceneggiatori Flaiano, Pinelli, Rondi, e probabilmente sarebbero nati tutti da quel mosaico a cui i tre amici avrebbero portato le loro pietruzze. Come al solito bisognava aspettare soltanto che maturassero.

Brano corrente

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