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28 Novembre 2013 | Racconti d'autore

Il barbiere di Reda e altri scherzi

Racconti brevi di Piero Zama tratti dal libro “Umorismo romagnolo. Scherzi e schermaglie casalinghe (dal vero, e con un piccolo contorno di fantasia)”, a cura di Salvatore Banzola (Faenza, Tipografia Faentina Editrice, 2012)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

28 novembre 2013

Il ricordo di Piero Zama, morto nel 1984 alla soglia dei 100 anni, è ancora vivo nella sua Faenza. Insegnante, preside, direttore della Biblioteca comunale, ha raccontato con affettuosa ironia i personaggi e le storie della città che amava.

Il barbiere di Reda

A Reda, ferace frazione del Comune di Faenza, c’era un barbiere che non perdeva occasione per vantare che lui – pur essendo chiuso in quel piccolo luogo – aveva viaggiato in lontani paesi, specialmente nella Scozia. Per questo i compaesani lo premiavano, affibbiandogli un nomignolo, e cioè Scozia.
Ma il molto viaggiare lo aveva impigrito a tal punto, che si rifiutava persino di fare un passo per allontanarsi dalla poltrona in cui sedeva il cliente per raggiungere, col pennello in mano, il pentolino dell’acqua calda che era proprio a un passo, sul fornello.
Quanto al rasoio se lo curava lui, di volta in volta, affilandolo sulla striscia di cuoio, almeno per curargli i denti; e quanto alla macchinetta tosatrice, non c’era bisogno di cura, perché lì, all’occorrenza i denti, se non tagliavano, intenagliavano e con uno strappo i capelli erano serviti.

I clienti non erano entusiasti per questi servizi, ma rassegnati, anche perché Scozia non aveva sul posto alcun emulo.
Anzi, avevano anche superato la brutta sorpresa dello sputo che Scozia scaricava nel pennello, quando gli pareva faticoso o superfluo far il passo per raggiungere il tegamino dell’acqua calda. Tutt’al più i clienti osavano comunicare – inascoltati – le loro pene, a proposito dei denti, poiché sospirando e dimenandosi sulla poltrona, qualcuno esclamava: Basta, basta Scozia, fìrmat si no am pèss adòss!
Ma Scozia era un esempio di onestà e – insieme – di economia. Viveva con poco, e teneva le tariffe basse fino all’incredibile, vincendo qualsiasi concorrenza.

Capitò un giorno, nella botteguccia di Scozia, un cliente che non era del luogo, ma che per economia si poteva considerare un fratello germano di Scozia.
Sedette naturalmente nella solita cigolante poltrona, accettò l’addobbo intorno al collo e sul petto della solita – più che solita – tovaglia, ascoltò docilmente il racconto dei viaggi nella Scozia, ma quando venne il momento dello sputo tiepido sul pennello asciutto, fermò il barbiere, afferrò il pennello dicendo:
– Scusate, sul pennello ci sputo io!
Scozia nulla obiettò e facendo la saponata richiese ed ottenne altri sputi, avvicinandosi ogni volta, anche troppo, alla bocca del cliente.

Finita l’azione saponifera, affilati i denti del rasoio, e liberata la maggior parte dei peli più in vista, Scozia riafferrò la solita tovaglia e senza l’ausilio di sputi tolse dalla faccia del cliente la residua umidità.
– Servito! – esclamò, e inchinandosi aggiunse garbatamente una cifra, la solita modesta tariffa, pronto a tendere la mano.
– Un momento! – disse il cliente tirandosi fuori dalla poltrona del supplizio – voi avete chiesto gli sputi a me: gli sputi ve li ho dati io, e quindi ho diritto ad uno sconto.

Ma Scozia, che più volte – durante l’operazione – aveva preso per il naso il cliente per tenerlo fermo, non si lasciò prendere per il suo e, col dovuto rispetto, rispose: – Mi dispiace, ma debbo dire che non posso fare sconti nemmeno per un centesimo, perché lo sputo è fuori tariffa. Se non lo credete, chiamo qui i miei clienti, e ve lo faccio dire.
Il cliente, anche per evitare quelle testimonianze, chinò il capo rassegnato e pagò la tariffa senza sconto.

L’imperativo categorico

Il mio caro amico Evangelista era certamente ricco di ingegno, non meno ricco di cultura storico-filosofica, tenace ed abile nel manovrare con sillogismi, e tuttavia semplice come un bambino, e ingenuamente sicuro della validità assoluta dei suoi convincimenti.
Ho notato più volte la sua sorpresa ed il suo rammarico quando incontrava un amico o altra persona che non condivideva le sue stesse opinioni o non si lasciava convincere dai ragionamenti che gratuitamente faceva conoscere.
In questi casi ingaggiava una lotta verbale che non lasciava campo a repliche, a risposte, a interruzioni, a niente che non fosse consenso pieno, assoluto, convinto.

Una sera, sul tardi (si era in settembre e il mosto già bolliva nei tini) Evangelista faceva il peripatetico col suo amico ragionier Campana, lungo il grande viale chiamato Stradone.
Non si sa come, era venuto in ballo Kant col suo imperativo categorico, che nelle lezioni di Evangelista, professore di filosofia nel Liceo classico, aveva un posto fondamentale, simile a quello tenuto dal Teorema di Pitagora nelle lezioni di matematica delle scuole secondarie.
Il ragionier Campana che aveva il pallino della cultura in non pochi campi fra cui quelli delle lettere italiane, della storia e della filosofia, ascoltava sulle prime la fervorosa lezione kantiana, e con la sua attenzione animava sempre di più il suo amico professore.
Ma questi continuava, continuava senza fine il suo dire, e non lasciava posto, anzi non avvertiva i tentativi che venivano fatti per interrogare o per obiettare.
Il monologo kantiano già durava da un paio d’ore, ed il pensiero a proposito di andare a casa non faceva capolino.

Indarno Campana ripeteva le parole cena, tardi, notte, ho capito, eccetera. I due, l’uno a fianco dell’altro, avevano percorso più volte il viale, sostando e riprendendo il cammino con quell’imperativo categorico che impediva il ritorno a casa non solo per la cena, ma anche per il legittimo riposo.
La notte era calata, e tutt’intorno regnava il buio. Inoltre il povero ragioniere stanco, stordito, quasi sfinito, già cominciava a sentire nel basso ventre un dolorino che lo induceva a pensare non all’imperativo categorico, ma ad un bicchiere di vino nuovo dolce dolce e polposo che aveva bevuto in quel pomeriggio visitando la cantina di casa sua.
Sì, l’imperativo categorico era un fondamento filosofico, era un fascio di luce nella coscienza dell’uomo, ma quel dolorino diventava dolore, ed un «bisogno» innominabile, di momento in momento, da urgente diventava urgentissimo.

– Ma io, ma io… – così si sforzava di dire il povero ragioniere – ma io…

Evangelista non lo udiva, non mollava, anzi teneva fermo con entusiasmo il braccio dell’amico, convinto di averlo convertito anzi redento sul piano filosofico, partendo da quel primo saggio sull’imperativo categorico di Kant.
Né Campana poteva liberarsi, anche se talvolta Evangelista lasciava libero il braccio perché proprio Evangelista, più eloquente che mai, gli si piantava davanti, quasi per impedirgli il passo, e certamente per inebriarlo con altre filosofiche dimostrazioni.

– Io, sì, va bene, ma io però, ascolta, un minuto, ti prego eccetera…

Questo era il parlare, l’invocare saltuario di Campana, che pareva il parlare di un balbuziente.
Ma ecco una decisione eroica: Campana si sbottona i pantaloni, piega le gambe, si mette giù in atteggiamento di ranocchio che spicca il salto, e urlando: – Basta, ti dico, non ne posso più, – accompagna questo suo intimo imperativo con una musica dove il trombone dominava con le sue robuste note.

– Basta?

Neanche a pensarci, Evangelista curvato sul paziente che cercava la sua liberazione, già dimostrava a tutto fiato ancora una volta la sublime grandezza dell’imperativo categorico. E si arrese soltanto quando Campana gli additò il corpo del reato.
Lo si vedeva appena, tanto era il buio, ma si sentiva anche troppo.

Ho visto un funerale

Questo è precisamente il tema che gli scolari di quarta elementare dovevano svolgere – dopo le dovute «ricerche» – nel tempo di otto giorni.
Di qui l’affannosa ricerca di un morto in parrocchia e – in mancanza – fuori di parrocchia.
Fra i temi svolti con geniale interpretazione rifulse il seguente:

«È stata proprio una bella combinazione che io ho trovato un morto nella parrocchia dove che sono arrivato quando lui coi suoi quattro compagni veniva giù dalle scale che lo tenevano stretto perché non sforzasse.
Finalmente lui è venuto sulla strada dove c’era la gente che poi con un spintone si è infilato dentro la sua carrozza che ci pendevano i fiori, e che, nel suo di dietro c’era anche una donna che tutti ci guardavano e che di qua e di là la tenevano stretta perché piangeva più forte col fazzoletto.
Tutta la gente che era lì voleva vedere il morto, ma lui non ci ha badato perché è rimasto dentro la sua carrozza che ha cominciato a camminare con le sue ghirlande che i fiori scossavano.
C’era davanti il prete con la croce del bambino della messa, e nel di dietro che un uomo che accomodava la fila della gente che io non ci volevo stare, e che lui invece mi voleva dare un tozzone, ma che io ci ho detto che dovevo fare il tema della signora maestra per vedere il morto e dove che lui andava.

C’era anche tanta gente che guardava la carrozza per vedere il morto, ma lui lo stesso che niente che è rimasto dentro la sua carrozza che quando lui è entrato nel borgo tutti hanno chiuso i portoni e le saracinesche, e lui come prima, non ci ha badato a nessuno come se non sentisse niente.
Però lui è voluto andare in chiesa che ho sentito proprio io che lo dicevano la gente; e difatti il sagrestano quando che ha veduto che lui arrivava si è tacato alla corda della campana grossa che suonava i botti che pareva un cannone.
Ma quel morto era dentro che non sentiva niente.
Quando che si è fermata la carrozza gli hanno aperto lo sportello del di dietro ed il morto che lo tenevano stretto si è infilato nella chiesa dove c’era tanta gente. Tutti si cavavano il cappello e lui non ci ha badato come niente.

Quella donna piangeva anche adesso e ce ne erano delle altre vicino a lei che piangevano per farci coraggio in compagnia.
Dopo i preti ci hanno cantato per un pezzo, che lui non ha sentito perché ci avevano messo di sopra una coperta nera con tutte le sue ghirlande.
In quel momento è arrivata anche la mia mamma che voleva vedere il morto, ma lui era là sotto, che non ci ha badato.
Poi ci hanno cavato la coperta, e lui è tornato nella sua carrozza che c’erano ancora quelle donne che hanno detto che sono la sua famiglia che ci ha sempre di dietro.

Quando la carrozza ha cominciato a camminare, mio babbo e la mia mamma siamo andati verso casa che era tardi. Ma quest’altra volta quando c’è il morto col suo funerale io ci vado di dietro con la sua famiglia perché si vede di più. Però questa volta mi son goduto lo stesso».

Un albero zoologico

Un anno – o poco più – dopo la fine della guerra, si parlava a noi reduci e si additavano gli arricchiti d’occasione, i cosiddetti pescecani.
Viene a spron battuto nel mio ufficio della Biblioteca una signora.
Un donnone sui generis, né bella né brutta, la quale di fronte a me che – per educazione – mi alzai dalla sedia rimanendo davanti allo scrittoio, aggiunse un po’ di rossore a quello che bene o male già ornava le sue guancie.
Al mio cenno si sedette.

– Signor Professore, noi nella nostra famiglia di mio marito abbiamo l’albero zoologico che arriva fino al nonno ed anche più in là. Però adesso vogliamo anche il suo stemma, che ci hanno detto che lei li ha tutti.

Passai con disinvoltura sopra la zoologia, chiesi quale era il cognome del marito, e la condussi premurosamente nella sala, davanti allo scaffale dove appunto era il registro contenente gli stemmi, a colori, di innumerevoli famiglie faentine e non faentine.
Mentre passavo da pagina a pagina per arrivare a quella che mi interessava, la signora non seppe trattenere i suoi monosillabi di ammirazione nel vedere tanti «cosini» pitturati con tanti colori.
Ed ecco il suo cosino disegnato con garbo, dipinto secondo le regole e – sopra – il cognome.
La signora si rabbuiò: nella parte più ampia dello stemma era dipinto un cinghiale, che però, col pelo chiaro e col codino a ricciolino, pareva un volgarissimo maiale.

– Signor Professore – disse finalmente quella signora che mi parve simpatica – quello lì io non lo voglio!
– Signora, come vede, qui c’è scritto il suo cognome. La sua famiglia ha questo stemma!

Pausa di sdegnoso silenzio da parte della blasonata.

– Ma questo non lo voglio: lo facciamo pitturare in un grande piatto di ceramica, e quell’animale non lo voglio!
– Signora, non so che cosa dirle: gli stemmi non li ho inventati io, non li faccio io…
– È lo stesso: me ne dia un altro senza animali, che poi mi “arangio” io.

Che fare? Data la povertà storica del documento, riaprii il librone, puntai il dito su uno stemma senza animali, fiammeggiante di giallo sul campo (che – dissi – corrisponde all’oro) con un albero che pareva di melograno coi relativi frutti (che – dissi – significava abbondanza) e la signora mi guardò mostrandomi un sorriso largo e pieno ed una bella fila di denti.
Simpatica davvero: e non mi pentii di aver ammazzato quel maiale!

Brano corrente

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