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6 Giugno 2013 | Racconti d'autore

Il bosco bianco

Racconto di Michelangelo Antonioni, tratto da “La dolce vita del cinema d’autore (1942-1975)”, a cura di Renzo Renzi (Bologna, Cappelli Editore, 1999)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

5 giugno 2013

Tra 2012 e 2013, per festeggiare i cento anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni, Ferrara ha dedicato al celebre regista cinematografico un ampio calendario di iniziative. Tra cui la mostra che chiude in questi giorni al Palazzo dei Diamanti, centrata sul rapporto tra il suo sguardo e la prospettiva delle arti figurative.
Questo testo, scritto nel 1964, durante le riprese de “Il deserto rosso”, introduceva uno dei libri della collana “Dal soggetto al film”, ideata dal critico e cineasta bolognese Renzo Renzi per l’editore Cappelli.

Fa molto freddo. Lo so, lo vedo negli altri. Il gelo mi entrerebbe nelle ossa se lo lasciassi passare, cioè mi distraessi. Ma ho troppo da fare. Non che abbia cose precise da fare, anzi non faccio assolutamente nulla, ossia chi mi vede certamente pensa così. Ma non è vero. Sto osservando il bosco che a poco a poco diventa bianco.
Ho anche altre occupazioni pratiche di poco conto, come controllare che tutti svolgano le loro mansioni, indicare agli imbianchini i punti del sottobosco e le cime dei pini ancora verdi, lo sanno che non voglio macchie scure ma qualcuna sfugge sempre, e se tingere un cespuglio è semplice, la cima di un pinus pinea alta quaranta metri, che da terra sembra uno spicchio limitato di verde, come la vede l’imbianchino dalla scala spinta più su dell’albero è un intrico di rami che non si finisce mai d’imbiancare. L’uomo si sporge più che può sulla scala che oscilla paurosamente e io trattengo il fiato perché è per me che quell’uomo è in pericolo e per quanto non sembri non sono insensibile a queste cose.

Ma oltre a queste che sono occupazioni spicciole, ce n’è un’altra che mi riempie completamente, ed è appunto guardare il bosco cambiar colore. Nel buio, o meglio alla luce dei proiettori, cerco di capire come saranno domani questi alberi bianchi, anzi grigiastri, contro il cielo grigio (uno strato di nubi lo copre da una settimana), vicino al cemento della fabbrica, alle sue torri. Siccome questo interrogativo non può per ora avere che una risposta intuitiva essendo notte, così io continuo a pormelo sempre più insistentemente. Per essere sincero, ho cominciato poco fa a formularlo.
Quando dissi che volevo il bosco bianco l’interrogativo non c’era, la frase mi uscì spontanea, suggerita da un’immagine che mi balenò in testa. Neanche l’ombra di un dubbio. Nemmeno, quando, appena detto che il bosco doveva essere bianco, constatai che mi guardavano come se avessero sentito nominare per la prima volta questo colore, se il bianco è un colore. E subito vollero sapere perché, come se fosse bastato cambiarlo, il colore, per averli consenzienti, come se col rosso col blu col giallo, che sono – forse ancora per poco – i tre colori fondamentali della scala cromatica, quell’interrogativo non avesse più ragione di esistere.

Non mi sono mai piaciute le domande, quando sono rivolte a me, perché implicano un senso ben determinato e costringono a mettersi al livello del raziocinio, mentre invece quando lavoro io sono sempre a un livello inferiore. E così mi accade che le domande siano dei puri suoni, privi di significato. Sono i momenti in cui più mi sento animale, cioè mi guardano come se lo fossi, e forse lo sono veramente.
Questo stato ha anche i suoi vantaggi, devo ammetterlo, perché si viene lasciati in pace. Ma non è il caso di questa notte. Chiunque passa di qui, attirato dalla luce, dal rumore, dalla nuvola bianca o non so da che, perché le cose che incuriosiscono non sono quasi mai le stesse per tutti, questa volta si mette in fila con gli altri, quanto a curiosità, e domanda: perché bianchi?

Guarda anche, è vero, tutti quegli operai che manovrano una enorme pompa montata su un camion che produce, come dicevo, una gran nuvola bianca, oppure salgono su scale altissime che si perdono nel buio o spostano proiettori e gruppi elettrogeni o riempiono bidoni di tinta o bruciano l’erba del prato, che non deve esser bianca, questa, ma scura, la bruciano con delle pompe a mano che lanciano benzina infuocata come dei lanciafiamme.
Lo spettacolo dev’essere allucinante, soprattutto perché visto attraverso il velo di nebbia prodotto dalla nuvola di tintura. Siamo tutti bianchi come mugnai. I passanti si fermano, osservano, si divertono, e dopo un po’ si avvicinano e dicono con l’aria di dire va bene, capisco, stupendo, meraviglioso, una sola cosa vorrei aver spiegata: perché bianchi?

Sembrerà strano, la prima volta che capitai lì per i sopralluoghi del film che avevo intenzione di fare, formulai subito molte ipotesi su quello che poteva essere diciamo così – male – il senso poetico di questo bosco che a prima vista escludeva così perentoriamente ogni idea di bosco. Cercavo di capire perché la escludesse, insieme cercando l’angolazione da cui eventualmente inquadrarlo. Prima di tutto il silenzio, che mancava completamente. Anche penetrandovi dentro, cosa che io feci subito, il bosco non rivelava dei rumori e nemmeno degli odori suoi tipici, ma era costretto ad accettare, attenuandoli appena, quelli cittadini, o se volete periferici.
Era circondato da strade, assediato; auto autocarri motorette in continuazione, persino un treno, sulla base costante di un ronzio di macchinari misto a sibili di vapore, e come odore quello di un fumo giallo pieno di acidi che impestava tutta la zona. Ronzio e fumo provenivano dalla grossa fabbrica (3000 operai) costruita nel mezzo di una enorme pineta della quale il bosco attuale è ciò che rimane, per il momento. La fabbrica è in funzione giorno e notte. Una volta chiesi al suo direttore se poteva interrompere per qualche minuto quel fumo che disturbava certe mie riprese. Rispose: “Sa quanto mi costerebbe un minuto? Centocinquanta milioni”.

È noto che Ravenna era circondata fino a una ventina d’anni fa da immense pinete e che oggi queste pinete stanno morendo. Lo si vede a occhio nudo: alberi secchi, rattrappiti, che, è proprio il caso di dirlo, vegetano senza speranza. Questa di cui parlo è la zona verde più prossima alla città, per questo la attraversavo tutti i giorni nei miei giri. A poco a poco, interessato com’ero a guardare tutto ciò che stava attorno al bosco, e che anzi il bosco spesso mi occultava, non mi accorgevo nemmeno più di lui, lasciavo che scorresse dal finestrino della macchina aspettando di ritrovare l’ormai noto paesaggio che veniva dopo.
Così il bosco perdeva, ogni giorno di più, la sua naturale caratteristica. No, non è esatto dire naturale, piuttosto quella che in altri tempi era stata la sua caratteristica, di bosco, natura perfetta e unica, ma ormai sostituibile, in quanto naturale ormai era che sparisse per lasciar posto a uno spazio da riempire con altre sagome, altri volumi, altri colori.
Questo bosco insomma si andava sfaldando come idea, per diventare di volta in volta: il paesaggio che si vede dall’ufficio di X nella scena numero tale, il fondo dell’esterno scena iniziale, e via dicendo. Finché assunse finalmente, e dico finalmente perché fu il risultato di un’opera di chiarificazione, un aspetto nuovo: quello di problema, il problema numero uno della sequenza che andavo immaginando.

Una cosa infatti era certa, e cioè che quel che è verde andava eliminato se volevo che il paesaggio acquistasse una sua originale bellezza, fatta di grigi aridi, di neri imponenti, e semmai di pallide macchie rosa e gialle, tubi o cartelli lontani. C’era anche del verde, ma si trattava di una esilissima ciminiera che tagliava orizzontalmente la fabbrica per poi salire a un’altezza prodigiosa, elegante e potente nella sua asciuttezza, più di qualsiasi albero.
E così quando il direttore di produzione mi annunciò, tempo dopo, che la domenica successiva avremmo potuto girare la scena davanti al bosco e mi chiese cosa serviva, io ebbi di colpo la certezza, nella misura in cui la si può avere in questo ordine di cose, che il bosco andava tinto di bianco, un bianco non sporco che poi, bene che andasse, in technicolor sarebbe risultato grigio, come il cielo in quei giorni o come la nebbia o come il cemento.

Queste del cielo – grigio – della nebbia e del cemento (che tra l’altro si fabbrica qui a due passi in quantità enorme) sono similitudini alle quali penso soltanto adesso, questa notte, nel tentativo di trovare a tutti i costi una giustificazione alla mole di lavoro che ho scatenata e di mettere a tacere dubbi e preoccupazioni che mi stanno assalendo da tutte le parti.
Primo dubbio: il bosco bianco darà il tipo di suggestione che mi aspetto? Secondo dubbio: non sembrerà neve? Prima preoccupazione: se cade la brina la tintura se ne va. Seconda preoccupazione: se domani il sole, per uno di quegli scherzi che questo misteriosissimo oggetto è solito fare, spunta, tutta questa fatica sarà stata inutile perché dal punto dove metterò la macchina da presa per il “totale” mi troverò in controluce e gli alberi anziché bianchi risulteranno scuri, né posso cambiare angolazione perché abbiamo tinto un lato solo del bosco.

Se avessi detto, provo a pensare non senza una certa riluttanza, quasi evitando di pensare, se avessi detto marrone, il marrone marcio della terra invernale cioè della terra senza vita, presumibilmente quale effetto avrei ottenuto? Chiudo gli occhi un momento, mi raffiguro senza alcuna emozione il bosco marrone. Riapro gli occhi, guardo gli operai mezzi sfiniti, sono le tre di notte, lavorano dalle sei di ieri, io con loro del resto ma il mio è un lavoro che non fa alcuna impressione, quanto a fatica.
Il freddo è aumentato. La grande pompa montata su un camion si è rotta, il lavoro degli imbianchini è diventato massacrante. Occorrono manovali. Spediamo uno del luogo a cercarne, a tirarli giù dal letto. Dall’alto di una scala cade una pompa a mano, coi suoi quaranta metri di tubo. No, non è caduta, è stata gettata di proposito dall’operaio che la manovrava. È un tipo robusto, ma non ce la fa più, scende a terra dicendo: “Voglio mezzo milione”. L’ispettore di produzione si rivolge agli astanti: “Chi ha mezzo milione da dare qui al signore?”. Nessuno ride. L’imbianchino se ne va tirandosi dietro il suo aiuto. Se altri lo seguono, se restano parti del bosco non tinte?…

L’angoscia di questa prospettiva è tale da cancellare ogni mio dubbio. Perché bianchi o biancastri o grigi? Perché sì e basta. Volendo potrei parlarvene a lungo e dirvi che nessuno si interessa agli alberi da queste parti, e che nella palude e nei canali arrivano gli espurghi delle fabbriche e le acque sono nere o gialle e anzi non sono più acqua, domandatelo ai pesci che hanno la pancia piena di petrolio. In mezzo agli alberi ci passano le navi ormai, è il secondo porto d’Italia Ravenna, lo sapete?
Il mito della fabbrica condiziona la vita di tutti, qui, la spoglia d’imprevisti, la scarnifica, il prodotto sintetico domina, prima o poi finirà per rendere gli alberi oggetti antiquati, come i cavalli. Dare per scontata la fine del bosco, fare di un pieno un vuoto, sottomettere scolorendola questa antica realtà alla nuova, che è altrettanto suggestiva: non è questo che avviene qui da anni in un flusso che non si ferma mai?

Ma non voglio parlarne, non voglio spiegare perché. Tutto quello che posso, che devo dire con la morte nel cuore al mio direttore di produzione, ora che è mattina ed è spuntato un bel sole ed è impossibile girare, è che rinuncio alla scena. Niente bosco bianco nel film. Ed è questa la ragione per cui ne scrivo.

Brano corrente

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