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17 Ottobre 2013 | Racconti d'autore

Il posto delle fragole

Testi e fotografie di Carlo Gajani tratti dal libro omonimo (a cura di Angela Zanotti Gajani, Treviso, ZeL Edizioni, 2013).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

17 ottobre 2013

A tre anni dalla mostra bolognese che ha ricapitolato il percorso artistico di Carlo Gajani, il Palazzo Ducale di Pavullo ripropone la sua opera pittorica e fotografica. Abbiamo scelto alcune delle immagini e dei testi pubblicati da Gajani sulla rivista “2000 Incontri” alla fine degli anni Ottanta: il titolo del libro da cui sono tratte riprende quello, evocativo, della rubrica che li ospitava.

Nelle pianure del Kansas, non è tanto la vastità dell’orizzonte terrestre a colpire, quanto l’immensità del cielo e la grandiosità delle nuvole. Sono territori sconfinati, attraversati da strade rettilinee che scorrono nel vuoto di un paesaggio, dove anche l’apparizione di un solo albero crea una forte emozione. Pensavo a questi luoghi lontani e deserti, percorrendo una provinciale, fra Guastalla e Novellara, tutta rettilinei e curve che circondano poderi coltivati fino all’ultima briciola di terra. C’è dovunque ricchezza di colore, di umori, di acque, di filari arborei, di costruzioni rustiche e di ville attorniate da grossi macchinari agricoli, sistemati in bell’ordine insieme ad automobili e moto lucidissime. Un albero che appare nel deserto è emozionante, ha grazia; c’è grazia fra tanta rigogliosa opulenza che ho qui attorno?
Attraverso un ponte che supera un canale senza avvedermene, poi, eccomi a percepire, in un attimo, un ricamo, un merletto traforato, lungo la riva di questo canale, che ho appena superato; sono filari su filari di alberi in controluce, che scorrono verso l’orizzonte, specchiandosi in queste acque chiare e ferme. Arresto la macchina all’ingresso di un sentiero laterale, per non farmi travolgere dal traffico intensissimo, e a piedi ritorno sulla riva di questo specchio di acqua assolutamente immobile, dove appare, contro la luce tersa del sole che tramonta, questa immagine piena di grazia e di silenzio. Nel fissarla, dimentico il fragore della strada che ho alle spalle e dell’opulenza che trabocca in ogni dove, per concentrarmi su questa apparizione così elegante, così assoluta, che sembra arrivare da lontane memorie perdute nel tempo.
[“2000 Incontri”, 10, 1987]

 

La casa, nelle campagne emiliane, si trova fra le ordinate geometrie dei campi e, come una piccola reggia, governa un territorio la cui estensione è misura della distanza con la casa accanto. È una costruzione solida, quadrata, che emana una caparbia solidarietà con la terra su cui è solidamente conficcata, e assicura calore e protezione a uomini, animali domestici, attrezzi e raccolti. Ma qualcosa sta mutando; molte case sono state abbandonate, altre hanno cambiato abitanti e destinazione d’uso, altre ancora appaiono mantenute in bilico, in uno stato intermedio di sopravvivenza.
Questa, che sto fotografando ora, non cessa di stupirmi per l’incredibile e straordinaria aderenza al più semplice e archetipo modello di “casa”; sembra l’idea di “casa” tradotta in realtà, con tutti i penetranti aromi dell’infanzia lontana. A un secondo sguardo, però, sorgono leggere inquietudini… c’é troppo silenzio, troppe assenze; perché le finestre sono tutte chiuse? Anzi, alcune non sembrano chiuse, ma addirittura inesistenti, come se qualcuno le avesse disegnate per burla sul muro, senza riuscirci del tutto, perché? E quella siepe bassa, interrotta da alcuni alberelli leziosamente acconciati a sfera? Non “legano” con la solenne geometria di questa casa. Cosa è successo? Ecco una splendida dimora, ricca di fascino e di ambiguità, sospesa fra la memoria di una vita contadina, perduta nel passato, e un nuovo, indefinito destino, in attesa di qualcosa, qualcosa che non sappiamo.
[“2000 Incontri”, 3, 1988]

 

Cammino nel bosco della Mesola con la deliziosa sensazione di non esistere. Alludo al delicato problema che si presenta nel momento in cui si dice: “io sono”, pensando conseguentemente che esista questo “io” così speciale. Non solo speciale, petulante, aggressivo e continuamente agitato all’interno di un pittoresco affresco biblico-storico, che si è costruito su misura a sostegno della propria arroganza. Che sollievo mollare per un attimo questo fardello e abbandonarsi alla semplice constatazione di rappresentare la vita, di guardarsi attorno, di stupirsi del mondo!
La momentanea sicurezza di: non esserci (fra tanti che gridano continuamente che ci sono), che proprio nulla ci attende, che nessuna consolazione arriverà dal cielo o dalla terra, è terribile, ma procura una straordinaria tranquillità e un’incredibile voglia di movimento. Ecco finalmente la libertà di amare pienamente, in quella scheggia di luce che sembra apparirmi ora, la vita che sto recitando insieme ai conigli selvatici, agli uccelli, a questi bellissimi alberi, che mi circondano da ogni lato, e a ogni presenza vivente che brulica qui intorno. Delle tante che ho scattato, conservo questa immagine del bosco della Mesola e di quel momento in cui ho avuto la sensazione di non esistere e di essere libero come l’aria. Amo molto questo complicato e oscuro intreccio carico di energia, attraverso il quale filtra la luce di una vita generosa.
[“2000 Incontri”, 6, 1988]

 

Mentre percorro a piedi l’ultimo tratto del Po di Goro, insieme al mare, mi appare all’improvviso il faro di Cape Cod, Massachussets. Con i piedi, non c’è dubbio, sto ancora calpestando l’estremo lembo di argine del Po di Goro, ma con la testa sono partito, sono altrove, lontanissimo. Il mio occhio, incollato al mirino di una 200 millimetri, sta infatti frugando l’Oceano Atlantico, in quel tratto di costa del Nuovo Mondo che i padri pellegrini del “Mayflower” raggiunsero dopo tante peripezie, lo stesso luogo dove, molti anni dopo, fu costruito un faro di avvistamento per le grandi baleniere, come quelle del Capitano Ahab, per intenderci. Eccolo, è questo faro, quello che Edward Hopper ha poi collocato nei suoi dipinti di paesaggio, in tempi in cui le baleniere stavano già scomparendo dall’orizzonte di questi mari, sostituite dalle sagome più eleganti degli yacht appartenenti alla migliore società di New York e di Boston. Stacco l’occhio dal mirino ed eccomi a fissare, come per incanto, il mare Adriatico e la costruzione abbandonata che sta al di là del Po di Goro, sull’altra riva, desolata e imperscrutabile. Non è il faro di Cape Cod, dipinto da Edward Hopper, ma emana lo stesso ineludibile fascino.
Fotografare il paesaggio significa viaggiare, trovarsi in luoghi certi con la propria persona, muoversi in territori incerti con la propria immaginazione. Può accadere che una misteriosa folata di vento sollevi e faccia volare le immagini depositate nel gran magazzino della memoria: tutto ciò che si è visto con i propri occhi, tutto ciò che si è visto con gli occhi degli artisti che si sono amati. Allora può emergere nitido e chiaro un solo fotogramma, denso di valenze emotive, che va a depositarsi davanti allo sguardo, collimando illusoriamente con quanto indica il presente. Memoria, realtà e immaginazione si sovrappongono per formare così una nuova immagine, omologata da una grande emozione, piena del fascino che hanno i luoghi senza tempo. Dedico questa fotografia a Edward Hopper, che ancora oggi si può incontrare in tante piccole città e villaggi di provincia negli Stati Uniti, e che può apparire all’improvviso anche a chi, come me, percorre un po’ distratto l’ultimo lembo del Po di Goro.
[“2000 Incontri”, 5, 1990]

 

Vorrei fare l’elogio dell’allegria, perché l’immagine che presento ritengo sia frutto dell’allegria che si è affacciata in un mattino d’inverno, appena aperte le finestre, con l’apparizione di un cielo rosato e limpidissimo, che mi ha ricordato di essere ancora al mondo, faccenda della quale non sempre mi rendo adeguatamente conto. Il buio della notte e l’oscurità dei sogni di un attimo prima sono scivolati all’indietro, nascondendosi velocemente nel passato, mentre quel cielo e quella luce straordinaria mi hanno proiettato in avanti nel futuro di un giorno di sole, nella rassicurante prospettiva di seguirne le tracce chissà dove.
Ecco un esordio sincero e, credo, calzante a questa immagine, ma indubbiamente improntato a una sfacciata soggettività. Perché, oggettivamente, c’è poco da stare allegri nelle nostre campagne, trapunte da spocchiose villette, le costruzioni più antiche e affascinanti in abbandono e rovina. Il frastuono di strade e autostrade ovunque. La recente ricchezza, poi, ha sconvolto equilibri millenari, cancellando l’identità di tanti luoghi sotto una coltre di segni estranianti e volgari. Certi posti ricordano il caotico retrobottega di inverosimili supermarket, che però sembrano affacciarsi sempre dall’altra parte, non si capisce dove, forse di fronte a un immenso deserto. E la gente che si incontra attonita a volte, come non sapesse più che terra calpesta, come se le indicazioni dei luoghi indicassero altri luoghi, di cui si è smarrita la memoria.
Questa è realtà tangibile. Ma non c’è niente di più menzognero di una fotografia catturata nella realtà di un paesaggio, quando l’autore si lascia condurre solo dai disegni tracciati sul terreno dalla luce e dalle ombre, scartando ogni presenza disturbante, ogni intrusione molesta, per ritagliare attorno a una certa apparizione uno spazio soffice, di stretta misura certe volte, ma comunque sufficiente a bloccare l’irrompere da ogni punto cardinale di segnali fastidiosi. Ecco isolata una frazione tendenziosa di realtà, che certamente non racconta le storie veritiere di queste campagne, ma la caparbia volontà di un fotografo di rimaner fedele a una scheggia di allegria, entrata all’improvviso dalla finestra in un mattino d’inverno.
[“2000 Incontri”, 6, 1990]

 

Durante la Seconda guerra mondiale, sono stato “sfollato” in campagna, nella casa dei miei nonni. Un pomeriggio d’estate, mentre stavo al buio nella mia camera tentando di appisolarmi, vidi apparire per incanto sul soffitto l’immagine capovolta del cane Fido all’inseguimento di una gallina. Questa incredibile apparizione era proiettata da un fascio di luce entrato attraverso un foro che trapassava la persiana. Per merito di un tarlo, la mia stanza si era trasformata in una vera e propria “camera oscura”, dove il mondo esterno, quello dell’aia circostante, entrava come un film allegramente rovesciato sulle pareti, il carro con i buoi, mio nonno in bicicletta, cani, gatti, galline, eccetera eccetera.
Poi la guerra passò dai bollettini radiofonici ai fatti, presentandosi sulla soglia di casa sotto le concrete spoglie dei soldati della fanteria tedesca, dei carri armati, dei duelli di artiglieria, delle incursioni dei cacciabombardieri alleati, con i denti di squalo dipinti sul muso e il pilota chiaramente visibile mentre scende rasoterra a mitragliare. In quell’infernale sarabanda inventai un gioco di salvezza; avevo stabilito questo: che se facevo tanto di raggiungere la mia camera e chiudere porta e finestre ero salvo, perché tutto quello che sarebbe successo “fuori”, e per il solo fatto di presentarsi capovolto nel soffitto, sarebbe diventato qualcosa di irreale e inoffensivo, come le storie di cartapesta dei film, dove il sangue è sempre pomodoro.
Un giorno, però, non fu sufficiente questo gioco di magia per esorcizzare l’apparizione di un feroce manipolo di SS, che aveva circondato la casa nel corso di un “rastrellamento”, e mio nonno e io dovemmo infilarci lestamente in un nascondiglio ricavato dietro a un grande armadio pieno di biancheria. Quando nel corso della perquisizione giunsero ad aprire le ante di quell’armadio, attraverso una fessura della parete posteriore del mobile, fra due pile di lenzuola, vidi i volti delle SS a pochi centimetri di distanza dai miei occhi, mentre loro, per fortuna, non si resero conto del nascondiglio e di noi due, stretti là dietro. Trattenevo il respiro e stavo immobile, ma mi sentivo calmissimo perché, come nella “camera oscura”, anche in quella circostanza ero al buio e, secondo le regole del mio gioco di magia, quello che stava succedendo al di là di quella fessura era pura fantasia, un brutto film di guerra e niente più…
Più tardi ho ripensato a quei giorni lontani, quando mi è accaduto di fotografare per il puro e semplice piacere di guardarmi attorno, così senza pensare, sottraendomi quindi al faticoso compito di emettere continuamente giudizi, cosa evidentemente possibile solo a condizione di dichiarare, come facevo allora per gioco, la provvisoria inesistenza di tutto quello che appare e sta “al di là della camera oscura”, della macchina fotografica. Forse lo splendore del mondo è più godibile se pensiamo che, come pura apparenza, non ci riguarda affatto, e lo fotografiamo con noncuranza, proseguendo poi, come niente fosse, per il nostro cammino.
[“2000 Incontri”, 10, 1990]

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