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12 Dicembre 2013 | Racconti d'autore

Il reazionario

Racconto di Stefano Cammelli, tratto dal libro “Muri rossi. Storie di occidentali in Cina” (Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2013) – seconda puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri.

12 dicembre 2013

Hong Kong, 1990: uno storico francese ritorna, a distanza di anni, nella città che attende di tornare sotto il controllo della Cina. Con il ricordo di una donna, riemerge il rapporto tormentato con un paese che, nonostante tutto, continua ad amare.
Stefano Cammelli, storico dell’età contemporanea, dirige il centro di ricerca sulla politica contemporanea cinese “Polonews” e frequenta da oltre trent’anni il pianeta Cina.

Prese un taxi e si fece portare alla partenza dello Star Ferry, senza sapere dove andare, né in quale parte di Hong Kong dormire. Certo non avrebbe preso il traghetto – o forse sì: proprio per dimostrare a sé stesso che dopo così tanto tempo era tutto finito. Che poteva farlo, poteva concederselo: lei non sarebbe ricomparsa, era tutto troppo lontano, appartenente a un altro mondo e a un’altra epoca. Notò, sulla riva, l’affollamento dei commercianti indiani e sikh, pronti a offrire macchine fotografiche inesistenti e obiettivi improbabili a turisti abbastanza stupidi da crederci. Prese nella solita edicola – convincendosi che non era la stessa in cui loro compravano il giornale, ma solo un posto che si trovava lì per caso – il “South China Morning Post”, o come una volta lo aveva definito, «l’ultima ombra di verità su quello che nessuno vuole dire e di cui nessuno può parlare». Quando lei se n’era già andata e lui tornava da Pechino, o prima di partire, era la prima cosa che comprava, o l’ultima che voleva vedere. Poi il treno per Guangzhou, l’arrivo a Pechino, la permanenza in una città dove sembrava l’unico a vedere e a capire quanto stava accadendo. Certo, aveva la fortuna che un importante giornale francese continuasse a pubblicare le sue cronache malgrado la feroce polemica in patria e lì, in Cina. Malgrado l’isolamento dalla comunità internazionale e dai corrispondenti, e l’arrogante e rancorosa insolenza – nonostante i decenni trascorsi – di due celebrità come Sartre e sua moglie che, non paghi di non avere compreso nulla della Cina e della sua sanguinosa Rivoluzione culturale, avevano contribuito a creare una sorta di rete in ogni altra nazione europea, sicché nessuno osava più scrivere quello che forse vedeva e capiva. Così il terrore di Mao veniva celato dietro una presunta particolarità cinese, per cui chi muore in Cina in prigione sarebbe contento, chi va a lavorare nei campi con una laurea in chimica sarebbe felice. E l’intera intellighenzia cinese avrebbe ripetuto, ogni mattina e ogni sera, che l’unico testo era il libretto rosso e il Maotsetungpensiero. Come usava dire allora, in una parola sola.

Rivide anni di solitudine, più che di umiliazione. Quando intellettuali italiani e francesi in visita a Pechino, in quelle che venivano definite “delegazioni dell’amicizia”, rifiutavano di stringergli la mano o di vederlo. Gli anni in cui persone che nulla sapevano del paese si permettevano di elogiare – nel corso di ricevimenti ufficiali – il democratico governo di Mao, che ospitava anche i più odiosi reazionari. E la gente si voltava verso di lui e lo guardava come fosse un appestato, un relitto di un tempo antico. Si chiese se ce l’avrebbe fatta senza Qin. Senza quei brevi ritorni a Hong Kong che erano col tempo diventati la sua unica fonte di salvezza. Se senza il suo corpo, il suo odore, le lenzuola bagnate di sudore e gli occhi arrossati avrebbe avuto la forza di tornare, al di là di tutto, nella Pechino del tempo. A volte – troppe ne aveva viste e troppe ne conosceva – si domandava persino se per caso non fosse proprio lei, Qin, la forma suprema di violenza di quel paese. Se dietro quei seni rotondi e perfetti non ci fosse una spia del governo cinese, impegnata a seguirlo a Hong Kong come altri facevano, tutti i giorni, a Pechino. Allora, quando quel sospetto lo sorprendeva nel sonno e si svegliava in un lago di sudore e di paura, quando la guardava dormire immobile, ripeteva a sé stesso che era stata lei a suggerirgli di scrivere usando uno pseudonimo. Evitando così di prestarsi, agnello sacrificale, al dileggio del mondo giornalistico e politico.

Naturalmente era un’idea che non aveva funzionato, non all’inizio almeno. Ma poi i corrispondenti cambiano, le notizie si disperdono, i nuovi sono troppo impegnati a dimostrarsi bravi e troppo presi dall’affermazione di sé stessi per guardarsi indietro. Dopo un anno già in diversi non sapevano chi fosse in realtà quel Pierre che viveva isolato da tutti; dopo due nessuno lo conosceva più. Così, nascosto dietro la fama di reazionario intrattabile, e dietro il nome di un ignoto Simon, i nuovi arrivati ormai si chiedevano chi fosse e dove vivesse: se fosse un agente della CIA, o magari un giornalista pagato dalla stessa Agenzia.

II

Lui non aveva aspettato Deng Xiaoping e le sue riforme per dire quello che andava detto. Ma gli anni passati in quel modo pesavano ormai sulle sue spalle, come se avesse vissuto lui stesso in un campo di lavoro. Quando era caduta la Banda dei Quattro e la verità su Mao e la Rivoluzione culturale era stata svelata dal processo e dalle condanne, trasmesse in diretta in tutta la Cina, non aveva avuto il tempo di gioire. Sarebbe dovuto andare via prima: forse allora ce l’avrebbe fatta. Pierre però non era un giornalista, bensì uno storico della Cina. Dove sarebbe dovuto andare? A fare che? Quel paese era tutto e lui – fuori da quei confini – era nulla, niente.

Quanto era durato il trionfo? Lo spazio – ricordò – di un incontro televisivo su una rete francese, con una visionaria italiana che aveva accettato il dibattito con lui. L’aveva massacrata. I giornali avevano parlato della necessità di rivedere molte cose sulla rivoluzione cinese, e “Le Monde” per la prima volta gli aveva dato ragione. La visionaria italiana era scomparsa e le vendite dei suoi libri erano improvvisamente precipitate: per la prima volta dopo molti anni, non veniva più invitata ai dibattiti sulla Cina. Ma la vita perduta, la sua? Gli anni di isolamento e disprezzo a Pechino, e Qin che forse se n’era davvero andata perché voleva tornare in America, o forse perché tutto era diventato troppo pesante per i suoi ventisette anni. Per molti giornalisti, in Francia come in America, la verità non coincide in fondo con quanto è pubblicabile? E quello che lui aveva detto e scritto era forse pubblicabile, al di là delle colonne del “Figaro”? La libertà che si era preso era proprio quella che nessuno gli perdonava: denunciava la paura, la mancanza di preparazione, il servilismo degli altri. Non era stato Mao il problema, ma la sua libertà. Inafferrabile, totale.

Entrò in un caffè. Forse avrebbe dedicato maggiore attenzione alla città se tutto non fosse rimasto, in qualche modo, fermo nel tempo. Certo, le cose erano completamente cambiate: gli edifici non erano più quelli, e nemmeno la gente, i negozi, le botteghe. In Wan Chai, aveva già notato, le barche all’ormeggio non c’erano più e la città viveva già dell’attesa del 1997, quando sarebbe tornata alla Cina. Ma il rombo, il sordo rumore che la accompagnava giorno e notte, frutto di decine di migliaia di persone al lavoro, di laboratori artigianali e di industrie, di turismo e prostituzione, di taxi in corsa collettiva, quello era sempre lo stesso. Sì, qua e là erano comparsi marchi di fast food e di caffè americani, ma quelli non erano la città. Hong Kong viveva in questa sorta di cupo rumore di fondo che si avvertiva con chiarezza solo sul traghetto Star Ferry o sul turistico Victoria Peak, lontano e poco frequentato dagli abitanti della città.

Sul giornale, che forse per i troppi ingombranti ricordi non avrebbe dovuto comprare, lesse una notizia che lo colpì. Lazlo Ladany era morto: ne celebrava la memoria uno sparuto gruppo di amici di cui conosceva a malapena una o due persone. Non una riga di commento. Lui non se lo ricordava nemmeno più. «Cristo» – si disse – «ma non potevo andarlo a trovare, almeno una volta?». Non ebbe dubbi sul da farsi. L’Australian University, per la quale si trovava a Hong Kong e che avrebbe dovuto raggiungere il giorno dopo con volo su Canberra, poteva anche aspettare. Al Peninsula – mio Dio, com’era diventato caro! – chiese e ottenne la camera di un tempo. Ovviamente tutto era cambiato: solo le finestre erano le stesse. Prese una cartolina dell’albergo e scrisse l’indirizzo di Qin. “Lazlo Ladany non c’è più. È proprio finita un’epoca”. Non aggiunse altro. Poi fece due telefonate: una al “New York Times” e l’altra al “South China Morning Post”. «Un’inserzione a pagamento», chiese, senza curarsi del fatto che la cifra per le sue tasche fosse enorme.

Girò la scrivania verso la baia: com’era bella quella città! Iniziò a scrivere in modo telegrafico, ma si rese conto che così non andava, non era giusto. Qualunque cifra gli ci fosse voluta, era qualcosa che andava fatto.

È morto – scrisse – uno dei tanti piccoli eroi della rivoluzione cinese. Gesuita ungherese, giunse in Cina in terra di missione nel 1949. Dopo pochi mesi, con la proclamazione della Repubblica Popolare, venne espulso. Tanti – del suo ordine – si rifugiarono a Taiwan o preferirono rinascere a nuova vita in Africa. Lui seppe sempre che la Cina era la sua destinazione e che come missionario non poteva abbandonarla. Si chiuse in un piccolo sgabuzzino di Hong Kong. Di giorno in giorno, attraverso un’ostinata e attenta lettura dei giornali, penetrò nelle stanze del potere cinese e imparò a decifrarlo, conoscerlo, comprenderlo. Fu lui a intuire per primo le dimensioni delle drammatiche purghe degli anni Cinquanta. Fu Lazlo Ladany a rivelare al mondo l’imminente tragedia del Gran Balzo in avanti. Fu ancora lui a comprendere la violenza della Rivoluzione culturale e a denunciarla mentre il mondo ne decantava le magnifiche sorti. Visse il suo mandato come un grande letterato della terra che amò come sua seconda patria. «Un uomo – ha scritto Sima Qian, storico cinese del II secolo avanti Cristo – non si interroga su quanto siano dolorose la sua morte e la sua vita. Un uomo assolve il suo mandato fino in fondo senza chiedersi se tutto questo sia giusto o errato, faticoso o utile”. Come Shitao, come migliaia di grandi letterati prima di lui – in Cina e fuori da essa – Lazlo Ladany ha testimoniato con la sua vita che la grandezza di un uomo non si misura dal successo che raccoglie, ma dalla sua fedeltà al mandato che ha ricevuto e che ha fatto suo. Per questo oggi celebriamo la morte di un grande letterato.

Guardò il testo, commosso. Poi riscrisse l’ultima frase: Per questo oggi celebriamo la morte di un grande letterato cinese.

Si addormentò sulla poltrona, di fronte alla baia. In nessun caso, si disse, sarebbe mai riuscito a chiudere occhio su quel letto. Il corpo nudo di Qin, di spalle, parzialmente coperto da un lenzuolo, lo accompagnò per tutto il sonno.

[fine]

 

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