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11 Aprile 2013 | Racconti d'autore

Il viaggio con Fellini dalla collina all’Adriatico

di Vittorio Emiliani, tratto da “Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista. 1959-2012”, Bologna, Bononia University Press, 2012

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

11 aprile 2013


Vittorio Emiliani, classe 1935, nella sua lunga carriera di giornalista e scrittore ha collaborato con riviste del calibro di “Comunità”, “Mondo” ed “Espresso”, e quotidiani come “Il Giorno” e “Messaggero”, di cui è stato direttore.
Specializzato in inchieste sulle trasformazioni della società e del paesaggio, ha da poco raccolto in volume alcuni dei suoi pezzi più memorabili. Ecco il testo che li introduce, scritto nel giugno del 2011.

Nostro padre era, come molti romagnoli, un vivace, divertente, facondo affabulatore. La sera raccontava spesso della propria adolescenza e prima giovinezza a Forlimpopoli, lungo la romana via Emilia fra Cesena e Forlì, e di quanto accadeva in quella cittadina di cavalli e cavallari (vocazione mercantile incoraggiata, pare, da una Bolla papale del Cinquecento) così ricca di umori e di bizzarrie da sconfinare in vere e proprie mattane. Dalle battute fulminanti lanciate all’oratore politico impegnato in piazza nel discorso della vita (“Mor adèss, mor adèss, ch’it fa ’e monumènt”, muori adesso che ti fanno il monumento) agli scherzi più atroci.
Raccontava pure che, da ragazzi, nella bella stagione, andavano dopo cena alla stazione ferroviaria, poco oltre le mura di San Rufillo, ad aspettare la mezzanotte, quando, puntualissima, passava a grande velocità, sferragliando e fischiando, la Valigia delle Indie diretta a Brindisi e poi verso il Levante più estremo. Era una versione dell’Orient Express sul quale quei ragazzi immaginavano che viaggiassero le belle maliarde e i loro eleganti corteggiatori e amanti ammirati nei primi film muti proiettati su un telone bianco nella piazza interna della Rocca dai fratelli Campogalliani. E sognavano di salire un giorno anch’essi su quelle vetture di colore blu scuro, luccicanti, illuminate nella notte. Che sparivano in un attimo, inghiottite nel buio fitto e misterioso.

Il viaggio è sempre stato un tema della nostra vita, della mia certamente. Per il mestiere che ho scelto fin da ragazzo e che per anni e anni mi ha condotto a vivere, da inviato, con la valigia in mano o comunque pronta al comando improvviso di partire. Il viaggio deve avere però una fascinazione speciale per noi nati e cresciuti vicino o lungo le strade consolari romane prima e le varie Francigene poi, le quali da una parte ci portavano a Roma (dalla via Emilia alla via Flaminia, a Ponte Milvio) e dall’altra, sulla Popilia, verso Ravenna, Venezia, gli alti passi dei Longobardi. Oppure in direzione di Bologna e poi di Parma e Piacenza, oltre il Po, il ponte di barche, la bassa milanese di risaie, di rane gracidanti e di bianchi aironi o di rapidi martin pescatori, la rossa Milano delle mura spagnole, di Sant’Ambrogio, del Castello di quello Sforza nato a Cotignola, Muzio Attendolo, dei palazzi dei Belgioioso venuti da Barbiano nel Ravennate, discendenti del capitano di ventura Alberico. Come volle rivendicare (“In fondo siamo anche noi di quelle parti”) il gentile e sorridente Lodovico, grande architetto dello studio BBPR, mentre lo intervistavo. Milano e poi l’oltr’Alpe. Lugano per gli anarchici, per gli esuli politici.

I nostri poeti e scrittori sono spesso poeti del “viaggio”. Chi più del visionario Dino Campana di Marradi, ormai deciso all’avventura dell’imbarco, perso fra i bianchi palazzi di Genova dalle “terrazze verdi” di “lavagna cinerea”, poi nella notturna Spagna delle “gravi matrone dagli occhi torbidi e angelici”, e infine alle luci di Buenos Aires, Baires, “tra il mare giallo” del Rio de la Plata “e le dune”? O dello stesso Alfredo Oriani lanciato in bicicletta sull’Appennino fra Faenza e Firenze? O, ancora, di Tonino Guerra che del modesto quanto agognato viaggio di due anziani coniugi contadini, dalla collina ad un mare immerso nella nebbia, ha ricavato un poema epico dei suoi, E viaz? E secoli, millenni prima, non era sceso nella Roma ancora repubblicana dalla sua Sarsina ricca di commerci, via Tevere verso il Tirreno e via Savio verso Classe, sull’Adriatico, il sanguigno e irriverente Tito Maccio Plauto? Senza dimenticare il ventenne ebreo di Bertinoro, Ovadia Yahre, che dall’alto di quel colle, nel fatidico fine Quattrocento, si diresse sulla mula a Gerusalemme divenendone il grande Rabbino e riscrivendovi le leggi della Misnah.

Ma più di tutti forse il viaggio ce l’aveva in testa, nella fantasia, di continuo, Federico Fellini, che la strada per Roma l’aveva imboccata ancora ragazzo, da Rimini, subito dopo il Liceo, con una bella chioma di capelli folti la cui perdita gli smuoveva uno dei suoi più cocenti rimpianti. “Vorrei essere io un bene culturale da restaurare, ormai”, mi rispose una volta che gli proposi di farsi intervistare per la TV davanti al monumento che aveva più caro, fosse il Tempio Malatestiano a Rimini, o la più vicina Santa Maria del Popolo ad un passo dalla sua casa di via Margutta. “Il viaggio di G. Mastorna” fu, come è noto, il film al quale lavorò tanto, facendo spendere un sacco di soldi al povero produttore, senza mai arrivare al primo “ciak, si gira”. Dicono perché una delle sensitive da lui frequentate gli aveva predetto la morte se mai l’avesse realizzato.

Ne ero diventato amico (Federico era non poco selettivo in materia) dopo il mio libro sul Paese dei Mussolini uscito da Einaudi nel 1984, intermediario uno dei suoi più veri sodali, il medico romano Gianfranco Turchetti, ipertensiologo, lettore dei classici greci e latini in lingua originale. Ci vedevamo spesso nello studio di Gianfranco, a fine giornata, in via Flaminia (vedi caso), là dove essa comincia appena oltre la Porta del Popolo e si avvia fra are sacre e sepolcri di guerrieri verso l’Umbria e le Marche, verso Fano, con approdo terminale a Rimini e al suo solenne Arco di Augusto. Una sera mi disse all’improvviso: “Dovremmo fare un viaggio, io e te, da soli…”. Risposi subito di sì, incuriosito, anzi intrigato. “Senza donne però”, precisò subito, “perché hanno sempre dei problemi”, sorrise flautato, lui che tanto amava e aveva amato le donne.
Il progetto si precisò in più puntate. Ma dove si svolgerà, gli domandai, questo nostro viaggio? Federico me lo spiegò la volta successiva: “Si svolge in Romagna. Partiamo da quelle colline dietro a Bertinoro, sai, dove il paesaggio diventa un po’ toscano, coi cipressi e gli olivi oltre alle vigne”. E dove ci dirigiamo? “Sappiamo soltanto che andiamo verso il mare, ma non sappiamo per quali strade…”. Interne, immagino, obiettai. “Ah, certo, interne, non la via Emilia e tantomeno l’autostrada. Soltanto strade interne, sai, quelle meno frequentate”. E il punto di arrivo? Glielo chiesi alla puntata successiva. “Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che dobbiamo arrivare al mare, ma non dove di preciso, ne quando. Non dobbiamo porci questi problemi di luoghi e di tempi… è un viaggio tutto da inventare ancora. Ne riparleremo”.

Immaginavo che saremmo partiti in auto, ma viaggiando a velocità molto ridotta, con fermate frequenti, ad ogni sorpresa, e che saremmo lentamente arrivati, chissà quando, in un punto non ancora cementificato della costa romagnola. Difficile da trovare ormai. Forse dopo la Cattolica, là dove la costa si fa alta e, se dio vuole, non ci si può costruire nulla, sconfinando quindi dopo Gabicce, anzi dopo Gradara, verso Castel di Mezzo che funge da verde, fiorito e scosceso spartiacque, alla dantesca Fiorenzuola di Focara, fra Romagna e Marche. Anche in questo caso il viaggio rimase un sogno, una visione, un’idea sospesa da immaginare e da raccontare fra noi. Una affabulazione, ancora una volta.

Spesso mi torna in mente e mi vien voglia di parlargliene, tanto Federico è ancora presente fra noi. Sorrideva sornione, pronto alla battuta fulminante, quando gli ricordavo l’inizio di Amarcord proprio alla Segavecchia di metà Quaresima, a Forlimpopoli, il paese di nostro padre e di nostro nonno, col motociclista, soprannominato “Scureza”, che sapevo essere quel “matto” di Enzino Lucchi di Cesena, mio collega al “Giorno”, il quale, in tuta nera di pelle, saltava di un balzo le “focarine”, le braci accese della Vecchia bruciata assieme ai mali dell’annata al culmine di quella festa pagana, forse gallo-italica, di quella allegra e beffarda trasgressione propiziatoria.

 

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