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28 Marzo 2013 | Racconti d'autore

La Bassa

di Andrea Cotti, tratto da “Scosse”, a cura di P. Roversi, Ghezzano (Pisa), Felici Editore, 2012

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

28 marzo 2013

Il terremoto che ha colpito l’Emilia nel maggio del 2012 ha fatto tremare insieme alla terra alcune false certezze, tra cui la voce che la pianura padana non sarebbe zona sismica. Ma ha anche rafforzato dei legami, come quello che unisce quanti raccontano storie a quanti le leggono o le ascoltano: così, in questi mesi, molti cantanti, attori e artisti hanno raccolto fondi a favore delle zone colpite. Tra le iniziative si segnala il volume da cui abbiamo tratto il racconto di Valerio Varesi nella puntata precedente, e da cui è tratto questo. Il suo autore, insieme agli altri coinvolti nel progetto, ha devoluto il proprio compenso per la ricostruzione della Biblioteca comunale di San Felice sul Panaro, nel Modenese.
Andrea Cotti, ex libraio, scrive racconti e romanzi, collaborando anche con produzioni televisive e cinematografiche.

Per Leonardo, appena arrivato
Per Silvia e Filippo, gli amici, i genitori
Per Stavros, che c’era, lì presente, ne siamo sicuri
Per Barbara, la Riccia, il mio nocciolino
E per la “Casona”, il luogo dove tornare

Quello che succede è che: se sono cadute le chiese, i campanili, le torri e i municipi; se sono chiusi i centri storici e le piazze; se la memoria e l’identità che stavano in quei luoghi forse se ne sono andate, allora noi dobbiamo diventare chiese, campanili, torri, municipio, centro storico e piazza; diventare noi l’identità dei nostri luoghi, diventare noi stessi luoghi, e conservare noi la memoria.
E quindi, noi che possiamo, noi che sappiamo farlo, dobbiamo cominciare a raccontarli, questi luoghi. Per quelli che qui verranno dopo di noi. O per quelli che sono appena arrivati.
Come Leonardo, figlio del mio migliore amico, e della migliore amica della donna che amo, che è nato ieri, 13 giugno 2012.
Ecco, io comincio a raccontarla a lui, questa nostra terra adesso spaccata, rotta, che ha tremato e ancora trema. Poche cose, le prime che mi vengono in mente, le più belle, spero. Per le altre, lui che oggi ha esattamente un giorno, avrà tutta la vita.

Sai, Leonardo – ecco, iniziamo – tu sei nato a Bentivoglio, e Bentivoglio, come Crevalcore, San Felice, Mirandola, Cavezzo, Finale, San Carlo, Medolla e tutti gli altri paesi che il terremoto ha toccato, sta in un posto che si chiama La Bassa. Che è – appunto – basso. Poco, davvero poco, spesso solo un soffio sopra il livello del mare. A volte anche sotto. Però, se è vero che La Bassa è un posto basso, non è vero che è un posto vuoto. Chi non è nato qui, chi viene da fuori, i furastìr, siccome non vedono colline, montagne, laghi, foreste; siccome – e torniamo lì – non vedono il mare, pensano che qui non ci sia niente. Solo terra piatta. Non capiscono. Non sono capaci di vedere: che qui c’è tutto. Tutto quello che tu sai immaginare. È per questo che qui nella Bassa ci sono e ci sono stati tanti scrittori. Perché se lo sguardo incontra le colline e le montagne e le foreste e i laghi e il mare, si ferma, rimane impigliato alla bellezza. Se invece non incontra nulla, lo sguardo, allora può correre, viaggiare, può immaginare storie, persone e altri mondi, e così, allo stesso tempo, può riempire questo mondo, questo spazio apparentemente vuoto.
Che poi, Leo, certe mattine luminose a fine primavera, questo cielo vuoto, senza ostacoli, diventa una lastra azzurra perfetta. E sterminata. Sconfinata. Vetro liscio che scintilla.
E in basso, i campi gialli e verdi sembrano davvero il mare, con il vento che muove nel grano e nell’erba piccole onde, e le case scure e quadrate che spuntano simili a scogli.

Allora, vedi, alla fine il mare c’è anche qui. Se guardi nel modo giusto, se alleni gli occhi a vedere non solo quello che c’è, ma anche quello che c’è appena al di sotto.
Pensa all’acqua: qui, sì, qui sotto c’era proprio il mare, non quello che se sei bravo puoi immaginare, quello vero. È per questo che questa terra è così grassa e umida. È terra che viene dall’acqua, e l’acqua è ovunque, anche nell’aria.
La nebbia, Leo. Tutti sanno che nella Bassa c’è la nebbia, ma pochi la conoscono sul serio. E, come tutte le cose che non si conoscono, la nebbia fa anche paura. Perché è grigia, densa, spessa. Perché ti sembra che dentro la nebbia, le cose, ma soprattutto le persone, possano sparire. Per sempre. E a volte succede, è successo. Perché dentro la nebbia possono nascondersi i mostri. Ma va bene, va bene che faccia anche paura. La nebbia ci ricorda, come il terremoto, che la Natura è potente. E misteriosa.
E comunque, Leo, a noi che nella Bassa ci siamo nati, la nebbia un po’ ci spaventa e un po’, contemporaneamente, ci rassicura. Perché se nella nebbia possono nascondersi i mostri, anche tu, nella nebbia, puoi nasconderti da loro. Anche tu, se ne hai voglia, puoi scomparire. E presto scoprirai che nella vita tante volte si ha voglia di sparire. Anche solo per un po’.
Sì, a noi della Bassa la nebbia piace. È come un velo che ci chiude dentro un perimetro, dentro un confine solo nostro. Intimo. Caldo, anche se la nebbia è fredda. Anche se il mattino, quando ti alzi, esci e respiri, ti sembra di inghiottire lana ruvida e ghiacciata.

Però è bello. Però la sera, quando torni nella nebbia, e dalla nebbia affiorano le luci delle finestre accese nelle case, simili a piccole pozze gialle, sai che la strada è giusta, e tutto – tutto il tuo mondo – si chiude attorno a te come una mano morbida. Che riconosci.
No, Leo, non è mai davvero vuoto, questo posto. Come la nebbia, la neve. Che poi – ancora – è altra acqua. D’inverno. Che copre ogni cosa e ammorbidisce gli spigoli delle forme, arrotonda, alliscia. Si posa e su tutto scende il silenzio, tutto finalmente tace, rallenta. La neve nella Bassa non è come in montagna, non è un addobbo colorato sopra una meraviglia. Qui la neve assomiglia al piumone sotto il quale ti rintani, lasciando spuntare solo gli occhi. La neve, come la nebbia, con il suo freddo bagnato ti costringe a trovare dentro di te un nocciolino caldo e acceso, un rifugio. E tu poi, con quel nocciolino, puoi andare fuori, guardare i campi bianchi e semplicemente, nel silenzio, respirare.
Dentro, fuori; dentro, fuori. Il tuo respiro, le nuvolette del tuo fiato riempiono lo spazio.

Lo stesso che fa la malinconia d’autunno. Quando gli alberi si spogliano e il buio inizia ad arrivare prima, e il cielo di giorno si raggrigia, ma di un grigio diverso da quello della nebbia, più pesante e cupo. È la nostra malinconia – dolce e tiepida come una febbre leggera – che riempie questo posto in questi mesi, è la sua stessa nudità che lo veste. È l’assenza che lo colma, Leo. L’odore dell’asfalto bagnato, le foglie gialle e rosse sotto le scarpe, i rami degli alberi spogli, i campi scuri, fermi.
Anche quello che cade, anche quello che non c’è, è una presenza.
Che ritorna, e scoppia, e invade tutto d’estate. Il caldo, l’afa, l’aria che sembra sul serio acqua per quanto è densa, liquida, le cicale, i grilli, le rane che cantano, la notte, le zanzare appiccicate addosso, il sudore.
L’odore.
L’estate riempie la Bassa di odori: erba tagliata, terra secca, frutta, carne, vino, sesso.

Le donne, Leo.
Lo scoprirai anche tu, le donne della Bassa sono un miracolo, sono streghe e mamme, compagne e amiche, teste brillanti e rapide, svelte, sveltissime.
Sono le più belle del mondo. E fanno l’amore come nessuna al mondo.
Come mangiano e bevono, come ridono. Con gioia.
Gioia pura e vera. Senza limiti e senza vergogna. Un gioco, una festa.
Quando le donne della Bassa fanno l’amore, fanno luce, Leo.
Uno spettacolo.
lncontrale, conoscile, per quel poco che è possibile conoscere le donne.
Le donne della Bassa coi loro uomini ci sanno stare assieme, ci lottano contro, se serve, ci fanno le battaglie, graffiano e mordono – sono selvagge, ricordatelo – ma anche li accompagnano e proteggono, li difendono e amano. Smisuratamente. Con tutto il cuore che hanno.
Parla con loro, Leo. Ascoltale.

E noi, noi uomini siamo qui. Noi mangiamo e beviamo, e corriamo veloci in moto, in macchina, e dietro alle donne. A noi, Leo, invece non ascoltarci troppo, perché siamo simpatici cialtroni, perché facciamo i fenomeni al bar, ma soprattutto perché le cose serie e importanti non sappiamo dirle. O sappiamo dirle solo prendendoti un po’ in giro. Io per anni al mio paese ho avuto una libreria, e tutti i miei amici – che tutti i giorni venivano in libreria, anche se non hanno mai comperato un libro – mi chiamavano “giornalaio”. Te lo dico per farti capire come siamo. Venivano in libreria perché mi volevano bene, per stare con me, ma un po’ dovevano anche prendermi in giro, perché non sembrasse troppo.
Siamo così, noi uomini, qui. Un po’ ti prenderemo sempre per il culo, ma se sei nostro amico, per te ci saremo. Sempre.
E preparati, Leo: nessuno qui, tra i tuoi amici, ti chiamerà mai per nome. Solo col soprannome.
Io, per tutti, oltre che “giornalaio”, o “scribacchino”, sono Jec. Anzi, io sono soprattutto Jec.
Da dove viene il soprannome è sempre un po’ un segreto, ma un giorno te lo svelerò.
Tu, intanto, il tuo soprannome dovrai guadagnartelo. E, quale che sia, dovrai portarlo con orgoglio. Perché racconterà la tua storia.

E poi. Poi basta.
Ci sarebbero così tante altre cose ancora da dire.
Da raccontare.
Profumi, sapori. Scorci di paesaggi. Lampi. Volti.
I vecchi, i nostri vecchi.
Ma non importa.
Così è sufficiente.

Questa è La Bassa, Leo.
Questa è casa mia.
Da ieri è anche casa tua.

 

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