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4 Dicembre 2014 | Racconti d'autore

La roba cattiva

Un racconto di Gianluca Morozzi tratto dal libro “Nero per N9ve” (Verona, Delmiglio Editore, 2014) – seconda puntata.

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Lo scrittore Gianluca Morozzi, classe 1971, ha già al suo attivo numerosi romanzi e graphic novels. Questo racconto bolognese compare in un’antologia che raccoglie nove storie della quotidiana vita di provincia.

Mi ha fatto un tunnel, il ragazzo nero.
Mi ha fatto passare la palla in mezzo alle gambe. La peggiore delle umiliazioni.
E mi ha umiliato due volte, regalando un’immeritata gioia a Zatterone.
Bottazzi mi sta urlando qualcosa di poco gentile. Un pensionato a bordo campo sghignazza «Cinque, non sei mica una bella gnocca, tieni ben le gambe chiuse!».
E poi c’è il numero sette che sta tornando tranquillamente a centrocampo. Trotterella quasi indifferente. Come se avesse fatto una cosa naturale quanto respirare.

Non è il primo tunnel che subisco, in tanti anni sui campi da calcio.
Tutti quelli che mi hanno fatto un tunnel una volta, non ci hanno riprovato mai più.
Quando capita che qualcuno mi faccia un tunnel, io aspetto che l’arbitro si volti. E poi vendico l’affronto con un calcetto o un pestone di quelli dolorosi.
Quando lo stronzetto dolorante si gira per protestare, io col dito gli faccio segno di stare zitto. Che siamo pari, ci siamo già capiti, e siamo a posto così.
Solo, dare un pestone al ragazzo nero, mi sembra politicamente scorretto.
A vendicarmi con violenza sul ragazzo nero, non so, ho paura di passare per razzista o cose così.
E allora mi limito a urlargli dietro «Oh, sette» e quando quello si gira, gli dico semplicemente «No, eh?».
Nel linguaggio universale dei campetti di periferia, dovremmo già esserci capiti.

Il sette sorride con i suoi denti bianchissimi. Dice soltanto «Okay, capo» in un modo che non capisco se dice sul serio o se mi prende in giro, e poi torna a sgambettare in mezzo all’erba.
Per dieci minuti la mia pietosa squadra cerca di rimontare il gol. Mentre il gioco si svolge dall’altra parte del campo io mi becco un po’ con Zatterone, visto che quello se ne sta immobile ad aspettare che un mezzo pallone schizzi nei dintorni. Abbiamo un eterno repertorio di insulti, io e Zatterone, forse vecchi ma sempre nuovi e freschi, per noi due.
Invece, il pallone schizza verso il numero sette.
E il numero sette scocca di nuovo verso di me come una freccia.

Mi preparo all’onda d’urto.
Stavolta non le apro, le gambe.
Stavolta se lo scorda, il tunnel.

Mi punta. Finta a destra. Finta a sinistra. Finta di nuovo.
Tra una finta e l’altra, perdo qualche secondo della mia vita. Cioè: senza capire come, mi ritrovo col sedere per terra. Sbilanciato da tutte quelle finte e controfinte, sdraiato a guardare il numero sette che mette di nuovo il pallone nel mezzo, e Zatterone che stavolta lo manca indegnamente come la pippa vergognosa che è sempre stato. Intanto che il pensionato, quello di prima, mi urla «Oh, cinque, fagli ben una foto, a quel sette, che almeno lo vedi una volta!».
Mi rialzo.
Guardo lo slavo che calcia via il pallone alla boia d’un giuda, lo manda a ricadere tra qualche ruvido piede nella pietraia del centrocampo, poi a rimbalzare sulla fascia sinistra.
Dove il numero sette è già rientrato alla velocità del suono, naturalmente.
L’ha domata. L’ha incollata al piede come fosse magnetica. E mi sta già puntando un’altra volta.
Ancora.
Dieci secondi dopo avermi messo a sedere come un pollo.
Si diverte, il maledetto.
Con quel fisico cibernetico contrapposto ai miei fianchi carichi di tortelloni.
Al mio fegato gonfio di birre coi colleghi, con gli amici, i compagni di squadra. Al mio polpaccio fibroso.
Alla mia paura di farmi umiliare di nuovo, di farmi saltare come un birillo un’altra volta.
Alle mia reticenza a entrare duro e cattivo.
Alla mia correttezza politica.

E intanto che questi pensieri si mescolano tutti in una volta, il ragazzo nero mi fa passare la palla tra le gambe. Un tunnel.

Ancora.

5.
Dietro una campana di vetro sento il pensionato che sghignazza e Bottazzi che smadonna e urla che vuole scambiarmi di posizione con lo slavo, che così almeno la tortura ce la smezziamo un po’ per uno.
Io mi volto, in trance.
Vedo il sette che per la terza volta mette la palla in mezzo.
Zatterone e Marangoni che corrono fianco a fianco.
Zatterone che non ci arriva, lento com’è. E allora si lascia cadere.
Si lascia cadere in ginocchio davanti all’esterrefatto Marangoni, che neppure l’ha sfiorato. E si mette a strillare «Rigore! Rigore!» con quella sua vocetta da tacchino.
Guardo l’arbitro che abbocca.
Corre verso l’area.
Indica il dischetto.
E Zatterone che ha pure il coraggio di annuire vigoroso, come a dire: «Volevo anche vedere che non fosse rigore».

Guardo il numero sette che torna indietro con quel suo sorriso bianchissimo, come se il calcio di rigore non lo riguardasse. Che lui il suo lavoro lo ha già fatto: aggirare il difensore, mettere la palla in mezzo per il centravanti, adesso il rigore è questione altrui.
Come a farmi capire che potrebbe andare avanti tutto il giorno a saltarmi come un birillo.

Le cose si mischiano tutte insieme.
L’umiliazione.
L’ingiustizia del rigore.
Zatterone.
Il pensionato.
Bottazzi.
Ma soprattutto l’umiliazione.

Affronto il numero sette faccia a faccia.
Quello alza lo sguardo all’ultimo istante.
Ed io lo colpisco con una testata sopra l’occhio sinistro.

Dopo c’è l’arbitro che mi corre incontro per cacciarmi fuori, il pensionato che mi urla «Vergognati, numero cinque!», Zatterone che si attira un altro po’ di odio gridando «Era ora, quello è un macellaio, lo sanno tutti che è un macellaio!» e a momenti viene alle mani con Marangoni, Bottazzi che bestemmia come uno scaricatore.
Il sette non dice niente. Non si rotola per terra come se avesse le convulsioni, non strilla come un pazzo per il dolore. Tiene una mano sull’occhio dove l’ho colpito e l’altra sul fianco.
Se ne sta in piedi.
E non dice niente.

Io ho talmente tanto sangue al cervello che me la prendo con tutti, il pensionato, l’allenatore, Zatterone. Ho anche il coraggio di ringhiare in faccia all’arbitro: «Guardi che il sette sta facendo scena, l’ho appena sfiorato, non gli ho fatto niente!».
Esco dal campo avvolto dal generale disprezzo. Ho un’espressione truce che nelle mie intenzioni dovrebbe far paura ai pensionati e alle mogli dei giocatori, ma che temo faccia solo e solamente pena.
M’infilo negli spogliatoi senza neanche aspettare che si tiri il calcio di rigore, che tanto Zatterone sa fare gol soltanto così, ormai. A porta vuota o dal dischetto. Di vedere di nuovo la sua esultanza da psicotico proprio non ne ho voglia.

6.
C’è di buono che posso fare la doccia da solo e con la garanzia dell’acqua calda, per una volta.
Resto tantissimo sotto il getto, a lavar via la rabbia e l’umiliazione. Esco prima che le squadre rientrino per l’intervallo, che non voglio vedere nessuno. Me me vado al bar del Dopolavoro con la mia tuta pulita e il borsone in spalla, tutto profumato di schiuma e con i capelli ancora un po’ bagnati. Mi pare un’immagine molto virile, quella del calciatore appena espulso con i capelli bagnati.
Nel bar ci sono le signore che giocano a carte, i pensionati che non sono a vedere la partita, certi ex giocatori che già erano vecchi al mio debutto che comprano i gelati per i figli. Con la scusa di portare i bambini al parco gironzolano intorno al campo, la domenica mattina, sospirando di nostalgia.
Dietro il bancone c’è la mamma della Carla.
Lei, la Carla, sta leggendo un manga seduta accanto al flipper.

Metto su il mio miglior tono impostato.
«Potrei sedermi al suo tavolo, bella signorina?».
La Carla alza la testa dal suo fumetto giapponese. Mi sorride. «Be’? Che ci fai qui così presto? Bottazzi ti ha sostituito?».
«No. Mi hanno espulso».
«Oh, povero. E come mai?».
«Colpa di Bottazzi. Io non ci so giocare, nella difesa a tre».
Mi siedo, mi lamento un altro po’ ma poi basta parlare di calcio. Lei mi fa il resoconto del suo sabato sera al Teatro Occupato, alla festa di solidarietà per i migranti, io del mio sabato sera in casa a rivedere in dvd la trilogia di Iron Man.
Poi sposto abilmente il discorso sull’estate. Io dico che vorrei passare i miei quindici giorni di ferie sulle scogliere irlandesi, pare siano stupende le scogliere irlandesi, sembra sia un panorama molto romantico.
Peccato doverci andare da solo, dico, e guardo la Carla in un modo che dovrebbe trasmetterle qualche idea per via subliminale. Ma la mia trasmissione del pensiero necessita di una regolatina, mi sa, perché la Carla comincia a dire che quest’estate vorrebbe andare a Benares in India, che ha letto da qualche parte che a bagnarsi nel Gange a Benares ci si libera dal ciclo delle rinascite.
Bisognerà lavorare di scalpello, per far breccia nel cuore complicato della Carla.

Parliamo un altro po’, fin quando la porta del bar non vomita dentro i giocatori della Lokomotiv Caserme Rosse usciti dalla doccia mediofredda, seguiti dai gialloneri della mia squadra con i borsoni sulle spalle.
Sono quei giocatori che non sono stati immediatamente sequestrati dalle mogli per i pranzi domenicali con la famiglia. Tipo Zatterone.
Sì, persino Zatterone ha una moglie. Carina, per di più. Per convincerla a dirgli di sì, immagino, si sarà rotolato per terra simulando la morte imminente. Tanto gli viene bene, rotolarsi per terra simulando.
Lei si sarà spaventata, avrà detto «Sì, sì, ti sposo», e lui si sarà rialzato di colpo per correre nei corridoi coi pugni al cielo.
Saluto un po’ svogliato i compagni di squadra che si lasciano cadere scomposti ai vari tavoli. Chiedo a Marangoni quanto abbiamo perso. Quello mi mostra quattro dita della mano destra e poi unisce l’indice e il pollice in cerchio.
Ah, bene, quattro a zero.
Non chiedo più niente.

Torno a parlare con la Carla.
Anche se la conversazione procede in modo farraginoso, perché a un certo punto mi accorgo che sto parlando soltanto io e che non so più cosa dirle.
Allora inizio a investirla di parole sul mio vecchio sogno di aprire un pub e di farci suonare dei musicisti blues tutte le sere. Lei risponde a brevi fonemi guardandosi intorno sempre più di frequente, con l’aria di chi tra poco troverà una scusa e mi lascerà da solo al tavolo, stanca e annoiata dai miei discorsi che suonano ordinari e banali, alle sue orecchie avvezze alle altissime conversazioni da centro sociale.
Fin quando non entra il numero sette della Lokomotiv.
Col suo borsone sulle spalle, i pantaloncini, la maglietta gialla sulla pelle nerissima. E un cerotto sul sopracciglio, nel punto dove l’ho colpito.

Di colpo ho un lampo: l’intuizione che può conciliare la mia fondamentale lealtà sportiva con la mia correttezza politica, e allo stesso tempo fare colpo sulla Carla.
Mi sbraccio verso il ragazzo nero, dico ad alta voce «Sette! Ehi, sette!».
Quando quello si gira assumo un’espressione contrita e rassicurante, per fargli capire che non ho la minima intenzione di colpirlo ancora e che, anzi, voglio assolutamente scusarmi con lui per il mio gesto da animale.
Il sette mi guarda perplesso, come se non mi avesse neanche riconosciuto. Poi mi identifica, fa un cenno neutro con la testa, intanto che gli faccio segno di venire al nostro tavolo e di sedersi con noi.
La Carla, che nulla sa dei nostri trascorsi, subito prende una sedia dal tavolo vicino. Voglio vedere se non faccio colpo su di lei, invitando il ragazzo nero al nostro tavolo.
Il sette appoggia il borsone per terra, si siede, e non fa in tempo a sedersi che io l’ho già ricoperto di scuse. «Mi dispiace» dico cinque volte, «Ho perso la testa» dico sei volte, «Scusami ancora» dico quindici volte, «Fatti offire una birra» concludo.
Lui non replica subito, tanto che a un certo punto ho il dubbio di aver blaterato scuse in faccia a uno che non parla neanche bene la mia lingua. Poi mi sorride, e in italiano perfetto dice «Nessun problema, capo. In campo le botte si danno e si prendono».
Questa frasetta abusata deve averla imparata da qualche difensore della Lokomotiv Caserme Rosse, mi sa. Poi guarda la Carla e mi domanda: «Sto disturbando te e tua moglie?».
Sorrido, dico: «Nooo, non è mica mia moglie, siamo amici, io e la Carla!».
E vado a prendere due birre al bancone, una per me, una per il ragazzo nero. Quando torno, la Carla e il sette stanno conversando fitto fitto.

Brano corrente

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