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30 Luglio 2015 | Racconti d'autore

Le chiese scomparse

Poesie di Domenico Segna tratte dal volume omonimo (Monghidoro, con-fine edizioni, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Giornalista e docente nello Studio filosofico domenicano di Bologna, Domenico Segna ha raccolto le sue poesie all’ombra di un silenzio che invita a pensare, ricordare, consacrare il tempo, muovere le labbra e poi, di nuovo, tacere.

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        C’è un’ora
al giorno
che non si è mai soli,
quando le chiese sono chiuse
e gli alberi dei viali
sospingono innanzi le loro foglie
per ripararsi dalla ragnatela
del chiarore.

        I talismani
appaiono
con le loro spade,
costruiscono algebre
di pietre ottagonali,
ogive d’arsura
per guarnigioni in marcia
cieca solitudine di stendardi.

        Il cielo si stende
rotondo,
        si spande,
si ritrae
davanti alle sentinelle,
quando l’ordine dato
non giunge a destinazione
e sulla via passa
l’equatore.

        Limpido, allora,
si ripercuote,
        l’immobile arazzo
d’una corte.

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Chiesa del milite ignoto

Sospinti verso le foci del Po
i ragazzi del ‘99 traslocavano dal Vittoriano
passando per via dell’Amba Aradam.
Sapevo quando nella culla bagnavo l’Altare della Patria.
Aurelio era lì che dormiva. Lo salutavo ad alta voce.
Sognava, fingeva di dormire.
La notte, però, veniva a trovarmi prendendo l’ultimo tram.

Non era molto alto.
Le sue piccole mani avrebbero contenuto
tutto il chiarore del nuovo mondo.
Voleva andarsene in America.
Se credevo morti mio padre e mia madre si slacciava l’elmetto,
lo riempiva di neve elettrica del porto di Nuova York.
Non aveva armi.
Solo un buco nella tempia da cui uscivano tulipani e quadri.

Aveva una bella voce.
Respirava ancora quando
                                    lo vollero seppellire nel marmo.

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Chiesa di Giuliano l’apostata

Pioggia di mattini in questa festa che sa di pane e d’incenso. S’è fatto giorno. La perfezione dell’acqua disseta la corsa dei corpi celesti. Odisseo naviga con le armi di Achille. Calipso le riduce a mormorio, cancella il mondo sullo scudo. Trovo un senso che somiglia ad un fanciullo non ancora addomesticato, quando l’ala del pettirosso traccia d’un salto l’alfabeto. Screziata di porpora e d’arancio la sillaba è un’evidenza. Solo l’azzurro rimane schiacciato nell’otre dove si lodano le parole. Conchiglia di vento ascolta il mare senza principio né fine, agli dèi immolo la tua immortalità, il corpo sulla croce sarà riarso ulivo,
                                                                 giunco d’eco.

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Chiesa della nonna cattiva

I lasciti testamentari hanno sempre qualcosa di ridicolo.
Le ultime volontà di una donna che aveva quattro figlie,
diversi nipoti, un certo numero di generi sopravvissuti
ricorda l’impero romano al suo crepuscolo.
Oppure una telenovela orchestrata da un avvocato
e da un notaio invisibili.
Giovani Parche burocratiche di destini incrociati.
Quando sono vivi i morti li si sopporta
quando sono di là li si piange per una settimana:
né l’uno, né l’altro se la scomparsa è una vecchia
abituata alla menzogna, al rancore, all’invidia.
A quest’ora chi avrà conosciuto?
Cesare e Bruto riconciliati,
Achille che finalmente ha raggiunto la tartaruga,
papa Celestino le ha rivelato di non aver mai saputo nulla dell’elezione.
Con il suo dialetto trapiantato nell’Urbe nell’anno XIV dell’era fascista
non capì mai chi fosse quel tale che ogni tanto si affacciava dal balcone.
Non aveva storia, non entrò nella storia, piuttosto pensava a far fuori
dall’eredità il fratello puttaniere, sciarpa littorio, marcia su Roma del ‘22.
Il testamento, quando fu aperto, scompigliò ogni previsione:
iniziò una causa che durò un quarto di secolo (e dura tuttora).
Fu il suo modo per entrare nell’immortalità per due o tre generazioni.

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Chiesa del tour operator

Con il suo equipaggio
di ombre il treno
sereno e lucente
si ferma poco oltre
il borgo.

Distesa assorta
la campagna.
Non c’è un filo di vento.
Nessuno può scendere
o salire.

È forse serenità,
             morte o vanità?

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Chiesa dei telefoni bianchi

Nuotano nell’aria le fronde degli alberi. Dalle maree di vento giungono due barche. Scendono ombre, si allungano alle radici, si stendono ai piedi delle conchiglie e dei coralli… Così amo ora scorrere le serate: comprare seppie di foto di giovani coppie sconosciute. Sposi di un secolo in bianco e nero. Attento alle pieghe della giacca mi siedo in poltrona osservo l’ultima fotografia che ho trovato nel mercatino pluviale di ogni inizio mese. Lei è un ovale, un ciliegio l’incarnato. Lui ha l’orologio nel taschino, due baffetti sottili, sottili, la tiene per un braccio. Si amano. Piccoli temporali bagneranno in casa le loro mani. Lui la tradirà, lei lo lascerà. Lei si innamorerà di un altro, lui si annegherà. Lui la veglierà sino all’ultimo giorno, lei lo terrà per mano come un tempo quando si conobbero durante la festa dei navigli. Bagliori di alghe aliene. Telefoni bianchi, piccole amenità. Nell’aria nuotano ancora per un poco le fronde degli alberi, la bassa marea del vento si è consumata in mille bandiere. Le ombre sono risalite sulle barche con il loro carico di radici, conchiglie e corallo.

Semplicità di pellicole mute,
                                circostanze familiari mai conosciute,
                                e non c’è niente dopo.

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Abbazia dell’abito

Intessuta di foglie di castagno, l’anima. Un abito stretto come un cannocchiale da cui si può guardare solo al contrario. Logge frementi di vento i bottoni stringono le sue asole, un sarto l’ha ritagliato, nessun nome gli ha dato. Su di una sedia sospesa nell’acquario del cielo l’ha piegato, con un temporale l’ha stirato. Una ruga perfetta, un orizzonte verticale. Ha socchiuso per un attimo la porta, gli occhi l’abito ha sbocciato, per le ringhiere, veloce, è balzato.

                                            (Sono un abito, l’anima di un’ansia,
                                                   una tunica curiosa dell’al di là).

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Finestra di una clausura

Lontani fuochi della luna, sembra un calice capovolto l’azzurro ed il liquore della pioggia addolcisce l’eucalipto. Su quest’isola solitari vanno i santi dei lunari. Là il firmamento
inatteso, là l’appuntamento veloce o l’avvilita disdetta. Canti dei calanchi, dei girasoli, delle viventi divinità dei campi. Fruscii labili, schivi. Di equipaggi senza oscurità hanno bisogno le navi, selve per serbare le eresie delle rotte. Sui rami foglie di ruggine in fiore, per delle lacrime gli alberi si sono messi a fremere paghi ruscelli senili.
Il vespro dorme
                         la nostra libertà.

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Dopocena

Strano a dirsi ma la cena è riuscita.
Abbiamo spezzato il pane,
bevuto il vino, intinto nell’olio le focacce.
Giuda è stato tranquillo, Pietro brioso.
Quando se ne sono andati
Giovanni, il più giovane dei miei discepoli,
mi ha ringraziato per la lieta serata.
Dopo aver chiuso la porta ho sgombrato la tavola,
la lavastoviglie non ha fatto rumore.
Non avevo voglia di mondare i piatti.
Disteso sul sofà mi sono visto la registrazione
dell’ultima puntata di Downton Abbey.
Tranquille appassite verità.
Di soldati che vengono ad arrestarmi
non ce ne sono più,
di morti da resuscitare
in giacca e cravatta neppure.
Icone delle onde radio di ieri
raccontano della mia entrata a Bruxelles.
Presso di me non c’è preferenza
di cani, locuste, sconosciuti.
Questo è il mio corpo,
questo è il mio sangue,
questo il momento di vegliare.
Così ammetteva un mio seguace
che non voleva camminare
su nuvole di chiese pallide e inquiete.

 

Brano corrente

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