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21 Marzo 2013 | Racconti d'autore

Mio nonno voltava le acque

Di Valerio Varesi, tratto da “Scosse”, a cura di P. Roversi, Ghezzano (Pisa), Felici Editore, 2012

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

21 marzo 2013

Il terremoto che ha colpito l’Emilia nel maggio del 2012 ha fatto tremare insieme alla terra alcune false certezze (una per tutte: la pianura padana non è una zona sismica). Ma ha anche rafforzato dei legami, come quello che unisce quanti raccontano storie a quanti le leggono o le ascoltano: in questi mesi, infatti, si sono moltiplicate le iniziative in cui cantanti, attori e artisti hanno raccolto fondi a favore delle zone colpite. Tra queste iniziative si segnala il volume da cui è tratto il racconto di oggi. Il suo autore, insieme agli altri coinvolti nel progetto, ha devoluto il proprio compenso per la ricostruzione della Biblioteca comunale di San Felice sul Panaro, nel Modenese.

Valerio Varesi, redattore dell’edizione bolognese di “Repubblica”, è un affermato scrittore di romanzi gialli.

Quando la pioggia diventava insistente e scendeva da un cielo color topo, per giorni e giorni, uguale, mio nonno usciva vestito come lo spaventapasseri della Vigna. In testa un cappello a tesa larga a fargli da grondaia e addosso un tabarro spesso, lucido d’incerata che sembrava di lamiera. In spalla il badile.
«Dove vai nonno?».
E lui, senza voltarsi, parlando all’aia: «A voltare le acque».
“Voltare le acque”, per mio nonno, significava indirizzarle, evitare che ristagnassero facendo sacca, impedire che prendessero la via breve tagliando per il seminato, sgombrare i fossi dalle ramaglie, togliere i piccoli smottamenti e, infine, badare al torrente che non mangiasse la sponda. Certe volte lo guardavo lavorare dalla finestra e scoprivo che quell’apparente stravaganza di uscire all’acqua, era condivisa da molti altri come lui. Tanti uomini della pioggia lavoravano, ciascuno sul proprio fazzoletto di mondo, a “voltare le acque.” Nel silenzio della campagna, si poteva sentire il coro dei loro badili raschiare la terra come quando in città nevicava e al mattino, ancora prima di giorno, un esercito di badilanti sgombrava marciapiedi e cortili.

Mi sono ricordato di quel tempo quando le scosse ci hanno fatto ballare e di colpo precipitare in una paura nera, profonda e senza rimedio. Un timore ancestrale, come quello dei bambini per il buio. In quegli istanti dove tutta la nostra presunzione svanisce e l’unica cosa che ci resta è l’implorazione della grazia, ho ripensato a mio nonno. L’ho rivisto lavorare di fino col badile, senza imprimere forza, come accarezzasse le sponde, pettinasse l’alveo dei fossi o riaprisse arando i solchi ostruiti.
Tutto doveva scorrere, seguire la gravità e scolare via fino a quel mare che lui immaginava senza mai aver visto. Più che un lavoro, sembrava un rito propiziatorio intervallato da pause d’ispezione e soste di studio. O più semplicemente un tentativo di stabilire un compromesso, un armistizio, con chi è infinitamente più forte. Avrei giurato che ci parlasse, con tutta quell’acqua, anche se lui l’avrebbe negato persino sotto giuramento. Avevo imparato allora che niente era scontato quando si discuteva di pioggia, di vento, di terremoto o di altre cose naturali. Che bisognava solo ringraziare che non ti strappassero via qualcosa. Se non succedeva era anche per quella cura costante di amorevole manutenzione e di dedizione timorosa che mio nonno e tanti come lui praticavano con l’umiltà di un sacrificio agli dei. Mia nonna, sintetizzava tutto in poche parole in dialetto: «Quello che è nei campi è di Dio e dei Santi».
Al contrario di mio nonno, poco incline a credere in ciò che non vedeva direttamente, mia nonna praticava un’intercessione molto più spirituale invocando i Martiri del lunario che tenevano in mano il filo delle stagioni a essere clementi risparmiando la grandine, il secco, i parassiti o la zoppina nelle stalle, la maledizione peggiore: l’afta epizotica. C’era sempre un santo giusto contro la moria dei conigli, i pidocchi dei polli, la diarrea dei vitelli, la ruggine delle viti. Ogni disgrazia aveva un antidoto celeste. La natura e le sue manifestazioni erano temute più di ogni altra cosa.

Della bellezza dei prati o dei boschi, ai contadini non fregava granché. Erano molte più le minacce che l’incanto. Le case avevano le facciate a sud per evitare “le arie cattive” del settentrione che ogni inverno portavano la polmonite, e l’unica finestra da quel lato veniva aperta solo alla mietitura per alleviare le prime calure, ma veniva richiusa già a fine settembre. I più cagionevoli indossavano la maglia di lana anche in agosto, sotto la quale resisteva un biancore latteo che era il colore dell’intimità.
Le disgrazie avevano insegnato nei decenni un catalogo di precauzioni a generazioni che ne conservavano la memoria. Così, la vita dei miei nonni era interamente improntata alla prevenzione, la miglior polizza per garantirsi dai guai. Un passo falso poteva costare carissimo: la miseria, la fame, la morte. Ma se malgrado tutta l’accortezza, il fiume straripava, la frana scendeva e il fuoco bruciava il fienile, occorreva unirsi e farvi fronte tutti. Era allora che i badili iniziavano a lavorare per una sola causa in un solidarismo spontaneo nella consapevolezza che quando la natura è matrigna non fa eccezioni.

Questa cooperazione, prima ancora che venisse codificata in forma giuridica, era un afflato naturale di mutuo soccorso che scattava anche di fronte a momenti di fatica gioiosa come la trebbiatura, rito collettivo bisognoso dello sforzo di molte braccia. Si formava allora una compagnia errante, una sorta di festa mobile, un caravanserraglio itinerante di felicità nell’estate piena d’Emilia, nel grano che scorreva dando pane e ristoro, nel faticar contento degli uomini sotto la polvere e il solleone. Un’intero battaglione di lavoranti si spostava di aia in aia al seguito della “macchina”, quel prodigio di ingranaggi che separava il grano dal loglio, l’utile dal superfluo, attribuendo a ciascuna cosa un valore e un ruolo: alla paglia, alla pula, alla crusca, al grano.
Di tutto questo mi sono ricordato dopo che le scosse hanno fatto vacillare certezze che si pensavano acquisite e che invece non lo erano e non lo sono mai state, a cominciare dalla vita stessa. Da un mondo che è il nostro passato prossimo è emersa la figura di mio nonno con tutto quello che ha rappresentato portandosi in spalla il tempo che aveva attraversato. Soprattutto quel suo andare a “voltare le acque”, antico gesto in cui si condensava la sapienza di generazioni seppellita in fretta dalla presunzione della tecnica.

Il terremoto ha improvvisamente riportato a galla gesti naturali e cancellato imperdonabili amnesie. La consapevolezza della fragilità ha rotto le barriere erette da una sciocca tracotanza, la comune minaccia ha avvicinato al gregge chi nemmeno si parlava, ripopolando le piazze, le vie, i cortili. La cooperazione è rinata sotto forma di improvvisa solidarietà e, tutta assieme, la collettività ha ripreso a riflettere sulle proprie colpe, sulla presunzione di dominare il destino e sulla cupidigia di chi arrogantemente pensava di poter fare a meno di quella previdenza che era stata la bussola di sempre.
Ecco, a pensarci bene, i maggiori danni, più che dal terremoto in sé, sono arrivati dall’oblio dell’esperienza, dalla collettiva perdita di memoria. E le scosse sembrano aver voluto punire l’Emilia proprio cancellando i simboli dimenticati di quella identità che il nostro tempo ha ripudiato per ignoranza e indifferenza: le torri, le chiese, i palazzi, i dipinti e i monumenti. Sul volto dell’Emilia, è stato buttato il vetriolo per castigare chi non sa più prevenire, vivendo in un presente cieco senza la profondità del futuro nel pensare alla vita.

Eppure quell’ansia di avvenire, quel sole nascente che dava speranza e forma alle società di mutuo soccorso e alle cooperative è nato proprio qui, nelle pianure che nel bene e nel male hanno partorito l’Italia. Il terremoto ci ha scossi anche in questo, come si scuote uno che dorme per farlo tornare cosciente. Ci ha voluto ricordare i nostri nonni che “voltavano le acque” e agivano secondo una sapienza antica depositata nei decenni, imparando dalle disgrazie. Quelli che allevavano collettivamente il maiale che singolarmente non avrebbero potuto permettersi, sfamandosi nei lunghi inverni di gelo e di nebbia.
L’Emilia era anche questo: porcilaie comunali per dividere i costi e consentire un po’ di carne anche a chi stava peggio. L’Emilia era un sindaco bolognese come Francesco Zanardi, capace di costruire un gigantesco forno collettivo per dare il pane a tutti a prezzo politico. Uno che pensava in grande e aveva comprato un paio di battelli per rifornire direttamente di carbone e pesce la città dalle miniere sarde e dai porti del Tirreno aggirando lo strozzinaggio dei commercianti.
Questa era l’Emilia dell’utopia realizzata, del coraggio di sfondare i limiti, della politica che subordinava l’economia e orientava il mondo alla ricerca del bene comune. Poi sono venuti momenti come quelli che viviamo, in cui quel pensiero è stato scalzato dal nostro orizzonte e all’idea è subentrato un comodo benessere individuale via via invelenito nell’egoismo del guadagno a qualunque costo. Il denaro ha preso il posto dell’uomo nella centralità delle nostre vite e tutto è lentamente scivolato nella barbarie. Senza traumi, senza drammi. Anzi, dolcemente, piacevolmente, persino con trasporto nel miraggio del godimento effimero fatto di giocattoli sempre nuovi.

Ricordo gli ultimi anni di mio nonno deportato in città, corrucciato senza più i suoi campi, avvilito e muto perché con la scomparsa del suo mondo non c’erano più cose da nominare. Lo guardavo passare ore alla finestra a contare le macchine lungo la via ed ero sicuro che se avesse avvistato il carro funebre che lo veniva a prendere ci sarebbe salito felice pur di abbandonare quell’esilio. Si stupiva di tutto, segnatamente del superfluo che lo circondava e che noi idolatravamo: la radio, la televisione, gli acquisti continui sostituendo cose ancora funzionanti. In ogni dove osservava cose urgenti da fare, stupendosi che nessuno se ne occupasse. Non capiva la fretta che ci spingeva a correre come avessimo un forcone sul culo e nemmeno perché si mangiasse quando capitava e non a mezzogiorno.
Ma la sua rabbia di alieno in città, culminava con la pioggia. Allora diventava intrattabile, ringhiava dentro di sé e si capiva che avrebbe dato tutto pur di ritornare col tabarro, il cappello e il badile a “voltare le acque” ora che i suoi campi erano orfani. Alla fine si rassegnava scuotendo la testa e mormorando una frase sempre uguale, come una profezia oracolare: «Non c’è dubbio che possa mai andare bene il mondo». Alludeva a quel mondo che vivevamo noi con la garrula fiducia dell’avere tutto e subito.

Ho capito solo oggi, nel panico in cui ci ha gettato la scala Richter, cosa significa prevenire e ricordare. Ho capito che la noncuranza, l’ignoranza e l’oblio producono i capannoni che si sbriciolano al primo tremore perché le loro travi sono posate a secco pensando che il terremoto non debba mai arrivare, pensando a risparmiare, all’utile, alla competitività. Solo adesso comprendo mio nonno, la sua rabbia o la feroce ironia con cui ha guardato al mio mondo. Era il suo modo di avvertirmi che camminavo verso un culo di sacco, quello che orgogliosamente rivendicavo come progresso. Dev’essersi sentito tradito e ridotto a relitto.
Anch’io ho contribuito ad avvelenare i suoi ultimi anni e forse se n’è andato nella consapevolezza di non aver lasciato niente né a me né a nessun altro. E invece le scosse mi hanno fatto capire che proprio da quel suo modo di vedere le cose occorre ricominciare. Da quei gesti umili e quotidiani che condensano in sé la cura per il mondo estesa dalle cose al prossimo. Del resto è dalle avversità che tutto questo s’impara. Come dal terremoto che è venuto a svegliarci. La storia non è mai un processo rettilineo, piuttosto viaggia come un barbone: girovaga un po’ avanti, un po’ indietro, corre, rallenta, si ferma. E molto spesso imbocca la strada sbagliata ed è costretta a tornare indietro.  

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