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3 Aprile 2007 | Racconti d'autore

N°54-RACCONTI D’AUTORE

“Sigari e belle mulatte” da “Il governo del corpo” di Piero Camporesi. Garzanti, 1995.

Piero Camporesi (nato a Forlì nel 1926, morto a Bologna nel ’97), è bravissimo a scrutare i sintomi della nostra brutale contemporaneità attraverso il filtro di una memoria erudita e volutamente inattuale.
Così, partendo da molto lontano, ne “Il governo del corpo”  si parla dell’edonismo di massa, della paranoia delle diete, della decadenza dell’olfatto, della religione del corpo, delle incerte vie del sesso liberato, dell’inquinamento dell’aria, dello sterile consumo delle ore notturne.


Sigari e belle mulatte


Dal punto di vista scientifico la classificazione sarà anche ineccepibile, ma riesce arduo comprendere i motivi della difficile coabitazione nel seno della stessa famiglia di vegetali tanto diversi per carattere, sangue, destini. Sotto il profilo morale è inspiegabile che la timida e innocua patata, bulbo salvatore di innumerevoli affamati, debba convivere con l’atropa belladonna, erba stregonesca che rende «spiritati» coloro che ne fanno uso, o con la datura stramonium, «herbe aux sorciers», «herbe aux démoniaques»; ed è ugualmente sconcertante, quasi intollerabile, che il solare pomodoro si trovi coinvolto nei misfatti della banda corrotta e farneticante del notturno e visionario giusquiamo, solonacea allucinatoria, anticamente denominata «apollinaria» per la sua virtù d’aprire squarci luminosi nel buio della mente, o del solatro «furioso», distributore di estasi malefiche, o della dulcamara dalle perfide bacche, agrodolci confetti narcotizzanti.


Passi per la melanzana, la «mela insana» che fu a lungo relegata dai sospettosi fisici medievali nell’orto ambiguo dove allignavano frutti demenziali: ma non si capisce per quale oscuro disegno dell’incomprensibile natura il gioviale peperone debba spartire qualcosa col tabacco, la vituperevole pianta contro la quale, nell’estate scorsa, si rovesciò un torrente di ministeriali esecrazioni e di terapeutiche maledizioni durante mesi di furiose e quasi isteriche diatribe, in un clima di pesanti insinuazioni per i fumatori, inquinatori della pubblica felicità e della purezza collettiva, viziosi incalliti e poco meno che degenerati irresponsabili. Un illustre premio Nobel giunse a scomunicare la nicotina, giudicandola più perfida e criminale dell’eroina, più peccaminosa e indecente della cocaina. Anatemi che farebbero fumare di sdegno le ceneri di Giacomo Leopardi, lui che sapeva apprezzare l’ «utilità» del tabacco e i suoi piaceri: più innocenti di tutti gli altri al corpo e all’animo; meno ver­gognosi a confessarsi, immuni dal lato dell’opinione; più facili a con­seguirsi, di poco prezzo e adattati a tutte le fortune, più durevoli, più replica bili (Zibaldone, Bologna, 13 luglio 1826).


Chissà come si sarebbe sentito male il povero don Bosco, santo operoso dalle infinite virtù, nell’apprendere le infinite scelleratezze della satanica foglia, lui che di tabacco, come è noto, ampiamente abusava. E ancora continuiamo a chiederci perché Benedetto Croce, anziché interrompere la tradizione di Zenone d’Elea e, in generale, della «filosofica famiglia» – usa a ricorrere all’elleboro bianco o veratro per «apparecchiare il corpo allo studio» (come testimoniano Plinio e Aulo Gellio) «perch’egli punge e desta / l’ingegno usato a le question profonde» (Torquato Tasso) – avesse optato per le frivole e oggi tanto vituperate «bionde», per le ellissoidali «macedonia extra», portatrici di delicate, medio-orientali voluttà, tradendo l’Ellade sacra per l’indefinibile e meno puro Levante, seppur nella versione bulgaro-balcanica.


Strano destino di questa indica pianta, «miracolo del Mondo nuovo», approdata in Europa dai «popoli più stolidi e sordidi dell’Occidente» per cancellare con le «cattive creanze» il galateo dei civili europei. Perché se da una parte tutti nel XVII secolo concordavano che la pianta dell’ «erba santa» era «privilegiata da tante e tante maravigliose virtù» al punto da supporre che dovesse identificarsi con la «divina peonia di Omero, unica medicina a tutti i mali», dal momento che «tutta quanta, o verde, o secca, arsa o infusa, con le foglie, col fiore, col seme, col succo, in polvere, in fumo, in conserva, in istillato alle febbri, alle doglie, alle piaghe disperate da ogni medica mano, quasi in miracoloso modo porgea salute», dall’altra l’abusivo costume del «villano tabacco» sembrava aver «sbandito dal mondo il Galateo con le sue leggi morali». Se annusato, l’ «immondezza» di ficcarsi «pubblicamente nel naso con le dita il fracidume di quella polvere, o suggerla con le narici infeltrate e lorde della villana lordura che ne distilla» appariva atto contrario alla <<natural legge»; se masticato, «qual atto più stomacoso, che ragionando con altri, ruminar fra’ denti quella tetra e letaminosa materia, versando per conditura delle parole, sgorghi bavosi ed aliti puzzolenti?»; se fumato, «qual più orri­bile spettacolo», si chiedeva inorridito il conte Emanuele Tesauro, «che immergersi nella sua bocca la bocca di un torto corno, farcito di quel fuligginoso e fiammante succidume, sorbendone il tartareo vapore per le fauci ed esalandolo per le na­rici, a guisa dei cavalli di Diomede ed i tori di Giasone, che dalle fauci vomitavano fumo e faville?».


Ma nella seconda metà del Seicento la diffusione del tabacco era ormai tanto capillare che la «mala creanza» appariva cambiata in lodevole pratica sociale.


Oggidì non solo i soldati di guarnigione ed i trecconi delle baratterie, ma molti onorevoli cittadini e molti nobili cavalieri hanno questo costume sì familiare, che la nausea n’è divenuta diletto; e quella che a’ tempi del Galateo fu inciviltà, è divenuta civiltà; perché l’abuso si è fatto uso; e perciò il tabacco non deroga alla virtù dell’affabilità, perché si dona e si prende per compiacenza.


Gli aspetti sociali dell’uso del tabacco, fosse polvere, rapé, o trinciato da pipa, oppure foglia arrotolata, furono subito colti da molti osservatori del Sei e del Settecento, che ne sottolinearono la virtù di unire, di affratellare, di colmare le separazioni e le disuguaglianze sociali, il suo misterioso potere di far scorgere un «barlume, per così dire, e uno spiraglio di quell’antica, umana, schietta semplicità e fratellanza», di ricostituire magicamente una comunione sociale, una solidarietà perduta, di ritrovare in quella foglia una condizione e uno stato cancellati e dimenticati, un frammento effimero, un tenue riverbero di pri­migenia, innocente beatitudine sepolta. «Concilia l’amicizie al pari del vino», scriveva nel 1695 il gentiluomo fiorentino Anton Maria Salvini, «anzi con maggiore e più universale comodità … delizia delle sacre e ritirate persone, di maniera che come cibo innocente e pasto del celabro e non del ventre, ancor su gli altari e tra le venerande cerimonie del sacro ufficio, non s’astenean d’usarla.»


Le «sacre persone» si astenevano così poco da questa erba «santa» così detta «in riguardo alle sue virtù», che gli «oracoli vaticani» per ben due volte, col pontefice Urbano VIII nel 1642 e con Innocenzo x nel 1650, vietarono, sotto pena di sco­munica, di «prendere tabacco nelle chiese e nei loro atrii e portici … per l’irriverenza e indecenza che quest’azione contiene in sé». Minaccia forse eccessiva, tenuto conto che questo innocente cibo del cervello, essendo «molto disseccativo», teneva lontana la causa naturale della libidine, il calore accompagnato dall’umidità, smorzando «quelli moti libidinosi così veementi». Anzi, come notava con una punta di rammarico il padre Benedetto Stella, senza dubbio il maggior trattatista secentesco del «giusquiamo del Perù», l’ «uso del tabacco moderatamente preso, non solo è utile, ma anche necessario a preti, monaci, frati, ed altri religiosi che devono e desiderano menar vita casta e reprimere que’ moti sensuali che cotanto infastidiscono». Mentre, per la ragione inversa, era da considerarsi «molto nocivo agli uomini ammogliati e che son tenuti a rendere il debito del matrimonio». Casta voluttà sognante, sottile piacere dell’immaginazione per uomini soli, volubile additivo del cervello incompatibile con l’ingordigia del ventre, e ancor più con le veneree fatiche, al punto che «quell’uomo ammogliato pecca mortalmente, che con mezzi illeciti si rende impotente al rendere il debito matrimoniale». Ci fu un medico, nel XVII secolo, Antonio Vitagliani, autore del De abusu tabaci, che sperimentò da vicino l’illecito, osservando gli effetti devastanti del tabacco sopra un giovane venticinquenne che, accanto a una bellissima moglie, giaceva insensibile nel letto «immobilis, velut inelevabile pondus».


Fumi, «fumi leggi eri» solleciti a «inebriar le cure» e a disegnare in libri d’aria, in «cifre vagabonde», incerte «isole veleggianti, enigmatiche figure d’ “alti misteri”». «Le torbid’aure ch’io diffondo / paion isole in aria, e pur son fumo, / tal, in aria sospeso, è un fumo il mondo»: erano le malinconiche riflessioni d’un fumatore di pipa barocco, l’elegia d’un secolo fumoso che vedeva riflesse nelle nuvole dell’ «erba santa», le fragili realtà della vita e le labili, precarie solidità del creato.


Oggi invece non c’è bisogno delle nuvole alla nicotina per capire quanto solido e fermo sia il nostro mondo e di quante preziose certezze possa andare fiero. Il nuovo filosofo morale, il manager virtuoso, non fuma e sorseggia acqua minerale, cura la linea, studia il listino, fissa il computer e memorizza un universo d’informazioni che non gli serviranno mai a leggere nel libro aereo della vita. Detesta, giustamente, il tabacco, roba da primitivi buona per peones, amerindi, portoricani, afrocubani, andini, guatemaltechi e stregoni Coyote, tribù periferiche notoriamente dotate d’un basso quoziente d’intelligenza; verdura essiccata buona per marinai, bevitori di rhum, soldati di guarnigione, «trecconi delle baratterie», nomadi e vagabondi dall’incerto mestiere, buona per le frattaglie sociali delle sottoculture che non vogliono saperne dei vangeli yuppies. Gruppi sospetti ed etnie in via (finalmente) d’estinzione ancora stolidamente attaccati a quel tabacco che, secondo un nobile meteco settecentesco suddito di quella assonnata provincia culturale denominata granducato di Toscana, sanava «le noiose cure e i torbidi pensieri» mandava in esilio, «a’ derelitti fido compagno, scorta degli sconsigliati, consolazione degli oppressi, oblio dolce dei mali» (Salvini).


Igienisti, moralisti e alti commissari della sanità hanno però ragione: che gusto, che consolazioni, che voluttà e quali messaggi può ancora offrire una grigia miscela depurata, degradata, chimicamente manipolata, umiliata nei suoi intimi segreti vegetali, omogeneizzata e sterilizzata, intristita da doppi, tripli filtri, esorcizzata dalla demoniaca nicotina? Meglio rinunciare a questi insulsi emblemi di vita programmata, a questi sterili tubetti nei quali una volta derelitti, oppressi e sconsigliati trovavano velenose consolazioni. Lasciamoli ai marginali, ai non integrati, ai settari della macumba e del voodu, ai sacerdoti del tempio dell’ignoranza. Il ciclo storico di questa erba si sta ormai esaurendo. Il vento dei grandi oceani non soffia più sulle vele dei brigantini e l’epopea avventurosa della filibusta è terminata. Nelle grandi pianure e sui pascoli dell’ovest non alita più il «grande spirito», stanco di rivelarsi nelle spirali azzurrognole dei calumet.


E poi, accantonando i fumi sacri, dove trovare ormai quei sigari cubani la cui eccellenza, secondo un viaggiatore francese ricordato dall’ultimo adoratore del tabacco, Fernando Ortiz, «dipendeva dal fatto che le belle mulatte li andavano manipolando sulle proprie cosce nude»?  “Corriere della Sera”, 13 gennaio 1987.

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