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26 Settembre 2013 | Racconti d'autore

Paesaggio terrestre attorno a Villa Minozzo

Racconto di Giorgio Messori tratto dal libro “Viaggio in un paesaggio terrestre” di Vittore Fossati e Giorgio Messori (Reggio Emilia, Diabasis, 2007) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

26 settembre 2013

Qualche anno fa, girando tra le zone spopolate dell’Appennino reggiano, lo scrittore Giorgio Messori e il fotografo Vittore Fossati hanno preso appunti, con penna e obiettivo, su quel che vedevano. 
Da quegli appunti è nato un libro illustrato in cui sono confluite anche esplorazioni in altri luoghi descritti da poeti e pittori che sul paesaggio, e sull’arte di rappresentarlo, avevano riflettuto. Questo è il racconto che dà inizio al libro.

L’estate che ero a Villa Minozzo, in un minuscolo appartamento preso in affitto dal veterinario del paese, quando a ferragosto è venuto Vittore a trovarmi e abbiamo cominciato ad andare in giro, lui con la macchina fotografica, io con quaderno e matita, per esercitarci a osservare il mondo che avevamo attorno, fin dall’inizio ci siamo proposti di cercare un paesaggio terrestre perché ci eravamo detti che la maggior parte degli uomini, quando guardano nella natura, hanno in fondo davanti a sé lo stesso paesaggio, almeno nelle sue linee essenziali. Sotto c’è la striscia verde e marrone (la terra) e sopra il cielo azzurro.

È chiaro che parlare di paesaggio terrestre può sembrare tautologico, perché ovviamente è l’unico paesaggio che possiamo conoscere, a meno di non abitare su Marte o sulla Luna. Ma assumere la coscienza di vivere in una dimensione “terrestre” può aiutare a superare certi limiti, ad esempio i confini dell’io, della vita di società, e di un’immaginazione sempre proiettata in qualche altrove, in mondi virtuali e spesso claustrofobici.
Prima ancora che un lavoro “artistico” la nostra ricerca la intendevamo come terapia, un modo per esercitarsi a non perdere la sensibilità a ciò che ci era attorno, e provare ad accorgersi ancora del vento, della pioggia, delle pietre e delle nuvole, dei cani, degli uomini. E l’intento era di vederli tutti in uno stesso orizzonte senza particolari distinzioni, come parti di un paesaggio rintracciabile in qualche luogo della Terra.

Tutto è partito dal territorio attorno al paese di Villa Minozzo, uno dei comuni più spopolati della provincia di Reggio Emilia ma anche uno dei comuni più vasti d’Italia, addirittura il più vasto fino a pochi anni fa, mi aveva detto Graziano che ricordava di averlo imparato a scuola. Qui la poca gente rimasta è sparsa in tante frazioni, e per vedere il paese affollato bisogna aspettare il giorno di mercato. Negli altri giorni non c’è mai tanta gente in giro, neanche d’estate perché i turisti non vengono e al massimo rientrano le famiglie che sono andate via e han tenuto la casa.

Il paese di Villa Minozzo non ha niente di pittoresco, non è il tipico paesino di montagna che sembra subito un presepe. Le case vecchie si mischiano a costruzioni più moderne in modo alquanto casuale, e dal giornalaio le uniche cartoline sono foto in bianco e nero dove c’è sempre una seicento parcheggiata, di volta in volta, in una via del centro, poi davanti alla scuola media, e poi ancora accanto a un edificio appena fatto. Probabilmente era la macchina del fotografo che era andato in giro a fotografare il paese, e fra l’altro questa seicento è l’unica macchina che si vede in queste vecchie cartoline.

Insomma a Villa Minozzo non c’è niente e non si fa niente per attirare i turisti. Inoltre la terra che c’è intorno è stata per lo più abbandonata, e sulle montagne ci sono parecchie frane, come succede sempre quando si abbandona un territorio.
Prima che arrivasse Vittore non andavo tanto in giro. Stavo quasi sempre a lavorare nel mio appartamentino d’affitto, due vani più il bagno, e ogni tanto uscivo per mangiare qualcosa dalla Dina o da Graziano, che ha un agriturismo appena fuori il paese.
Graziano lo conoscevo già da prima, quando faceva l’orologiaio e abitava a Reggio, in una vecchia casa del centro. Poi aveva deciso di tornare al paese d’origine e aprire una piccola azienda agrituristica dove adesso trovano rifugio le persone più stravaganti della zona. Con loro Graziano ha formato anche un gruppo che si chiama Pericolo Giallo, e di tanto in tanto si esibiscono in qualche farsa recitando in ottave ariostesche, com’era nella tradizione dei maggi che si facevano sulle montagne per rievocare le gesta di antichi cavalieri. Loro non raccontano di cavalieri, preferiscono parlare di cose d’attualità, ma uno di loro, Maurino, agli spettacoli si mette sempre il costume d’antico cavaliere e sguaina la spada sproloquiando al ritmo delle ottave e arrabbiandosi col mondo.

Le serate da Graziano a volte erano parecchio movimentate, ma per il resto vivevo nella quiete più assoluta. Anche ad andare in giro con Vittore, a fare i nostri esercizi di osservazione, non s’incontrava quasi mai nessuno. Inoltre in quei giorni che giravo con Vittore venivano sempre dei temporali, come spesso capita dopo il ferragosto, e il tempo era continuamente incerto. Così a camminare sui sentieri uno s’infangava tutto, e anche alle Fonti di Poiano, dove prima si concentravano i pochi villeggianti che c’erano, anche lì non c’era quasi più nessuno, nessuno che si sdraiasse più sui prati o sopra i sassi a prendere il sole.

Le Fonti di Poiano sono state la prima tappa delle nostre esplorazioni attorno a Villa Minozzo. Era appena piovuto e mentre eravamo lì e camminavamo lungo il Secchia, in una bella vallata aperta, nel silenzio della natura è nato il proposito di cercare di definire un paesaggio terrestre, e l’idea che in fondo gli uomini vedono quasi tutti uno stesso paesaggio: la linea dell’orizzonte con sotto la striscia verde e marrone, e sopra l’azzurro del cielo.

Per comporre l’immagine di un paesaggio terrestre bisognava saper combinare questi elementi, distribuirli bene nello spazio.
In questo le vallate dei fiumi hanno un vantaggio immediato. Il corso del fiume indirizza lo sguardo in una prospettiva all’infinito, e tutto sembra subito comporsi in qualcosa da contemplare, perché lo sguardo si focalizza nella fuga prospettica e i pensieri gli vanno dietro, correndo insieme a lui. E così ci si può scordare anche di sé e perdersi nella visione della natura sovrana, fin quasi a scomparire nel paesaggio, fino a diventare «una docile fibra dell’universo», come diceva Ungaretti in una sua poesia sui fiumi.
Se ogni atto di contemplazione implica un annullamento di sé, un abbattimento delle difese dell’io, allora l’invenzione della prospettiva, che impone un punto di vista fermo, fisso, tutto concentrato su un punto di fuga, questa particolare visione può senz’altro favorire quell’immobilità che lievita nell’estasi contemplativa. E se organizzare la visione secondo rigide leggi prospettiche risulta spesso francamente impossibile, quando ci muoviamo nel mondo, se invece camminiamo lungo un fiume, con l’acqua che si perde in un punto imprecisato dell’orizzonte, si può avere davvero l’impressione che tutto converga nel punto dove il fiume prosegue la sua corsa, e i volumi dei colli, che lentamente digradano verso il corso d’acqua, disegnano la scansione geometrica di questa profondità.

Quei giorni che andavamo in giro per le vallate attorno a Villa Minozzo, eravamo costantemente attratti dalle frane. Ce n’era una anche sul greto del Secchia vicino alle Fonti di Poiano, quasi completamente nascosta dalla vegetazione che cresceva lungo il fiume. Ogni frana era il segno tangibile della “terrestrità” di quel paesaggio, un nuovo ordine della natura che andava considerato, senza far troppo i conti con l’opera dell’uomo.
Di frane ne abbiamo incontrate anche andando in Val d’Asta, una delle vallate più spopolate della zona. Fra l’altro Graziano mi diceva che da tanti anni c’è pure un gruppo politico che lotta per l’autonomia di questa valle, vorrebbero una scissione dal comune di Villa Minozzo. Ma i secessionisti sono tutti troppo vecchi, diceva Graziano, non spaventano nessuno e si prendono sempre quei pochi voti alle elezioni, anzi, i voti diminuiscono sempre perché ogni tanto muore qualcuno.

Questo per dire che le frane sono il segno di una terra abbandonata, ed era in questo abbandono che volevamo concentrare la nostra attenzione. Volevamo cercare un ordine, per quanto possibile, nel disordine fangoso delle frane.
A un certo punto è sorta la domanda su quali fossero i segni “terrestri”. Ce lo siamo chiesti quando siamo tornati alle Fonti di Poiano e da lì abbiamo risalito il Secchia. A guardarsi attorno, se non fosse stato per un ponte sullo sfondo, poteva essere qualsiasi epoca, anche preistorica. E lì abbiamo trovato legni bruciati, sassi, acqua, piante selvatiche. Allora inoltre era estate e il fiume molto basso, così il greto era larghissimo e sui sassi si erano depositati tronchi e arbusti trascinati dall’acqua. Ogni tanto tracce di fuochi, perché era davvero un luogo ideale per bivacchi, uno di quegli spazi che la Terra s’inventa e che sembrano immediatamente abitabili.
Andando avanti abbiamo anche trovato, all’imbocco di un sentiero, un piccolo cippo con la foto a colori di un uomo coi baffi. Non c’era nome, data niente; non c’era scritto niente. C’erano solo dei fiori finti e polverosi appoggiati sopra. L’unica identità poteva essere data dalla foto di quell’uomo coi baffi, che però Vittore non ha voluto fotografare.

Sulla Gazzetta di Reggio del diciotto agosto c’era una notizia che ho voluto annotarmi, perché riguardava il territorio che andavamo esplorando e anche, con una strana coincidenza, il terreno della nostra ricerca. La notizia diceva che due persone, un vecchio contadino e un villeggiante, nella notte di ferragosto avevano visto un Ufo nel cielo di Ramiseto. Il giornale diceva che in montagna capita abbastanza spesso, l’ultima volta era stato un elettricista di Cervarezza, che in primavera aveva visto una navicella sul Ventasso. Per spiegare cosa aveva visto, il contadino di Ramiseto ha detto (parole del giornale): «Mentre viaggiava la coda si sbriciolava lasciando cadere pezzi infuocati nella zona del Castellaccio. Dalla finestra di casa mia, dove mi trovavo, ho avuto l’impressione che fosse caduto qualcosa di veramente strano sul Castellaccio».
Dubito che il contadino si sia proprio espresso così, comunque un paio di giorni dopo siamo voluti partire anche noi alla volta del Castellaccio, perché ci avevano detto che da lì c’era pure un bel panorama e si chiamava così per le rovine di un castello. A Poiano abbiamo chiesto l’indicazione a un contadino, che ci ha detto di seguire una strada sterrata che passava dietro un cimitero. E poi, per sapere se valeva la pena andarci, gli ho chiesto anche se era bello, il Castellaccio. Al che lui mi ha risposto: «A chi piace. A me non dice niente».
Comunque la strada non l’abbiamo neanche trovata. All’unico cimitero che abbiamo visto c’era una carraia che poi s’interrompeva. E così scoraggiati, e non troppo curiosi, siamo tornati indietro rinunciando all’Ufo.

C’era capitato altre volte di non riuscire a raggiungere dei luoghi seguendo le indicazioni di qualcuno del posto. Non abbiamo trovato neanche la cava di ofiolite che ci aveva indicato Federico, un geologo amico di Graziano, un ragazzone grande e grosso che nel Pericolo Giallo si veste da chierichetto. Una sera ci aveva detto che dovevamo assolutamente andare alla cava perché l’ofiolite era una strana roccia porosa, grigiastra, e là sembrava di stare sulla Luna, su una luna grigia. Ma, non so come, neanche lì siamo riusciti ad arrivare.
Forse perché una mappa non è mai un territorio, come recita una celebre frase di Gregory Bateson, e noi non appartenevamo a quel territorio come Federico o Graziano, o il contadino di Poiano. Potevamo solo andare avanti e indietro col piacere di esplorare, perdersi, ogni tanto fermarsi attratti da qualcosa. E così un po’ alla volta ci costruivamo anche una mappa mentale fatta di immagini, persone, nomi di luoghi, pure di quelli mai visti come la cava di ofiolite o il Castellaccio che comunque, in virtù del loro nome, s’imprimevano nella memoria quasi come un’esperienza vissuta, un’immagine già vista.
Si sa che noi riusciamo a vedere soprattutto grazie alle parole, al linguaggio. Nominiamo le cose, per vederle. Ma la natura non ha bisogno di nomi, ha scritto qualcuno, le rocce non hanno bisogno della mia memoria. E poi una mappa, diceva Bateson, non è mai un territorio.

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