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7 Giugno 2011 | Archivio / Protagonisti

Pellegrino Artusi e la Germania

Laura Melara-Dürbeck ci parla dei festeggiamenti artusiani a Francoforte

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

7 giugno 2011

Cari ascoltatori, dedichiamo la nostra puntata di oggi a Pellegrino Artusi, a cento anni esatti dalla sua morte. A raccontarci vita e opere del padre della gastronomia italiana è Laura Melara-Dürbeck, che vive a Francoforte e ha organizzato nella città tedesca, il 17 marzo scorso, una serata artusiana, in collaborazione con lIstituto Italiano di Cultura, l’Accademia Italiana della Cucina – delegazione di Francoforte, e l’agenzia Porta un Libro a Cena.

Al ritratto artusiano, incentrato sui rapporti del nostro gastronomo con la cultura culinaria tedesca, seguirà un’intervista alla stessa Laura Melara-Dürbeck, che ci racconterà come a Francoforte è stato celebrato il centenario dell’Artusi in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.  

Pellegrino Artusi e la Germania 

Non è un caso che i genitori di Artusi avessero dato all’unico figlio maschio il nome di „Pellegrino“: un presagio, forse, per quelli che sarebbero stati i suoi futuri spostamenti che lo avrebbero condotto a conoscere tante regioni e città dell’Italia (principalmente di quella centro-settentrionale). All’epoca in cui visse Pellegrino Artusi, non erano certo in molti quelli ad aver avuto la possibilità di viaggiare in Piemonte, Lombardia, Venezia-Giulia, Trentino, Veneto, Marche, Lazio, Campania e Toscana (senza dimenticare ovviamente la regione di provenienza, l’Emilia-Romagna). Il processo di conoscenza avveniva per lui anche attraverso il palato e la scoperta di piatti nuovi, d’ingredienti sconosciuti, di antichi segreti di cucina: fu il pellegrino che trovava ristoro nelle trattorie regionali e nelle cucine delle case di amici. Queste nuove esperienze olfattive le avrebbe poi fissate sulla carta negli anni della sua maturità. Distinto signore settantenne, scapolone incallito, deluso per la scarsissima risonanza riscossa da alcune sue pubblicazioni frutto di precedenti passatempi intellettuali, decise di ritirarsi nel suo appartamento fiorentino di Piazza Massimo d’Azeglio in compagnia dei fedelissimi amici a quattro zampe, i gatti Sibillone e Biancani (ai quali per altro in modo alquanto bizzarro dedicherà la prima edizione del suo trattato di culinaria) e dei collaboratori familiari, la toscana Marietta Sabatini, preziosa governante e il cuoco romagnolo, Francesco Ruffilli. Assieme a loro cercò di ricrearsi quella serenità familiare di cui fu privato a trent’anni a seguito della brutale aggressione alla sua famiglia da parte del temutissimo brigante romagnolo, il Passatore. Tutti i familiari ne restarono sconvolti, una sorella perderà persino il senno. Pellegrino Artusi decise di abbandonare Forlimpopoli e la Romagna per sistemarsi in Toscana, a Firenze, nel tentativo di rifarsi una vita e dimenticare la violenza subita.  La felicità domestica verso cui anelava si sarebbe realizzata soprattutto in cucina, fra fornelli, pentole, freschi ingredienti e segrete alchimie alimentari, in cui le pietanze avrebbero iniziato a esprimersi in una nuova lingua, quella italiana che i molti ancora non conoscevano, ma proprio grazie a lui avrebbero iniziato ad amare, filtrata, come un brodetto, da tutti gli eccessi di parole straniere, di gallicismi e di voci dialettali.

 Che la sua casa fiorentina si affacciasse su Piazza Massimo d’Azeglio rappresentò un secondo segno del destino e Pellegrino Artusi non restò insensibile all’appello dello statista piemontese, “Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”. Decise di offrire il suo contributo alla causa nazionale e con grande zelo patriottico cercò di dare agli italiani attraverso il suo trattato di cucinaria una patria gastronomica e linguistica: “Dopo l’unità della Patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti”. Con un lavoro pionieristico iniziò a raccogliere ricette e i segreti di cucina tramandati oralmente. Li codificò, li sperimentò, li cambiò, li gustò impartendo istruzioni ai suoi domestici riguardanti la loro preparazione: nacque così quella raccolta di piatti che continua a costituire tutt’oggi la trave portante della cucina italiana. Un lavoro simile per alcuni aspetti a quello che decenni prima in area tedesca svolsero i fratelli Grimm con la loro raccolta di fiabe popolari. Artusi però non si limitò solo a una mera raccolta di  ricette o di fiabe per fornelli: il valore aggiunto è da individuare nella sua capacità di fare dialogare nuovamente, dopo secoli di silenzio, le cucine e le tradizioni gastronomiche delle regioni d’Italia (almeno in parte), nel rispetto delle proprie diversità, in una lingua nuova che potesse essere compresa (a medio e lungo termine gradiremmo aggiungere) in tutta la penisola, dichiarando guerra al predominio del francese in ambito gastronomico. Come un Principe Azzurro, Artusi posò sulla guancia della secolare addormentata cucina italiana il bacio del risveglio. Con La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, la cucina del nuovo Regno d’Italia, si scrollò da dosso i secoli di sudditanza dai parenti d’oltralpe: “per decoro di noi stessi e della patria nostra non imitiamo mai ciecamente le altre nazioni per solo spirito di stranieromania”. Con lui iniziò quello che potremmo definire il risorgimento gastronomico italiano.

 Artusi non era comunque xenofobo. Una volta ripulita la lingua gastronomica egli non disdegnò di offrire testimonianze di altre cucine europee presenti sul territorio del Regno. Ciò ovviamente doveva avvenire attraverso il neonato codice linguistico. Premesso che per Artusi tutto ciò che allora giungeva dall’attuale Austria, Germania o Ungheria veniva genericamente definito tedesco, non ci si sorprende di scoprire come le ricette dell’area austro-germanica oltre ad essere, dopo quelle francesi, quelle maggiormente rappresentate, siano anche in costante aumento nell’arco del cosiddetto ventennio artusiano, ossia di quel periodo che va dalla pubblicazione della prima edizione del ricettario nel 1891 alla quindicesima nel 1911. I motivi non dovrebbero meravigliare: l’Alto-Adige, il Trentino, parte del Friuli orientale, Gorizia e Trieste, pur essendo ancora territori dell’Impero Austro-Ungarico, erano geograficamente e gastronomicamente parlando molto più vicini ad Artusi che non altre regioni del sud d’Italia (completamente assenti nel ricettario). La tradizione della cucina mitteleuropea era inoltre conosciuta attraverso il Veneto e la Lombardia, ex territori dell’Impero Austro-Ungarico. Artusi da giovane aveva fra l’altro trascorso un periodo a Trieste. Durante tale soggiorno pare fosse stato così affascinato dai caffè e dalle pasticcerie cittadine tanto da affermare che “tutti convengono che i dolci in Germania si sanno fare squisiti”.  Questi dolci ricordi troveranno testimonianza nel capitolo della Pasticceria in cui ben undici ricette sono dedicate alle „tedescherie“ e, come tali, sicuramente riconducibili alla tradizione alimentare mitteleuropea. Nella ricetta del Dolce tedesco (Ric. 587) Artusi dimostra di essere persino sensibile alle novità in ambito gastronomico che arrivano dall’altra parte delle Alpi. Segnala, infatti, il diffuso utilizzo in quei paesi di lieviti chimici per ottenere un impasto più soffice e alto: “… ora viene dalla Germania e dall’Inghilterra una polvere bianca, inodora che (…) si mescola nel composto insieme con le chiare montate”.

 Modesta al confronto la segnalazione di piatti salati: Minestra di Krapfen (Ric. 17), Fritto di chifels (Ric. 192), due ricette riguardanti i crauti (Ricette 432 e 433) anche se lo stesso Artusi rileva che “il vero Sauerkraut (…) bisogna lasciar(lo) fare ai Tedeschi”. L’oca (Ricetta 548), piatto insostituibile sulla mensa tedesca nel mese di novembre, viene nominata dal nostro esperto romagnolo che si affretta però anche ad aggiungere che, se arrostita e ripiena di mele, “non è confacente per noi Italiani, che non possiamo troppo scherzare coi cibi grassi e pesanti”. Mentre nel capitolo degli Umidi Artusi si dimostra attento alle novità che in cucina possono semplificare complesse preparazioni e propone, in caso di necessità e in sostituzione del brodo fatto in casa, l’utilizzazione dell’estratto di carne Liebig (Ric. 255).

Artusi, rivelando la sua puntuale attenzione al mondo medico, tradisce, forse inconsapevolmente, la sua simpatia per il mondo tedesco riportando quanto affermato sul valore nutritivo delle uova dal fisiologo francofortese Moritz Schiff, pioniere della neurofisiologia e professore di fisiologia presso l’Istituto di studi superiore di Firenze dal 1863 al 1876, secondo il quale “le uova, dopo la carne, tengono il primo posto fra le sostanze nutritive”.

In conclusione, non si può non ricordare quanto affermato da Piero Camporesi, curatore dell’edizione della Scienza in cucina, pubblicata dalla casa editrice Einaudi, nel 1970: “L’importanza dell’Artusi è notevolissima e bisogna riconoscere che la Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi. I gustemi artusiani, infatti, sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani. Ciò si capisce anche perché non tutti leggono mentre tutti, al contrario, mangiano”.

A simili conclusioni perviene anche la giornalista tedesca Maren Preiß, la quale, in un articolo pubblicato nel 2003 dal settimanale tedesco Die Zeit, rileva che “ Il ricettario di Pellegrino Artusi rappresenta per l’Italia quello che in altri paesi è rappresentato dalla carta costituzionale: esso costituisce il vero atto di nascita della nazione!”

A questo punto, non ci resta altro che libare ne’ lieti calici e intonando il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli augurare: Herzliche Glückwünsche zum Geburtstag, Pellegrino! Buon compleanno Pellegrino!

Intervista a Laura Melara-Dürbeck

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