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8 Ottobre 2015 | Racconti d'autore

Racconto morale d’inverno

Testo di Maurizio Maggiani tratto da “Librarium”, un libro fotografico di Fulvio Magurno (Tavagnacco, Società editrice Arti Grafiche Friulane, 1999)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Quanti momenti della nostra vita sono testimoniati dalla presenza discreta di un libro? “Librarium”, il volume che raccoglie le fotografie di Fulvio Magurno, ne propone alcuni molto particolari, fermati dall’obiettivo in giro per il mondo. Il catalogo è impreziosito da questo breve racconto dello scrittore Maurizio Maggiani, di cui è da poco uscito “Il Romanzo della Nazione”.

Ero un bambino molto piccolo e la facevo nel vaso da notte in cucina. La facevo in cucina perché avevo paura del cesso, che era freddo d’inverno e pieno di calabroni d’estate. La facevo verso le sei, abbastanza lontano dall’ora della cena perché si potesse disperdere l’odore in tempo per apparecchiare. La famiglia dimostrava di apprezzare la mia delicata tempestività e per questo mi trattava con ogni riguardo. Veniva accesa la radio e mi davano in mano un bel po’ di carta.
La radio mi interessava moltissimo. Le sei era l’ora del rosario alla radio vaticana. Il rosario mandava in mormorante estasi mia nonna, che era una vecchiona assai devota, calmava mia madre che a quell’ora cominciava a temere che fosse successo qualcosa a mio padre sul lavoro, spandeva nella cucina un delicato odore di candele di chiesa, e tutto questo mi induceva a una quieta dedizione al mio impegno. Era bello. Ma era bello perché poi c’era la carta. Me ne davano davvero tanta, molta di più di quanto me ne sarebbe servita per pulirmi. Si trattava di un gesto di vera generosità.

La carta allora nella casa era preziosa. Ce n’era poca e serviva per molte cose importanti. A me veniva data la carta di giornale quotidiano, la più adatta alla pulizia dell’ano. Mio padre comprava il giornale la domenica e doveva durare per tutta la settimana e per tutta la famiglia, nella speranza che ne avanzasse anche un po’. Se questo accadeva, i fogli venivano messi da parte, assieme ad ogni altro tipo di carta recuperata qua e là, per mettere tutto quanto a bagno verso ottobre, e fare le palle di carta pressata per accendere la stufa nell’inverno. A me davano un bel foglio grande, ed era un sacrificio. Io cacavo e con quel foglio in mano leggevo. Leggevo e leggevo e intanto spingevo. Io non sapevo leggere perché ero ancora troppo piccolo per andare a scuola. Eppure leggevo lo stesso.

Perché era la cosa che più mi piaceva fare. A parte costruire barche con le zucche bislunghe svuotate della polpa.
Ero così contento di leggere che mi venivano in mente un sacco di cose bellissime che avrebbero dovuto essere scritte nel bel pezzo di carta che mi davano. Me ne venivano in mente di così belle che le dicevo a voce alta, come fanno i vecchi quando leggono anche loro. Disturbavo il rosario della radio vaticana, ma nessuno ci faceva caso. In verità penso che non facessero caso neppure al rosario: era il rumore che importava, la melodia dei rumori che si mischiavano nel cuore di quelle donne che cucivano, lavavano e cuocevano. Cuori affaticati dal silenzio. Io non sapevo ancora cos’era il silenzio; per me ogni cosa parlava e la carta parlava anche meglio della radio, e nessuno mi diceva le cose belle che mi diceva lei quando la leggevo. No, non poteva farlo proprio nessuno.
Poi, quando stavo per finire, facevo con la forbice dei santini non troppo grandi e non troppo piccoli, proprio come quelli che davano in chiesa con il santo davanti e la preghiera di dietro, e dopo averli ben letti, mi pulivo. Visto che ero così parsimonioso avanzava sempre un po’ di foglio da mettere via per le palle da fuoco della stufa.

Ma desideravo in cuor mio di averne molta di più.
Infatti di notte sognavo un mare di carta. No, sognavo la carta che era il mare; e se avevo la febbre, cosa che capitava non di rado per via della mia complessione cagionevole, allora sognavo la carta tempestosa. Se invece stavo bene la carta era morbidamente ondulata fino all’orizzonte e io ci nuotavo dentro come un pascià. E sognando uggiolavo di vero piacere, perché nella vita non sapevo ancora nuotare senza la ciambella con la testa dell’ochetta.

E sono passati gli anni. E quando ne avevo sei mi hanno mandato a scuola e dal primo giorno in poi non ho più avuto alcun diritto circa il vaso da notte in cucina, ma ho dovuto imparare a sopportare il freddo d’inverno e i calabroni d’estate. E in quel posto i fogli di giornale erano già stati tagliati a forma di santini, un po’ più grandi a dire il vero, e io non potevo davvero leggerli per via della scomodità e della solitudine. Senza contare che mi dovevo sforzare giorno e notte di imparare a leggere il libro della scuola.
Tutto questo era molto difficile per me che avevo sei anni, e in cambio cosa mi restava? Niente: eccetto un brutto libro fatto con una brutta carta che nemmeno scrocchiava, e con dentro solo casa, ombrello, imbuto, e altre stupidaggini così da leggere. Di notte ormai sognavo solo che sarei andato a scuola il giorno dopo e che mi sarei strozzato dentro il colletto di celluloide per lo sforzo di leggere poche stupide parole.

Così mi sono intristito e sono triste ancora adesso, che ho in casa un bel bagno grande e luminoso e nella libreria più di mille libri. Però dentro quei libri non ho mai più trovato niente di così bello e interessante come quello che si faceva leggere da me verso le sei di sera più di quarant’anni or sono. Perché così è la vita, che con il trascorrere del tempo in certe cose migliora e in certe altre peggiora.

 

[Un ringraziamento particolare a Rosaria Campioni]

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