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16 Aprile 2015 | Racconti d'autore

Scrittura: esercizi di nostalgia

Testo di Gabriella Baldissera tratto dal suo libro omonimo (Cesena, Il Vicolo Editore, 2014).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Psicoanalista e scrittrice, Gabriella Baldissera ha raccolto in un volumetto alcune delle riflessioni pubblicate sulla rivista “Graphie”. Eccone una, in cui si sofferma su quanto la scrittura, in qualche caso, possa aiutare a ritrovarsi.

I paesi ritrovati. Il luogo in cui ha inizio e si sviluppa la vita, ben simboleggiato dall’uovo di Brancusi, è un ambiente raccolto, caldo, che nutre e protegge, fino al momento in cui l’essere vivente si separa e inizia il proprio autonomo cammino.
Il ventre materno trasmette al feto suoni, profumi, sensazioni ed emozioni che si fissano nella mente e accompagnano l’essere umano per tutta la sua esistenza. Ogni percezione, forte o sommessa, per l’essere che dovrà vedere la luce si fa inizio e meta finale a cui tendere.
E come la vicenda del singolo, anche la storia delle civiltà è successione di origini, crescite, disfatte, defezioni, decadenze e trasformazioni; storia di gestazione, nascita, sviluppo e distruzione. I modi di dire in apparenza banali, raccontano la verità: non è certo casuale se un territorio, un ambiente in cui una cultura si è sviluppata, si definisce “culla”: luogo di origine che si deve lasciare.
Il primo a essere stato cacciato dalla sua terra è stato Adamo, allontanato dal paradiso terrestre perché disobbediente e curioso, e costretto da quel momento, a tollerare infinite pene e a re-inventarsi un modo di esistere.
All’inizio stanno dunque il distacco, l’esodo, la ricerca.
E forse non è tanto il peccato a segnare l’origine dell’avventura umana, quanto il dolore che sorge dalla partenza e che lascia nella mente l’immagine di un paradiso perduto da ricordare, inseguire e ritrovare.

Il cammino di allontanamento da ciò che è consueto, verso il nuovo, può essere stimolato dalla sete di conoscere, di scoprire mondi diversi, ma può essere imposto dalla violenza di chi espelle il proprio simile, di chi sospinge l’altro verso un “altrove” né sognato, né desiderato.
Il focolare, la patria, la famiglia, per questo perpetuo attaccamento alle origini, rappresentano come una madre, il centro dell’universo, luogo sacro da cui partire e a cui sempre tendere.
Le popolazioni nomadi non si distaccano dalle loro tende, i clochard dalle loro borse sbrindellate, i viandanti dalle loro sacche.
Là è contenuto il nucleo del loro mondo, là viene salvata la loro stessa identità o quel che ne resta.
Partenza, viaggio, esilio sono dunque momenti che hanno un significato intimo, profondo, simbolico che va spesso ben al di là del significato storico o geografico.
Sono tappe di un percorso esistenziale che può essere manifesto a tutti o può anche svolgersi silenziosamente, di nascosto, nell’inconscio di ciascuno.
A ogni esodo collettivo corrisponde comunque sempre quello individuale fatto di emozioni taciute, di dolore o di gioia, di sensazioni che, pur se vissute in un gruppo, non possono che appartenere al singolo.

Ancora più drammatiche le scissioni che avvengono nella mente.
Ciascuno può sentirsi ed essere un esiliato da se stesso, dalla propria infanzia, che appare come qualcosa di vagheggiato, perduto e irraggiungibile. La disperazione costringe allora a ritrovarsi, a ritrovare una casa e dei genitori simbolici, pena l’esilio perpetuo della follia.
Se arte può essere follia, esiliati, per Baudelaire, sono i poeti, cioè gli artisti, paragonati all’albatro incompreso e deriso: «[…] Come il principe dei nembi / è il Poeta che, avvezzo alla tempesta, / si ride dell’arciere: ma esiliato / sulla terra, fra scherni, camminare / non può per le sue ali di gigante […]».
Sradicare, strappare, divellere: questo è il linguaggio del tormento dell’abbandono perché è strappo dagli affetti, dalle persone, dalle cose. Il luogo dell’esilio, comunque lo si intenda, è anche luogo di crisi esistenziale e di riflessione. L’uomo, separato dalle proprie certezze, nella miseria materiale o spirituale, è costretto a riflettere, a porsi delle domande sul senso e sullo scopo della propria esistenza.
Egli vuole trovare la motivazione della propria sofferenza, come una ricerca di senso in cui si veda anche l’origine e la fine di una vicenda. L’esule è incerto sul proprio avvenire e soltanto quando egli riesce a sviluppare speranze e prospettive future, riesce anche a sopportare e superare la condizione dell’escluso.
L’esiliato cioè chi è uscito fuori, simile a un bimbo venuto fuori dal grembo della madre, non incontra, immediatamente dopo la separazione, l’accoglienza, ma, aiutato dalla memoria, deve poter ritrovare sensazioni antiche, mentre calpesta nuovi terreni, impara altri linguaggi e altre relazioni. «Tu lascerai ogni cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco dello esilio pria saetta»: così scrive Dante nel Paradiso (XVII, 55-56).
Ogni espulsione comporta un viaggio che prevede un attraversamento doloroso di una terra di nessuno, una specie di tempo sospeso tra ciò che si abbandona e ciò che si ricrea. Ogni volta che l’uomo si separa dal proprio ambito, lascia cose e persone, è costretto a inventarsi un ambiente, ad attingere alla fonte della memoria dove, «sapor d’acqua natía» è rimasto «ne’ cuori esuli a conforto».
Nella terra straniera ogni conoscenza può farsi ri-conoscenza, in un gioco di riflessi, di risonanze e di presenze; la vita può trasformarsi in esperienza della distanza. Il dolore del “mai più”, la paura dell’irreversibile e del finito sono le radici della malinconia.

Isabel Allende, costretta a infinite separazioni, nel romanzo Il mio paese inventato, narra la sofferenza del distacco, la ricerca di nuove certezze, la possibilità di stemperare l’affanno e di ritrovare ciò che è perduto.
Nell’angoscia dell’addio, nel dolore dell’assenza, la propria identità può essere recuperata nella mente, nell’immaginario della creatività. Nell’inconscio che si esprime, la nostalgia che impone il ritorno, si trasforma in un atteggiamento positivo, generativo di una realtà altra e forte. Essa rende possibile un nostos immaginario. In un orizzonte più ampio, che si sottrae alla finitezza del tempo reale, lo sguardo sul passato può diventare il medium del ritorno e del ritrovamento.
La memoria apre nuovi varchi, apre nuovi sentieri, ricostruisce un tempo e uno spazio diversi da quelli trascorsi, che diventano realtà. Nell’atto stesso del narrare, il tempo incenerito e il tempo ritrovato si sovrappongono e si confondono.
«La California è la mia casa. Il Cile è la terra della mia nostalgia»: nella affermazione della scrittrice cilena è contenuto il senso stesso della creatività, che permette di inventare, nello spazio dell’inconscio, un tempo altro e diverso, nel quale passato e presente si riconoscono.
Questa ricerca attraverso il narrare porta a una ricostruzione dei luoghi che sono non più geografici, ma luoghi della mente. «La scrittura rappresenta per me» – scrive l’Allende – «un esercizio costante della nostalgia. […] La scrittura, in fin dei conti, rappresenta un tentativo di comprendere se stessi e mettere ordine nella confusione della propria esistenza».

La scrittura è luogo dove la casa, metafora delle proprie radici e delle proprie certezze, può essere sempre pensata e diventare possibile.
Si forma un legame tra mondo perduto e mondo nuovo. Attraverso la memoria, il vuoto rivive e si riempie, le fratture si saldano nel linguaggio del racconto, che diviene spazio vitale nel quale, alle radici seccate, se ne possono sostituire altre, nel quale i paesi reali abbandonati rivivono in altri mille paesi inventati: «Da quando attraversai le Ande ho cominciato inconsapevolmente a inventarmi un paese».
Segnata da molti distacchi da persone e da luoghi, la Allende torna con il ricordo alle proprie radici, a un paese ormai inventato e nebuloso per la vasta distanza, per i traumi della violenza, per la diaspora della famiglia. Dopo un lungo tempo e innumerevoli partenze, al Cile di Isabel, immaginato e sognato, custodito come paesaggio interiore e abitato dagli spiriti dei defunti, si sovrappone un luogo finalmente reale: la riscoperta di una parte silenziosa di se stessa dentro l’esperienza delle parole. Un luogo della mente diventa la tangibile terra delle origini, la morsa dell’angoscia si stempera nella dolcezza del rievocare e dà un senso e un valore alla nostalgia.
«Il mio cuore non è diviso, anzi si è ingrandito. […] Il mestiere della scrittura mi ha definita: parola dopo parola ho creato la persona che sono e il paese inventato in cui vivo».
Il mondo polimorfo, ricco e caleidoscopico che l’arte consente di ricreare, contiene il dolore della assenza e la fatica della ricostruzione, che insieme sono la possibilità del ritrovamento.

[testo tratto dalla rivista “Graphie”, X, 2009, 4]

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