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24 Novembre 2017 | Racconti d'autore

Senza che tu sia mia

Testo di Massimo Recalcati tratto dal libro “Lasciatele vivere. Voci contro la violenza sulle donne” (a cura di Valeria Babini, Bologna, Pendragon, 2017)

A cura di Vittorio Ferorelli, collaborazione di Alessia Del Bianco

Sabato 25 novembre è la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne“: vi proponiamo una parte del contributo offerto dallo psiconalista Massimo Recalcati ai seminari dedicati al tema, negli anni scorsi, dall’Università di Bologna, ricavandolo dal libro che ne pubblica gli esiti.
Indagando le relazioni che si creano tra corpo, parola e violenza, Recalcati riconosce nella femminilità un simbolo potente dell’
èteros, termine greco che sta per l'”altro” da noi: colei che desidera al di là del nostro controllo, colei che desideriamo senza poterne disporre.

[…]

La violenza dell’ideologia patriarcale

Indubbiamente l’ideologia patriarcale ha tentato di esorcizzare l’èteros della femminilità in svariati modi. A mio parere in tre modi fondamentali. Il primo: pensando che il diventare madre fosse il destino ineludibile della femminilità. Pensare cioè che la maternità, nella sua versione più sacrificale, fosse il modo per emendare la dimensione anarchica, irregolare, “folle” della femminilità. Nella cultura patriarcale diventare madre significava per una donna morire come donna, rinunciare a essere donna, rinunciare alla libertà della femminilità. Dunque l’aberrazione dell’interpretazione patriarcale della maternità è pensare che la madre debba essere la prigione della donna. È la vocazione sacrificale che ispira il ritratto della madre del patriarcato. La formula “madre cancella donna” esemplifica efficacemente la rimozione della femminilità attraverso la gabbia della maternità. Diventare madre è sacrificarsi come donna, è rinunciare alla propria femminilità per dedicarsi esclusivamente alla cura del figlio e della famiglia.

Secondo modo: riducendo la donna a oggetto. Su questo esiste ovviamente una letteratura infinita. Ma quando dico “ridurre la donna a oggetto” cosa intendo precisamente? Pensiamo al Mastro-don Gesualdo di Verga e al rapporto che egli intrattiene con la sua “roba”. Ecco: quando diciamo ridurre la donna a oggetto dovremmo dire ridurre la donna a roba: è “roba mia!”. È una operazione di controllo e di assoggettamento che vorrebbe privare la donna della sua libertà extra-fallica mettendola in cassaforte. Si tratta di annullare, spegnere, cancellare quel margine insopprimibile di libertà che istituisce l’èteros della donna. È l’avarizia che anima la spinta all’appropriazione maschile del corpo femminile perché quel corpo sia riportato alla sua Legge, ovvero alla Legge del fallo. È un modo per provare a risolvere l’angoscia maschile di fronte al senza fondo del godimento femminile.
Sartre affermava ne L’essere e il nulla che l’amore è una forma di possesso, specificando però che in amore non si possiede il corpo dell’amato o dell’amata come si possiede un oggetto. Quando amo io voglio possedere non il semplice corpo dell’amata ma la sua libertà. Ma come si può possedere una libertà? Si può possedere una libertà senza renderla prigioniera? Può esistere qualcosa come una libertà prigioniera? Questo è il mistero autentico dell’amore. Quando c’è amore – quando c’è la gioia dell’amore – l’amante sceglie sempre liberamente l’amato. L’amore implica sempre la libertà anche se ogni amore è attraversato da una spinta appropriativa. Così Proust nella Recherche si trova di fronte a una profonda insoddisfazione quando ottiene la fedeltà di Albertine solo attraverso la sua reclusione. Cosa se ne fa di una fedeltà ottenuta così? Non è questo genere di fedeltà che desidera l’amore. Ai suoi occhi Albertine diventa un oggetto di proprietà e, in quanto tale, fatalmente declassato, privo di valore. L’amante non vuole avere il corpo dell’amato come oggetto ma come espressione della sua libertà. È la violenza patriarcale che ha comportato la riduzione della donna a roba, a oggetto, volendo cancellare il suo quoziente irriducibile di libertà.

Terzo modo: se è vero che la donna è un nome dell’èteros, cioè della libertà, della trascendenza del desiderio, dell’impossibile da governare, di fronte a questo èteros che s’incarna in modi che gli uomini non sanno leggere e per i quali risultano “analfabeti”, la lingua della donna è per l’uomo una lingua straniera di cui non esiste però dizionario (ricordo che da bambino quando vedevo mia madre uscire di casa, bella com’era con i suoi enormi chignon, mi sembrava un ufo, un extraterrestre…). Si tratterebbe allora di rinunciare alla violenza per apprendere la bellezza di questa lingua. La bellezza dell’amore sarebbe proprio l’apertura al mistero della femminilità. Diversamente la violenza sarebbe la manifestazione di una forma radicale di analfabetismo.
Questo analfabetismo si regge su di un postulato maschilista che recita così: “sono tutte puttane!”. È un postulato che istituisce la legittimità dell’esercizio della violenza. È questo un fantasma che abita culturalmente nella mente degli uomini, anche nei più coltivati. Ma cosa vuol dire culturalmente? Vuol dire che nella misura in cui l’uomo non riesce a decifrare la lingua straniera della donna, nella misura in cui il rapporto con l’infinito del godimento e della libertà femminile lo spiazza, lo sconcerta sino all’angoscia turbando la propria solidità fallica, allora per difendersi da questo perturbamento conia la formula fantasmatica “sono tutte puttane!”. In questo modo prova a degradare l’infinito della libertà femminile, l’eccedenza del godimento extra-fallico che appare ingovernabile e angosciante, a una voracità sessuale illimitata. Quella supposta nelle puttane, appunto.

[…]

Sei mia!

La conta degli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono a ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando in tutti i modi a cancellarla. È un disegno fallimentare che costringe a una iterazione disperata. Invece di scegliere la via dell’amore per la differenza prende quella dell’odio rabbioso e sterilmente rivendicativo (“sei mia!”).
L’esercizio della violenza è sempre una alternativa secca a quella della parola. Mentre la legge della parola prova a rendere giustizia della libertà dell’altro, la violenza la vorrebbe sopprimere, calpestare, ridurre al silenzio. È innanzitutto una battaglia culturale che dovremmo cominciare, magari ripensando seriamente a quello che usiamo chiamare “educazione sessuale”. Questa educazione non è forse innanzitutto – essenzialmente – una educazione alla legge della parola? Non dovremmo imparare dai poeti più che dalle slide che classificano scientificamente i sessi mostrando il funzionamento oggettivo dei loro organi? È davvero tutta lì quella che chiamiamo differenza sessuale? È davvero quello il mistero dell’amore?

Una nuova educazione sessuale?

La battaglia culturale contro la violenza di genere non può non passare da un ripensamento dell’educazione sessuale come educazione della sessualità al mistero dell’amore. Non dovremmo inseguire l’ideale di una sessualità normale – che la psicoanalisi ha dichiarato non esistere – ma valorizzare l’incontro tra i sessi – a prescindere dalla loro anatomia – come un incontro tra differenze. Dovremmo pensare che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità. Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso. La domanda d’amore che muove l’uno verso l’altro non deve mai essere scambiata con il sopruso che annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa dell’amore, quando c’è? Amare la libertà dell’altro, amare la sua differenza inassimilabile di cui la donna è il simbolo.
Per questo Lacan affermava che si ama, quando si ama, sempre e solo una donna. Per questa ragione amare – dovremmo sempre aggiungere – contempla il rischio della caduta e dell’abbandono. È sempre una esposizione rischiosa all’altro che ci rende tutti più indifesi e più femminili. Ci esponiamo senza riserve alla libertà dell’altro che ha sempre, in ogni momento, il diritto di scegliere se rinnovare o interrompere il patto che ci unisce. Ed è, come sappiamo, di fronte a questo diritto del discorso amoroso che la violenza dei maschi può scagliarsi come una freccia avvelenata contro il corpo delle donne. Colpire, sfregiare, mutilare, straziare per ribadire una proprietà che non esiste.

Per coloro che vivono senza educazione alla legge della parola la libertà della donna non è sopportabile se non è imprigionata. Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità che esse portano con sé. La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente a un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri. È però del tutto evidente che si tratta di una atroce illusione. Nessun uomo sa cosa sia una donna. Ecco allora consumarsi il terribile equivoco: lei si consegna nelle mani dell’uomo per essere una donna, ma si ritrova a essere ridotta a corpo-cosa, corpo-strumento. È una lezione disturbante che l’esperienza clinica può confermare. La violenza porta con sé una seduzione silente che in alcune donne può nutrire l’illusione fatale che avere un padrone possa sollevarle dal difficile compito di abitare la libertà radicale della femminilità.
Ma tutto questo non deve scaricare in nessun modo sulle donne la responsabilità che grava solo su coloro che scelgono la via della violenza al posto di quella della parola. Questa scelta è sempre colpevole. Preferisce il dominio cieco al rischio dell’esposizione, l’affermazione autarchica del proprio Io al suo decentramento, la potenza narcisistica del fallo (sempre un po’ idiota, secondo Lacan) all’incontro con l’alterità di un corpo, come quello femminile, fatto di segreti. Se l’amore è sempre un salto nel vuoto è perché esso implica la rinuncia a rendere l’altro una nostra proprietà, la rinuncia alla violenza come soluzione (impossibile) del problema della libertà.

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Per approfondire: l’8 marzo scorso, dal libro “Lasciatele vivere. Voci contro la violenza sulle donne“, abbiamo tratto anche la voce della scrittrice Dacia Maraini.

[Il titolo originale del testo di Massimo Recalcati è “Il cattivo incontro. Il corpo, la parola e la violenza”]
 

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