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16 Maggio 2013 | Racconti d'autore

Teatro in viaggio. Lungo la rotta dei migranti

Racconto di Pietro Floridia, tratto dal libro omonimo (Bologna, Edizioni Nuova S1, 2011) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura Fulvio Redeghieri

16 maggio 2013

Due mesi in fuoristrada, da Bologna al Senegal, attraversando Marocco, Mauritania e Sahara Occidentale, lungo le piste percorse da chi attraversa l’Africa per venire in Europa. Protagonisti: Pietro Floridia, regista e drammaturgo, e Gabriele Silva, scenografo e pilota factotum.
Floridia, cofondatore e codirettore artistico del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Sàvena, è l’autore del progetto teatrale “La Scena dell’Incontro”, che ogni anno porta sul palco decine di migranti e rifugiati politici.
Il libro da cui è tratto il racconto fa parte della collana “Il Girovago”, che quest’anno ha ricevuto il premio europeo “AMITIE” nell’ambito del Festival Human Rights Nights di Bologna.

Bologna, 21 dicembre 2010

Prima della partenza. Appunti sul progetto

Il Teatro dell’Argine da anni lavora con migranti che arrivano da ogni parte del mondo. Molti arrivano dal Marocco. Molti dall’Africa subsahariana. Senegalesi, ivoriani, camerunensi, nigeriani, congolesi. Molti sono richiedenti asilo politico o rifugiati politici. Alcuni non sono più in Italia. Non hanno ottenuto lo status di rifugiato. Oppure sono stati rimandati indietro.

Dove sono adesso?

Ripercorreremo a ritroso le tappe che hanno fatto per arrivare fino a qua. Toccheremo molte delle città da cui sono partiti. Incontreremo gli amici, i fratelli, le sorelle rimaste. Forse ritroveremo anche qualcuno di loro, di quelli costretti a tornare.

E così partiamo.

Io (regista pieno di libri) e il Gabo (scenografo dalle mani geniali)
in macchina (il “Lando”, una Land Rover scassata)
da San Lazzaro (dove ha casa il Teatro dell’Argine)
verso Diol Kadd (villaggio del Senegal dove ha casa Mandiaye)
attraverso Marocco, Sahara occidentale, Mauritania,
sulle rotte dei migranti partiti dall’Africa verso l’Italia,
sulle tracce dei respinti o dei tornati.

Non faremo reportages giornalistici
non faremo turismo solidale
non faremo i cooperanti
e nemmeno faremo gli avventurieri da rally.
Non siamo capaci di fare nessuna di queste cose.
Faremo quello che sappiamo fare.

Faremo teatro.

Con le decine di persone che incontreremo lungo il cammino, nei centri sociali di Tangeri e di Casablanca, insieme a gruppi che si occupano di bambini di strada o di migranti subsahariani a Rabat, con compagnie professionali a Marrakesh.
Con gli amici, i fratelli, le sorelle dei nostri attori marocchini partiti da Foum Zguid. Infine, varcato il Sahara occidentale, varcata la Mauritania, con i giovani attori della compagnia di Diol Kadd.
Costruiremo insieme storie, dialoghi, scene, testimonianze.
Testimonianze di partenze. Di ritorni. Di non ritorni.
Testimonianze di buchi lasciati da chi è partito.
Testimonianze di sogni. Sogni ingannatori, sogni ingannati,
sogni perfetti in quanto sogni, sogni lucidati ogni mattina,
sogni che costano la vita, sogni che valgono la vita.

Questo tenteremo di raccontare e di far raccontare.

Il progetto si chiama “Del diluvio e di altre sopravvivenze”.
Abbraccia quattro continenti. Sudamerica, Africa, Europa e Medio Oriente.
Si chiama così perché – così ci è parso dai nostri passati viaggi – sembra che il modello occidentale stia sommergendo tutto.

Ovunque piove occidente. Ovunque scompaiono mondi.
Come non mai, in questi anni, stanno scomparendo le differenze.
(Il mio primo viaggio in Palestina risale a dieci anni fa.
L’ultimo a due. Poco tempo, eppure i cambiamenti sono stati enormi).

Acqua dall’alto, acqua dal basso, acqua che entra ovunque,
fuori, nelle vie delle città, nelle vetrine, nelle tv, nelle mode, nelle merci.
E dentro, nelle famiglie, dentro, nelle teste, come una infiltrazione
che goccia dopo goccia, riempie la testa, la allaga, fino a che tutto
il dentro e il fuori, alla fine si somigliano. Ovunque la stessa roba:
acqua d’occidente.

E il teatro?

Mi piace pensare che il teatro possa farsi arca.
A patto che sia in grado di accogliere al suo interno diversità a rischio scomparsa.
(Cosa che accade sempre più raramente. è notorio che nei teatri piova dentro.)

Mi piace pensare la Land Rover come una piccola arca.
Mi piace pensare che si riempirà di storie.
Di voci. Di disegni. Di oggetti. Di compagni di viaggio.
Non solo diversi, ma anzi contrastanti, addirittura inconciliabili gli uni con gli altri.
Come erano le tigri con le gazzelle imbarcate dentro l’arca.
(Avrà avuto un bel da fare Noè per evitare che gli uni sbranassero gli altri.
Per evitare che impazzissero di paura. Che si massacrassero fuggendo).

L’arca non è un luogo dell’armonia.
Oppure un luogo in cui le differenze si appianano.
L’arca è una stalla dove ognuno urla il suo verso distinto.
Dove non può che regnare il conflitto.
Dove fianco a fianco si trovano gli inconciliabili.
Il topo col gatto. La zebra e la iena. La formica e il formichiere.
Indomabili, inassimilabili ad una visione unica
(l’arca è il contrario del branco o del gregge).
Costretti alla vicinanza perché là fuori li inghiottirebbe il diluvio
(quello sì sommergendo tutto, tutto rendendo uguale).

Il teatro (vedi la sua stagione più alta, quella della tragedia greca) è il luogo, la forma di organizzazione del pensiero che può accogliere al suo interno ospiti inconciliabili, conflitti tra visioni irriducibili.
Nessuna teoria unificante. Nessun demiurgo che sintetizza e concilia.
I conti non devono tornare.
Deve uscire dall’arca l’agnello sopravvissuto al leone, non che ama il leone.
E ambedue sopravvissuti al diluvio.
Rimanendo agnello. Rimanendo leone.
Non mutandosi in pesci
soltanto perché
c’è acqua dappertutto.

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Tangeri, 28 dicembre 2010

Il Caffè Hafa

Alcuni dei ragazzi marocchini che frequento in Italia mi hanno nominato il caffè Hafa. Uno in particolare ci ha passato dei mesi.
È un caffè di Tangeri. Separato dalla Spagna da un braccio di mare di appena quattordici chilometri. Chi vuole partire ma non ha i soldi per passare “dall’altro lato” come dicono loro, spesso ci trascorre dei mesi. A volte degli anni.
Ci vado. Il tempo scorre diverso su questa terrazza.
Aria piena di hashish, dello zucchero del tè alla menta, della malinconia di canzoni suonate alla radio. E contro tutta quella luce, le curve della Spagna.
Mi fa pensare a uno di quei luoghi in cui Ulisse affondava, nella dolcezza, senza ripartire mai.
Quegli orizzonti che ipnotizzano, come se uno guardasse dall’alto della fortezza Bastiani.

Se mi chiedessero dove è il caffè Hafa non saprei cosa rispondere.
Non sulla terra, non sul mare, e nemmeno in cielo.
Forse direi è nel mezzo.
Le sue terrazze sono così a strapiombo sul mare che non vedi la spiaggia su cui è poggiato.

Vedi solo il mare, e il cielo, più o meno alla stessa distanza e soprattutto vedi la Spagna sdraiata, piena di luccichii, sembra si sia fatta bella per te,
così mi dice uno dei ragazzi del caffè Hafa
che la guarda con gli occhi socchiusi,
che senza suono ogni tanto le parla.

I ragazzi del caffè Hafa vengono qui per fare il pieno di Spagna.
Ci si riempiono gli occhi. Mentre fumano hashish.
Mentre bevono tè alla menta.
Mentre ascoltano alla radiolina una chitarra che canta in spagnolo.

Se mi chiedessero cosa è il caffè Hafa, forse direi
è l’attesa fattasi luogo.
Se l’attesa è sospensione, questo è il luogo dell’attesa.
Come un bambino in punta di piedi, il caffè Hafa si tende verso l’alto
per vedere oltre il mare, per trasformare lo sguardo
in carezza, in presa. Per toccarla la Spagna
è proteso in avanti, sul vuoto, un altro centimetro e cade.

Attendono i ragazzi del caffè Hafa
e gli occhi sono pieni di Spagna
e i lunghi sospiri pieni di non
non terra non mare non cielo,
sospesi
attendono,
come bloccati nel mezzo di un salto
nel mezzo di uno slancio
sospesi
aggrappati soltanto a uno sguardo
aggrappati soltanto a uno sguardo
un battito di ciglia e cadranno
un battito di ali e spiccheranno il volo.

 

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