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19 Giugno 2006 | Andare per...

N°17-ANDAR PER MUSEI

Vittorio Ferorelli, dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, presenta il Museo “Ettore Guatelli” di Ozzano Taro (Parma)

19 giugno 2006

Immaginate una grande casa di campagna seduta sulla collina, poco lontano dal fiume. Una di quelle case di una volta, abitate per generazioni da famiglie di contadini abituate a non buttare via niente, perché tutto ritorna utile quando si ha poco. Immaginate che uno dei suoi abitanti, colto da una lucida passione collezionistica, raccolga nel corso del tempo 60.000 oggetti della vita quotidiana, facendo di questa casa – di ogni ripiano, di ogni rientranza, di ogni parete libera – un museo senza vetrine, senza orari e senza biglietto. Un luogo in cui il tempo diventa qualcosa da toccare e le cose di ogni giorno, liberate dalla schiavitù dell’uso, hanno finalmente l’occasione di parlare, e raccontare le loro storie.

La casa che avete immaginato esiste davvero. Si trova nel podere Bella Foglia, a Ozzano Taro, sulle colline del Parmense. È il museo di Ettore Guatelli. Nato a Collecchio nel 1921, Ettore deve fare i conti fin da piccolo con la malattia, che lo segna con il marchio dei diversi. Troppe convalescenze per diventare un buon contadino, troppe assenze da scuola per avere una buona pagella. Ma sarà proprio la malattia, in qualche modo, a risarcirlo. Negli anni Quaranta, in ospedale, conosce il poeta Attilio Bertolucci. E i due fanno un patto: Guatelli scrive a macchina i testi di Bertolucci; il poeta, in cambio, lo prepara all’esame di licenza magistrale. Così, nel 1945, studiando da autodidatta, Ettore consegue il diploma di maestro elementare.

È sempre la malattia a condizionare la sua vita, nel male e nel bene. I lunghi soggiorni in ospedale lo allontanano da casa e ne fanno per molti anni un maestro supplente (oggi si direbbe “un precario”), ma saranno proprio i racconti di vita e di lavoro ascoltati in sanatorio, tra una mattinata a letto e una passeggiata pomeridiana, nelle lunghe conversazioni con personaggi di altre terre, saranno proprio queste storie di uomini e cose a ispirare la missione di Ettore Guatelli. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, divenuto direttore di colonie scolastiche sull’Appennino parmense, diventerà famoso tra i robivecchi, i raccoglitori e gli antiquari come quello che “prende su tutto”. È l’inizio di una passione totalizzante per un mondo che, giorno per giorno, rischia di scomparire: sono gli anni del boom e i contadini e gli artigiani, per salutare il nuovo che avanza, buttano via tutto ciò che sa di antiquato. Ed Ettore è lì, a raccogliere, a ospitare e a sistemare in forma d’arte questi oggetti, prima usati per anni e poi di colpo ripudiati, per fare posto alla modernità. Così, quando negli anni Settanta gli studiosi riscoprono questo mondo rimosso e rottamato, e lo definiscono “cultura materiale”, Guatelli ha già fatto della sua casa un museo vivente.

Oggi, che Ettore Guatelli non c’è più, ci rimane la sua silenziosa famiglia di liberi oggetti salvati dall’oblio: secchi, scodelle, chiodi, vanghe, falcetti, scarpe, scatole di latta, orologi, giocattoli, grattugie,… Una Fondazione appositamente creata si occupa di gestire il museo di Ozzano Taro, mantenendo viva la voce del suo fondatore. Ci rimangono anche i suoi racconti: quello che qui in parte riportiamo risale al luglio del 1978, quando Guatelli organizzava nel Castello di Bardi una mostra intitolata: “L’arte di arrangiarsi. Ammaestratori d’animali per spettacoli: testimonianze degli emigranti dell’Appennino Parmense”. Ringraziamo ancora una volta Ettore per avercelo affidato.

 

«[…] Nella lunghissima e mai terminata ricerca di oggetti che documentano le condizioni e l’ingegno della gente del nostro Appennino, era capitato di avere dal signor Corti Giuseppe di Cavignaga quasi tutta l’attrezzatura da lui utilizzata come ammaestratore di scimmie fino al 1939, anno in cui a causa della guerra cessa quasi per tutti l’attività, anche per quelli che, pur giovani, come lui, avrebbero potuto continuarla. Disporre questi oggetti, didascalizzati magari anche in maniera sbagliata, purché divertente, fa sorridere, da spettatori, le persone in visita. Ma i Bardigiani (e i Bedoniesi che con Bardi dividono il primato di addetti ai lavori) nipoti e figli dei protagonisti, che conservano le memorie dei loro avi, con quella modestia propria di coloro per cui è naturale ciò che per noi è straordinario, che cosa avrebbero detto?

Nella ricerca di documenti, ricordi, fotografie, memorie e aneddoti, a intuizioni e a fatti si aggiungono comprensione e certezze che tendono a spostare l’accento dalla storiella e dalle notizie sulle scimmie, alle condizioni del tempo e dei luoghi, alla personalità, al carattere degli stessi protagonisti, che si fanno considerare più per la motivazione che li ha spinti ad arrangiarsi, che, si direbbe, al modo, all’estrosità, pur importantissimi, con cui lo facevano. E dovevano farlo. Con godimento, con piacere trascinante e giovanile, da clown, come è il caso di Bruzzi da Bruzzi, di Musile Tanzi da Pellegrino, di Vaccari da Dogara ecc.; o con rassegnata necessità, come Giuseppe Corti, che a ogni volta, prima dell’esibizione in pubblico, doveva vincere la timidezza con un Martini.

Gente che non si dava per vinta, come Bruzzi che, mortagli la scimmietta intelligentissima, e non riuscendogli di ammaestrarne un’altra, testarda, a ogni inverno tornava in Spagna, con “il battello a vela che per otto giorni avanzava, per il vento in favore, e per gli altri otto tornava indietro” per quello contrario, e così ci impiegava un mese e andava a suonare la piva fino a quando si è sposato, poi ha continuato a casa, in occasione dei matrimoni, fin tanto che è stato vecchio e ha avuto fiato. E non si è arreso neanche allora, come dice la figlia, che non faceva più niente, come lei adesso, ma fabbricava continuamente strumenti-giocattolo a fiato, che suonava per i bambini o glieli faceva suonare, lasciando in loro un ricordo di gioia di vivere, di gaiezza, che non sempre si associano a quell’età. O come Basini da Boccolo, che già vecchio, per aiutare il figlio in difficoltà, a 70 anni tornò in Inghilterra a far ballare la scimmia da solo, spedendo a casa abbastanza da permettere una vita senza miseria al figlio e ai nipoti. Dovette andarlo a prendere il figlio, perché si era ammalato e morì a casa di un colpo, più che ottantenne, qualche anno dopo. Il nipote c’è ancora, e il pronipote, Antonio, commercia di legna e carbone.

A Cavignaga i Corti son tanti che per distinguerli ancor oggi adoperano soprannomi. Di ammaestratori di animali o suonatori ambulanti ce ne erano tanti, ma quelli di cui siamo in grado di dare qualche notizia sono della stirpe “Zanòn” (da “Giovanni”, in francese “Jean, Janòn”), perché Giuseppe e Camillo sono ancora viventi e parlano volentieri della loro vita, e ci han dato tanto materiale e fotografie. Il loro padre, Bartolomeo, figlio appunto di Giovanni, classe 1878, nato in Francia e morto a Bedonia nel 1960, non si curava di animali ma, come si autodefinisce anche in quella cartolina che lo ritrae a Losanna quale “uomo orchestra” con 7 strumenti che suona da solo, faceva “l’artista di musica” e, dice suo figlio Camillo, sapeva trar soldi dai sassi: lui che suonava tutto a orecchio prestava soldi ai professori di musica. Sapeva lavorare per dodici e più ore filate, quando era il momento, e non si dava mai per vinto, ma sapeva anche godersi la vita e stare poi in baracca per giorni sia all’estero che quando tornava. […].

A Bartolomeo, grazie anche e soprattutto alla gentilezza del figlio Camillo che ci ha generosamente donato tanta documentazione, abbiamo dedicato nella mostra un certo spazio. Lo vediamo nella foto, davanti al suo albergo del Cervo a Losanna con Camillo quattordicenne, prima di lasciare la Svizzera, chiamato dalla prima guerra in Italia, poi, definitivamente artista col suo “taca banda”, sempre distinto e lucido, elegante e pulito, che nemmeno dai grandi alberghi avevano il coraggio di mandarlo via, anzi, spesso eran locali a ingaggiarlo, ma lui preferiva essere libero. Camillo ha fatto per molti anni l’artista di piazza con le scimmie. “Nel 1925 [– racconta –, ndr] avevamo un camioncino Ford col solo chassis su cui abbiamo costruito il vagone, la carovana. Poi vi abbiamo attaccato dietro la roulotte. E si girava dappertutto, specialmente la Francia, la Germania e la Svizzera”.

Aveva persino tentato di chiudersi sotto il tendone, e far pagare il biglietto, spendendo molti soldi per attrezzarsi. Faceva il giro di dimostrazione con le scimmie, ma la gente diffidava: credeva che poi dentro non avrebbe visto niente. Doveva poi aspettare ore prima di raggiungere un certo numero di persone; in più doveva pagare i diritti di autori ed editori e fu un fiasco. Ma smise subito e riprese all’aperto. Ha avuto persino 25 scimmie ammaestrate. E lo faceva lui stesso:

“Era facile [– racconta Camillo –, ndr]. Andavano trattate bene; ci volevano tempo e pazienza, bisognava dar loro soddisfazione, non picchiarle, che altrimenti smettevano anche il già appreso, ma non agivano per affetto. Per tema, più che altro. Conoscevano, sì, ma sono animali: non sono come il cane. Gli dai sempre da mangiare e per forza ti conoscono. Ma non si affezionano. Una mi ha odiato per tanto, perché dopo tanti giorni mi son deciso a strapparle il figlio che si portava dietro e che posava qua e là malgrado fosse morto da giorni e bisognava vedere come era cattiva! Quando son tornato, per la guerra, avevo 15 scimmie. Per un po’ attraverso la Protezione degli animali ho avuto le tessere per il mangiare, poi mi hanno scritto che anche loro a causa della scarsità del cibo erano stati costretti a ucciderne.

Qualcuna l’ho data a Taddei di Masanti, ‘Tencio’, a cui, se vede, si era bucato un occhio a causa di una scheggia di capsula sparata da un fucile piccolo, ma che caricavano come quelli veri, a salve, e che poi ho dovuto sostituire con quelli a tappo anch’io. Ma ad altri, di scimmie non son riuscito a darne, e ho dovuto ucciderle. Si immagina, dopo che per tanti anni mi avevano dato da mangiare? Non si può capire il dispiacere. Ho riprovato dopo la guerra a prenderne tre, a Milano, ma venivano dall’Africa, e non erano acclimate come quelle che nascevano qui. Intanto, nate come erano in libertà, era difficilissimo addestrarle. ‘Ma che vuole costui da noi?’ sembrava che ti dicessero. Poi, per un po’ d’aria appena che prendono, si sono ammalate, e sono morte.

Non ne ho più prese, e così ho rinunciato a tutto. Gli attrezzi? Lasciati lì, i ragazzi ci han giocato e li han dispersi. Come gli strumenti che, prestati per i carnevali, non son più tornati indietro e chissà che fine hanno fatto: si sa come sono i giovani».

 

Il testo citato è tratto dall’articolo “L’arte di arrangiarsi”, di Ettore Guatelli, pubblicato sul n. 2-2004 della rivista “IBC. Informazioni commenti inchieste sui beni culturali” (www.ibc.regione.emilia-romagna.it/rivista.htm).

Per maggiori informazioni sul Museo “Ettore Guatelli”, e per ascoltare alcuni dei suoi racconti dalla sua stessa voce, si veda il sito: www.museoguatelli.it.

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