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21 Giugno 2014 | Paesaggio dell'anima

La terrazza di Bologna

Un viaggio in regione attraverso la musica.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

Leonard Cohen: Darkness.

“Old Ideas”, “Vecchie Idee”, è l’album del 2012 di Leonard Cohen, ultimo lavoro del cantautore canadese oggi ottantenne, che ci ispira il tema di questa puntata, in qualche modo continuazione della precedente. La settimana scorsa parlavamo, se ricordate, della fuga di massa dalle città alla Riviera adriatica nei fine settimana estivi, alla ricerca del refrigerio del mare. Ma ci sono luoghi da dove si guarda l’estate da lontano, come se fosse vista da un cannocchiale. Sono i luoghi di cura, in cui passano i giorni coloro che sono in quel momento intrappolati in un corpo che sfugge al loro controllo. Da un lato l’estate con i suoi fiori, dall’altro i rifiuti, l’impossibilità di annusare la bellezza. Oscilla tra la spazzatura e i fiori la Suzanne di Leonard Cohen “tradotta” dal grandissimo Fabrizio De Andrè.

Fabrizio De Andrè: Suzanne.

 La canzone parla di una giornata del 1964, cinquant’anni fa, trascorsa dal cantautore canadese sulla veranda della casa in riva al fiume San Lorenzo dell’amica ballerina Suzanne Verdal. I pensieri dei due scorrevano sull’acqua sorseggiando the e mangiando arance, e l’immaginazione si scatenava passando in rassegna le cose viste, come una chiesetta di marinai che richiama alla mente Gesù che cammina sulle acque, e tutta la bellezza e il dolore del mondo. Un po’ come Bologna, la cui vista più bella si ha dalla terrazza di San Michele in Bosco, la collina in cui già nel IV secolo dopo Cristo si insediarono dei monaci, e che sarebbe divenuta poi la sede di uno dei più importanti complessi monastici d’Italia e, dal 1896, di uno dei più importanti ospedali. Dal finestrone del grande corridoio monumentale in cui erano collocate le celle dei monaci e poi le stanze dei malati, e oggi gli studi dei medici, si vedono la città e la torre degli Asinelli in primo piano. Se ci si sposta, camminando all’indietro, la torre, che prima appariva piccola e quasi perduta tra le case, per un effetto ottico a cannocchiale s’ingrandisce fino a riempire da sola il vano del finestrone.

 G. B. Pergolesi: Salve Regina. I. Salve Regina, Mater Misericordiae.

Ah, Bologna. I malati sono quasi spinti a guarire, per tornare a calarsi in quella selva di torri, campanili, di mattoni e tetti rossi e tinte ocra e verdi giardini nascosti! Dall’archivio del Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma, un’incantevole interpretazione del capolavoro di Giovanni Battista Pergolesi ci è sembrata la scelta giusta per accompagnarvi in un tour dell’antico convento, costruito tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Seicento su edifici preesistenti, poi chiuso nel 1798 per decreto napoleonico, adibito a caserma e luogo di pena dal 1804, restaurato nel 1841 e infine trasformato in ospedale nel 1896, inaugurato dal re d’Italia Umberto I, dopo che nel 1878 il prof. Francesco Rizzoli lasciò alla Provincia di Bologna le sue cospicue sostanze per realizzarvi l’Istituto Ortopedico. Dove, come conseguenza delle battaglie della prima guerra mondiale, furono prodotti ben 8.500 apparecchi di protesi. Ma lo strazio di cui ci parla il brano dei Joy Division è quello dell’amore: l’amore ci strazierà separatamente.

Joy Division: Love will tear us apart.

Il convento è un’antologia di almeno tre secoli di pittura bolognese: dagli affreschi perduti di Amico Aspertini del 1514, a quelli di Innocenzo da Imola e altri artisti raffaelleschi; e poi Girolamo da Carpi, e Giorgio Vasari, che qui dipinse nel 1539 tre tavole per il refettorio. E ancora Pellegrino Tibaldi, il cui affresco staccato si trova oggi nella Pinacoteca, Ludovico Carracci col suo affresco sopra il camino della foresteria, Alessandro Tiarini, il Guercino, Domenico Maria Canuti, Giovanni Maria Viani. E la bella chiesa rinascimentale nello stile di Biagio Rossetti, gli scaloni e i corridoi monumentali, i tre chiostri che sembrano giardini zen. Tanta bellezza in un luogo che oggi è anche di dolore. Ma non è una malattia, ci ricorda scherzosamente Gianfranco Manfredi in questa sua vecchia canzone.

Gianfranco Manfredi: Non è una malattia.

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