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27 Settembre 2014 | Paesaggio dell'anima

Le trincee del cuore

Un viaggio in regione attraverso la musica

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redighieri.

Colombino Arona – Giovanni Corvetto: La ragazza neutrale.

Cari amici che avete la pazienza di ascoltarci, nella puntata precedente abbiamo fatto un viaggio non nello spazio ma nel tempo, tornando alla Bologna di cento anni fa, alla vigilia della prima guerra mondiale. Come cambiano le abitudini, gli stili di vita, i bisogni dei cittadini, quando una nazione entra in guerra? E’ quello che ci siamo chiesti portando l’esempio del capoluogo emiliano e prendendo spunto da un libro scritto dai ragazzi della scuola media Dozza, “Gente comune impigliata nella storia: i bolognesi nella Grande guerra”. La canzone con cui abbiamo iniziato è del 1914 ed è stata scritta da due torinesi, un compositore e un giornalista de “La Stampa”, autori di canzoni per riviste e operette, tra cui “Tripoli bel suol d’amore”. La “ragazza neutrale” del titolo è l’Italia, che dapprima “flirta” con quasi tutte le potenze europee, per vedere con quali le convenga allearsi e scendere in guerra, e quindi si butta nella mischia. Risultato: 650mila morti. La farsa si ripete nel 1939, quando Mussolini se la intende con la Germania nazista, ma dichiara l’Italia neutrale per attendere l’evoluzione degli eventi. E quando l’anno dopo si convince che il vincitore sarà Hitler, scende in campo pronunciando l’infelice frase: “Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative”. Risultato: 443mila morti tra soldati e popolazione civile.

 Quartetto Refice: Caporetto per Quartetto d’archi.

Di guerra, la Bologna di cent’anni fa non aveva molta voglia. All’entrata in guerra dell’Italia, i bolognesi misero un’armatura di protezione intorno al loro simbolo, la statua del Nettuno, e nel 1916 per paura dei bombardamenti portarono quasi di nascosto in città la Madonna di San Luca, senza la pompa delle processioni precedenti. I giorni tristi del conflitto non spegnevano la voglia di divertirsi: nel 1915 furono inaugurati il cinema sotterraneo con ingresso in piazza Re Enzo e il Teatro Centrale. Si andava a passeggiare nel parco della Montagnola e ai Giardini Margherita. I soldati in licenza per svagarsi avevano a disposizione la Casa del Soldato, una specie di club con padiglioni attrezzati con tavole e sedie, dove si svolgevano concerti e spettacoli. Rimane famoso, all’Arena del Sole, lo spettacolo con la celebre attrice Emma Grammatica, fotografata nel palco degli ufficiali feriti. Anche le fabbriche si adeguarono: le Officine Calzoni si misero a fabbricare proiettili e bombe, le Maccaferri filo spinato e paletti per le trincee, la Casaralta carne in scatola per i soldati. Nelle fabbriche le donne sostituivano gli uomini che erano al fronte, e pare sia iniziata allora l’emancipazione delle donne bolognesi, che vennero assunte anche come bigliettaie e tranviere sui tram, un lavoro, quest’ultimo, tradizionalmente maschile. Adesso ascoltiamo “Di qua, di là del Piave”, una canzone della Grande Guerra eseguita da Ambrogio Sparagna durante il suo concerto “Le trincee del cuore” all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

 Ambrogio Sparagna: Di qua, di là del Piave.

Le trincee del cuore. Bel titolo per uno spettacolo sulla Grande Guerra. Un altro autore che, in occasione del centesimo anniversario, ha dedicato al conflitto un album, anzi due, è Massimo Bubola. Il recente “Il testamento del capitano” è il seguito di “Quel lungo treno” uscito nel 2001. In entrambi i lavori, i canti degli Alpini – che sono patrimonio folk del Triveneto come le corali dei paesi di montagna – e brani propri, disegnano una riflessione intorno alla guerra, al suo dramma, alla vita che cerca di ritagliarsi uno spazio in mezzo a ossari, cimiteri, addii e amori spezzati. Ascoltiamo ora il brano “Il testamento del capitano” e dopo “Era una notte che pioveva”, tratto, quest’ultimo, da “Quel lungo treno”. Ricordiamo che Bubola nel 2010 con il Circolo Sociale del Liscio ha anche prodotto un album di musica romagnola, a conferma dell’interesse da lui sempre manifestato verso la musica popolare. In quell’album riprendeva pezzi famosi come “Romagna mia” e “Ciao mare”.

 Massimo Bubola: Il testamento del capitano.

Alla fine della guerra, le donne erano uscite dal loro isolamento. Avendo sostituito gli uomini per quattro anni, mantenendo le famiglie con il proprio lavoro, si erano guadagnate una certa libertà di movimento: potevano uscire di casa da sole e vestirsi in modo più pratico, adatto ai nuovi lavori. Così, l’abito diventò più leggero, senza ornamenti superflui, le gonne si accorciarono, il busto fu eliminato, le calze divennero leggere e la scollatura si accentuò per lasciare libero il collo. Ma la vera rivoluzione fu il taglio dei capelli “alla garçonne”, come voleva la moda francese che tanto scandalizzò i benpensanti e che aprì le porte ai favolosi Anni Venti. Ma stiamo correndo troppo: la guerra non è ancora finita, comporta una crisi economica perché dalle campagne non si esportano più patate, riso, canapa e frutta. Nel 1915 era scoppiata la crisi del grano, tanto che il Comune aveva deciso che si poteva produrre solo pane di farina contenente crusca, il cosiddetto “pane nero”. La situazione diventò molto difficile dopo la disfatta dell’esercito italiano a Caporetto, quando migliaia di profughi veneti si riversarono a Bologna. Gente senza lavoro e da sfamare. I prezzi salirono alle stelle. Ma come reagì Bologna? Per fortuna aveva un grande sindaco, ma di questo parleremo la prossima volta.   

Massimo Bubola: Era una notte che pioveva.

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