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4 Agosto 2015 | Archivio / Protagonisti

Adriana Zarri

La donna che ha scelto di vivere da eremita, senza mai chiudersi in “un guscio di lumaca”

A cura di Vittorio Ferorelli

Care amiche e cari amici di RadioEmiliaRomagna, la protagonista di oggi è una donna che ha scelto di farsi eremita, senza tuttavia uscire dal tempo, ma vivendo a pieno il mondo intorno a lei durante le sue giornate di lavoro e di meditazione.

Adriana Zarri nasce nel 1919 a San Lazzaro di Sàvena, alle porte di Bologna. Suo padre è un mugnaio, sua madre è la figlia di un capomastro. Si impegna fin da giovane nell’Azione Cattolica, di cui diventa dirigente, maturando però, negli anni, una concezione del cristianesimo non allineata alla dottrina imperante nella Chiesa romana.
Fedele al Vangelo e decisa a difendere la sua libertà di coscienza, manifesta la sua convinzione che l’inferno, inteso come dominio della punizione senza rimedio, non esista e non sia coerente con il messaggio cristiano. “Non credo nell’inferno” – sostiene – “perché mi sembra un insulto alla bontà di Dio. Anche la nostra cultura laica non ammette più la giustizia puramente punitiva. E la concepisce solo come capacità di riscatto, di reinserimento. In una pena che dura per sempre come quella dell’inferno questo riscatto non c’è. Penso sia difficile ritenere che gli uomini sono più buoni di Dio. Quindi all’inferno non credo”.
Nel 1981, quando le italiane e gli italiani sono chiamati a scegliere se mantenere o meno la legge che permette di interrompere volontariamente una gravidanza, si dichiara a favore del mantenimento della legge, a dispetto del parere ufficiale del Vaticano. “Credo che noi abbiamo un concetto molto intellettualistico della fede.” – dirà – “La fede non è necessariamente credere nell’esistenza di Dio, nella divinità di Cristo, nella resurrezione, nei cosiddetti contenuti di fede. La fede è soprattutto un atteggiamento di ascolto, di disponibilità”.

Qualche anno prima, dopo aver toccato diverse città italiane, tra cui Roma, Adriana Zarri aveva fatto una scelta di vita alternativa, scegliendo l’eremitaggio per continuare la sua riflessione teologica. Vivrà in solitudine, adottando come rifugio, di volta in volta, alcune piccole località della provincia di Torino. Ma non per questo smette la sua attività giornalistica, che la porta a collaborare con molte testate, e non solo di ambito religioso.
“Un eremo non è un guscio di lumaca”, scrive, distinguendo tra l’isolamento, la misantropia, la chiusura, e invece la solitudine, che non è tagliarsi fuori ma vivere dentro, non è fuga ma incontro con sé stessi, con gli altri che non sono materialmente con te, con la natura. Con Dio.
Vive così anche i suoi ultimi anni, in una cascina di campagna che richiede lavori quotidiani per rimediare alla mancanza di elettricità e di riscaldamento, ma regala la gioia imprevedibile dei fiori selvatici. Senza mai perdere il suo spirito controcorrente. A un amico che auspica il giorno in cui, alla loggia di San Pietro, si affaccerà un papa con una donna al fianco, dicendo: “questa è mia moglie”, risponde rilanciando: “E quando si affaccerà un papa donna con il consorte al seguito, annunciando: ‘questo è mio marito’?”.
Anche le parole che scrive preparandosi a lasciare il mondo dicono tutta la sua fede nella vita:

Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e, sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.

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