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22 Luglio 2008 | Archivio / Protagonisti

L’enigma degli Ittiti americani

Gabriele Baraldi, archeologo brasiliano di origini modenesi, crede che un monolito del Brasile preistorico rechi iscrizioni nella lingua di Atlantide.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Mascia Foschi

22 luglio 2008

Si può vivere senza utopia, senza illusione? La realtà può essere diversa da ciò che appare? Ci vuole rigore scientifico, certo, ma anche immaginazione, per fare l’archeologo, un lavoro che sta tra la scienza e, forse, la poesia, soprattutto se si indagano i territori inesplorati della storia, quelli che hanno lasciato poche, labili, effimere tracce. Si definisce un “libero pensatore” e uno “studioso della storia occulta dell’umanità”, Gabriele D’Annunzio Baraldi, il cui lavoro ci viene segnalato dalla sorella Anna.

Con quel nome importante legato al grande poeta italiano, l’”immaginifico” Gabriele, e un cognome diffuso nella Bassa modenese, Baraldi, l’archeologo di cui ci occupiamo, ha vissuto dapprima in Argentina, dov’è emigrato nel 1950, e poi in Brasile, a San Paolo. Ma è nato nel modenese, nel comune di San Prospero, nel 1938, da Guerrino Baraldi, che faceva il capostazione a Bastiglia, altro comune della Bassa, e da Albertina Pellacani, insieme a cinque fratelli.

Gabriele D’Annunzio Baraldi, scomparso nel 2002 a 64 anni, è ricordato come un uomo sempre circondato di libri, carte e statuette precolombiane nel salotto di casa. E’ conosciuto come archeologo atlantologo, con una passione per i territori mitici poco indagati, che gli viene dall’esame attento di uno dei misteri del Brasile preistorico: la “pedra do Ingá“, un monolite lungo 24 metri per 3 di altezza, che si trova nello Stato del Paraíba, completamente ricoperto di “petroglifi”, la cui datazione ipotetica li colloca tra il 6000 e il 1000 a.C.

La tesi di Gabriele Baraldi, espressa nel libro “Os Hititas Americanos” (São Paulo, 1997), è che i geroglifici della pedra do Ingá sarebbero opera degli Ittiti, la popolazione che si insediò in Anatolia, l’attuale Turchia, intorno al 2000 a. C. e che si espanse poi in Mesopotamia arrivando, intorno al 1595 a. C., a conquistare la stessa Babilonia.

Questa convinzione, che apparirebbe azzardata, Gabriele Baraldi la deriva dal confronto tra l’antico idioma Tupi-Guarani, parlato dalle popolazioni indigene brasiliane all’arivo dei portoghesi, e la scrittura geroglifica e proto-ittita. Ebbene, si tratterebbe dello stesso linguaggio. Il Tupi, sostiene Baraldi, è un idioma chiave, primigenio e universale, che può essere usato per tradurre una lunga serie di scritture sconosciute. Ed è lo stesso del proto-ittita, la lingua che si parlava nella scomparsa Atlantide, quasi 50 mila anni fa. Baraldi è convinto che le iscrizioni contenute nei lati A e B del famoso Disco di Phaestos, scoperto a Creta nel 1908, siano simili a quelle del monolito di Ingá, così come queste assomigliano ai geroglifici ittiti. Queste iscrizioni ci parlerebbero di una “guerra di frontiera” tra due sovrani della Mesopotamia, e un’altra di una terribile eruzione vulcanica che ha coperto di cenere una città di pietra sulla costa Atlantica.

Questo passaggio, in effetti, è difficile da capire. Chiediamo spiegazioni all’atlantologo. “Sono arrivato alla conclusione – ha detto Baraldi in un’intervista – che i geroglifici della pedra do Ingá siano stati lavorati tra il 1374 e il 1322 a. C. La civiltà ittita è fiorita nella piana anatolica 2500 anni prima di Cristo, raggiungendo un alto livello mentale, spirituale e tecnico. Nelle sue cronache si è conservata memoria di una catastrofe molto antica; quella dell’arcipelago in mezzo all’Atlantico. Si rifugiarono in varie parti del mondo, come in Mesopotamia. Più tardi, riuscirono con le loro imbarcazioni a sbarcare sulle coste dell’America. E’ curioso che le iscrizioni di Ingá assomiglino a quelle di Barranco de Candia e di Hierro nell’arcipelago delle Canarie”.

Ci risulta più difficile seguire Baraldi quando parla della capacità degli abitanti di Atlantide di dominare l’energia geotermica, cioè il calore del vulcano, realizzando grandi opere di ingegneria per canalizzare le acque. “Atlantide – dice – fu, in realtà, una grande confederazione di popoli che si chiamava Costellazione e che si divideva in Costellazione del Leone, Croce del Sud ecc. Il raggruppamento tribale che oggi conosciamo è una disgregazione delle antiche strutture sociali simboleggiate da costellazioni e figure di animali che si trasformarono in culti totemici”.
A questo punto, si può anche dire – o forse sognare – che quella specie di esperanto preistorico che era, secondo Baraldi, l’idioma proto-ittita, veniva dalle stelle, da civiltà extraterrestri…
Le grandi costruzioni simboliche della Bibbia ebraica, del Gilgamesh sumero, del Popol Vuh dei Maya, del Mahabarata indiano, con la memoria custodita di grandi catastrofi e diluvi, sarebbero la prova della nostra origine dalle grandi civiltà scomparse.

Ma, come è stato detto da autorevoli studiosi, prima di parlare di continenti inghiottiti nel nulla o di UFO, bisognerebbe non dare per scontato che il mito Atlantide abbia un rapporto con la realtà. Potrebbe non essere altro che una favola presa troppo sul serio. Come ha scritto Vidal-Naquet nel suo bellissimo “Atlantide. Breve storia di un mito”, edito da Einaudi, solo Platone nell’antichità ha parlato di Atlantide. E’ lui che ne ha creato il mito, raccontando della ricchissima rivale di Atene, un’isola al di là delle colonne d’Ercole, inabissata per volere degli dei. Potrebbe essere solo un gioco narrativo: contrapporre la superpotenza ostile e cattiva alla purezza ateniese delle origini. E in tanti ci hanno creduto, vedendo Atlantide ovunque: nelle dieci tribù perdute d’Israele, nell’attuale Svezia, nel Caucaso. Da impero del male, Atlantide è stata trasformata – dal poeta Novalis, ad esempio – in paradiso segreto. Ma in fondo, è bello sognare: per questo è stata inventata la fantascienza.

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