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6 Luglio 2010 | Archivio / Protagonisti

Un mago nel paese dei segni

intervista a Pirro Cuniberti di Flavio Niccoli. Tratta da Una parola dopo l’altra. Interviste e conversazioni sulle pagine di “IBC”, Bononia University Press – IBC, 2010.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

6 luglio 2010

La rivista dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (IBC) racconta, da più di trent’anni, un’esperienza unica in Italia. Dopo l’antologia pubblicata nel 2008, un nuovo volume, a cura di Valeria Cicala e Vittorio Ferorelli, raccoglie alcune delle interviste più importanti, testimoniando ancora una volta la ricchezza dei rapporti intessuti ogni giorno dall’Istituto.

Pirro Cuniberti, nato in provincia di Bologna nel 1923, è uno dei maggiori artisti italiani del secondo Novecento. Van Gogh, Sironi, Morandi e Klee sono stati i maestri di riferimento, da cui ha ricavato quella sua linea fantastica e riconoscibile che dà vita a un mondo di segni e sfumature, ricordi e immagini, grumi e frammenti di senso incastonati nel disegno e nella pittura.

Questa intervista è stata pubblicata per la prima volta nel n. 4/2001 di “IBC”.

Un mago nel paese dei segni
intervista a Pirro Cuniberti di Flavio Niccoli

 Alle elementari gli insegnamenti di una maestra attenta al disegno, alla Règia Scuola d’Arte la guida geniale del padre del pittore Ilario Rossi, Ferdinando: l’avventura pittorica di Pirro Cuniberti inizia con l’incitamento a lasciare segni sul foglio bianco, a disegnare proiezioni ortogonali e a esercitarsi sulla teoria delle ombre e della prospettiva, ponendo le basi di una produzione artistica sempre sul filo di un visibile al limite del percepibile, di immagini da decifrare come orizzonti osservati oltre le certezze apparenti.

Incontro Cuniberti per farmi raccontare della sua vita di pittore, delle esperienze e degli incontri artistici e umani che ne hanno fatto un poeta per immagini. La figura massiccia e la gestualità ricordano Jacques Tati e le provocazioni giocose non si fanno attendere: meglio così, non avrò bisogno di fargli troppe domande e il colloquio sarà spontaneo.

 “Tutti i bambini sanno disegnare, se non vengono rovinati: quando nascono sono bravissimi, poi gli si chiede di fare i soliti vasi di fiori invece che suggerirgli di guardarsi intorno. Il risultato è che la curiosità e il gusto per l’osservazione diminuiscono, la voglia di raccontare su un foglio le emozioni per le cose e per gli ambienti passa in fretta.

Per la mia formazione sono stati molto utili gli studi alla scuola d’arte: è lì che ho imparato a collocare i segni sul foglio e ad ambientarli nello spazio, ed è lì che ho cominciato a costruire e far crescere l’interesse per l’aeromodellismo: le fantasie sono un soggetto frequente nel mio lavoro. Nell’aeromodellismo ho potuto applicare le cose imparate a scuola, verificando che gli studi sulle linee geometriche erano importanti, che servivano davvero, al punto che anni dopo ho realizzato un modello che ha vinto un concorso. La gara era a Roma e battei il concorrente favorito all’ultimo lancio, quando ormai non ci speravo.

A disegnare ‘per conto mio’ ho cominciato che ero un ragazzo e anche la passione per il design è arrivata presto: dalle sedie alle case, partendo dalla piazza, mettendo a frutto gli insegnamenti sulla prospettiva. Ho sfruttato la fortuna di avere avuto come insegnante di disegno dal vero l’altro figlio di Ferdinando Rossi, Ruggero: come pittore non era molto noto, ma anche lui, come il padre, era un insegnante straordinario. Quando conosci la tecnica del disegno geometrico, e quella del disegno dal vero, la formazione è finita, è il momento di decidere cosa fare e di vedere cosa sai fare. Sul foglio bianco, sullo spazio del foglio, ho potuto mettere punti, più tardi anche macchioline, per esprimere i luoghi interni dell’angoscia o della gioia.

A vent’anni mi sono iscritto all’Accademia, ma non l’ho finita perché mi hanno chiamato a fare il servizio militare nei granatieri. Poi, nel 1943, sono partito per la guerra e sono arrivato in Germania, dove in modo fortuito e avventuroso mi è capitato di ‘incontrare’ Van Gogh grazie al ritrovamento di una stampa malridotta della Camera da letto di Arles: e fu amore a prima vista”.

 Il racconto dell’avventura umana e artistica continua, con qualche parola in dialetto per restituire il clima del tempo, e per dar voce agli stupori delle sorprese. Dopo l’“incontro” con Van Gogh ci sono i primi amori: la passione per Sironi e quella per Morandi, la scoperta di Picasso attraverso un disegno pubblicato su una rivista del GUF [Gruppo universitario fascista, ndr]. Forse è quello il momento in cui le lezioni di disegno dal vero e di disegno geometrico cominciano a dare un’impronta più definita alla sua produzione futura, alle opere che lo collocheranno fra i più originali e sapienti artisti del secondo dopoguerra, pittore ma anche grafico, attraverso un tipo di ricerca visiva che collega invenzione e comunicazione.

Gli chiedo se è andata così. Il racconto prosegue senza una risposta precisa: per fatti, scoperte, entusiasmi ancora vivi.

 “Dopo la guerra, nel 1948, decido di fare la tesi su Van Gogh e parto per la Biennale di Venezia. Visito velocemente e senza entusiasmi il padiglione italiano, studio i quadri di Van Gogh e, proseguendo, arrivo in una stanzetta tutta nera, progettata da Carlo Scarpa. Mi ritrovo davanti a un quadro di Paul Klee e provo un’emozione intensissima, quasi da svenimento per l’eccessivo entusiasmo: uno shock simile l’ho avuto solo un’altra volta, davanti a una delle Ninfee di Monet, quella blu, che per me è la più bella. Mi sembrava di avere in mano il suo pennello, di guidarlo sulla tela.

Paul Klee sapeva fare i conti con la geometria così bene che un giovane pittore come me, con una formazione anche geometrica, non poteva che rimanerne affascinato. Ricordo che Morandi, di cui mi piacciono soprattutto i disegni, quando tornai a casa e gli raccontai dell’amore per Klee mi disse: ‘Hai scoperto l’acqua calda!’. Quelle giornate veneziane sono state fondamentali: conoscere le opere di Klee, Monet, ma anche di Chagall e Pollock, allora ancora poco noti, mi ha dato molto ma mi ha messo in testa un traffico con cui poi è stato difficile fare i conti. Disegnavo e stracciavo, disegnavo e stracciavo. Ed è stato un periodo terribile.

Le cose sono un po’ cambiate nel 1952 quando sono arrivate le prime biro: ho sentito di poter controllare di più il segno e mi sono fatto coraggio. Nel 1954-1955 è venuta anche a me la cotta per gli autori dell’informale, soprattutto per Fautrier e Wols. Una cosa curiosa di quel periodo, in cui ho cominciato a perdere le ali della scuola, è il passaggio dai piccoli fogli di carta da minuta, che invecchiando sono diventati di colore quasi arancione, ai quadri di grandi dimensioni, che allora andavano tanto di moda. Ai pochi segni dell’inizio si aggiunge progressivamente la conquista del colore, il disegno e la pittura non hanno più barriere precise: è stato un processo spontaneo, forse il segno che stavo maturando.

Ho usato la biro, la china, la grafite, l’olio, il colore acrilico, il pastello: ho utilizzato la tecnica acquisita in funzione della fantasia del momento. Forse è nata in quel momento quella sorta di schizofrenia che mi porta ancora oggi a dipingere in una stessa mattina un volto o un disegno astratto”.

 Gli chiedo del suo rapporto con Bologna, gli ricordo che in occasione di una sua mostra alla Galleria “De Foscherari”, nel 1957, Francesco Arcangeli scrisse di un’autorevole “sistemazione critica” di quell’intreccio di interessi, di attrazioni, ma anche di pulsioni e di emozioni accumulate e in qualche modo sedimentate. Gli ricordo anche l’attenzione che alla sua opera è stata portata dalle voci più sapienti della critica cittadina: dopo Arcangeli, Andrea Emiliani, Eugenio Riccomini, Franco Solmi, Renato Barilli, Pietro Bonfiglioli, Giorgio Ruggeri, e poi, più vicino a noi, Nino Castagnoli e Dario Trento. E, in fondo, non è forse avvenuto all’ombra delle due torri che Cuniberti si è poco a poco trasformato, per dirla con Claudio Cerritelli, in una specie di mago nel paese dei segni? Ma come è avvenuta questa metamorfosi?

 “Picasso e Matisse si allontanavano sempre di più, ho iniziato ad avvertire che le inquietudini e le problematiche si stavano precisando, ho incontrato l’ondata di civiltà che anche a Bologna arrivava dalla cultura europea, ho cercato di tenere insieme il mestiere con le nuove sensibilità artistiche con cui entravo in contatto. Ho avuto la fortuna di fare gli incontri, gli scambi che cercavo da tempo. Non ero più un giovanotto ed era tempo che le ali della scuola le mettessi da parte del tutto, che cominciassi a confrontarmi con un mondo che stava cambiando. Si dice così? Ha ragione Paolo Fossati quando parla del nomadismo e della ricerca di dialoghi in una situazione provinciale: tutte scelte che ho compiuto in quel periodo.

Fra il 1960 e il 1970 Bologna ha goduto di un grande fervore creativo: ci sono state mostre importanti come quelle della Galleria ‘De Foscherari’ o quelle organizzate dal Circolo di cultura e dalle biennali dell’Ente manifestazioni artistiche. Il mio lavoro è piaciuto e si è rafforzata l’energia per rinnovarmi, per continuare quel percorso di osservatore e descrittore della realtà definito dai critici come un passaggio dall’informale al naturalista”.

 Onnivoro di realtà, Pirro lo è certamente da sempre. Ma tutti gli osservatori dell’opera del maestro, a cominciare da Arcangeli, sembrano concordi nel dire che Cuniberti non insegue un’intuizione, ma è straordinario inventore di un mondo suo particolare, come uno specchio riflesso di quello reale.

 “È da molto tempo che non ci sono maestri a cui guardare, a cui riferirsi: anche la pittura si è standardizzata nel rispetto delle mode, e dipingere è sempre di più una lotta con me stesso per mettere dei segni sulla carta, stando attento a non fare delle stupidaggini. Mi affascinano i titoli, che sono già un luogo dell’invenzione; ma non mi piacciono le etichette, non mi sono mai piaciute: oggi fare confusione tra figurativo e informale è ancora più facile. I nudi, le passeggiate col pennello sullo spazio del corpo umano, sono figurativi o informali? E poi i critici influenzano troppo il lavoro creativo e il risultato è che non ci sono più trovate. La stessa cosa succede nel cinema, nella fotografia: che noia mortale le mostre fotografiche!”.

 Resta sospesa la domanda su come si senta Pirro nel suo rappresentare questo mondo: più pittore o disegnatore? Forse il profilo satirico irriverente, spesso sarcastico, dei suoi dipinti, i suoi raffinati frammenti di mondo, nel disegno si incastonano in modo meno marcato: il segno è più controllato.

Che Pirro non apra spesso lo scrigno dei suoi ricordi, a questo punto del nostro incontro, mi è chiaro, ma faccio un ultimo tentativo ricordandogli della nascita dell’Istituto per i beni culturali, del suo impegno nello studio di una forma grafica per le collane editoriali e più in generale per l’immagine dell’IBC.

Nella sua essenziale, antiretorica, quasi irreale semplicità, quella cornicetta rossa apparsa sulla copertina della prima pubblicazione dell’Istituto non era forse parte anch’essa di quel paese dei segni di cui Pirro stava per divenire il mago riconosciuto?

Volto la pagina del mio quaderno d’intervistatore, mi appresto a scrivere. Intanto Pirro apre le lunghe braccia e ringrazia. Ma fa a tempo, generoso come è da sempre, a donarmi l’immagine inedita per la copertina di questo numero della rivista. E, a questo punto, siamo noi a ringraziarlo. 

[“IBC”, IX, 2001, 4, pp. 28-30]

Omaggio a Pirro Cuniberti: http://ibc.regione.emilia-romagna.it/notizie/2016/omaggio-a-pirro

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