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14 Maggio 2013 | Archivio / Protagonisti

Marco Simoncelli

Lo chiamavano il “Sic”. Era un asso della motocicletta e amava l’allegria. La sua gara è finita troppo presto.

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

14 maggio 2013

“Sono nato a Cattolica il 20 gennaio 1987. I miei genitori avevano una gelateria e mio babbo una grande passione per le moto e per le corse. Così la mia infanzia l’ho passata tra gelati e motori!”.
Con queste parole cominciava a raccontare di sé il motociclista Marco Simoncelli, nel profilo che aveva scritto su Facebook nel 2011. Il 23 ottobre di quell’anno, sul circuito di Sepang, il giovane campione di Coriano, già molto più di una promessa, moriva in uno spaventoso incidente di gara.
La sua è la vicenda di un protagonista uscito di scena proprio sul più bello, quando la storia cominciava a entrare nel vivo.

Nel rileggere la vita di questo allegro ragazzo romagnolo di un metro e novanta, tutto riccioli e grinta, non si può fare a meno di sorridere, nonostante il finale tragico. Perché, fuori dalle piste, il “Sic”, come veniva chiamato, era uno che amava molto scherzare e “far baracca”.
Aveva iniziato verso i sei anni con le minimoto, diventando campione italiano di questa categoria nel 1999 e nel 2000. Quell’anno prova per la prima volta una 125 da gran premio e due anni dopo si aggiudica il campionato europeo di quella cilindrata.
“Spero di diventare un futuro Eddie Lawson o anche un Valentino Rossi, e credo di averne tutte le capacità”. Aveva solo dieci anni, Simoncelli, quando scriveva queste parole in un tema di scuola. Non immaginava che, di lì a qualche anno, quel Valentino Rossi lo avrebbe portato con sé alla Cava, un luogo mitico per i motociclisti romagnoli, un posto in cui solo in pochi sono ammessi, dove si va come in un rifugio segreto, per provare insieme le moto, per giocare a sfidarsi, per tuffarsi in lunghe bagarre all’ultimo sangue, puntualmente concluse da una bella tavolata con piadina e sangiovese.

Nel 2004, in Spagna, Marco vince la sua prima gara del campionato mondiale di motociclismo. Ma l’anno più bello è quello successivo, con cinque podi, il bis della vittoria a Jerez, e il quinto posto nella classifica del MotoMondiale. Dopodiché, con il passaggio alla 250, comincia un periodo di alti e bassi, cambi di squadra, infortuni e difficoltà varie, che tuttavia non gli tolgono la voglia di sorridere e andare avanti.
Nel 2007 un giornalista gli chiede se si senta arrivato all’ultima spiaggia. “Diobò!” – commenterà lui – “A vent’anni, dopo una sola stagione in 250, dovevo già essere all’ultima spiaggia! Voglio dire, certe volte si è un po’ troppo frettolosi nei confronti dei piloti giovani. Bisogna che si combinino un sacco di cose perché uno riesca a vincere. Che il pilota sia maturato, che la squadra e la moto funzionino, che il clima sia buono… che, che, che. Non è così semplice e automatico come può sembrare da fuori”.
L’anno seguente, con sei vittorie e sei piazzamenti, Simoncelli si laurea campione del mondo.

Oggi, grazie alla passione dei genitori Rossella e Paolo, la Fondazione intitolata al giovane campione romagnolo sostiene progetti umanitari nazionali e internazionali (www.marcosimoncellifondazione.it). Un modo molto concreto per ricordare un ragazzo che conosceva il valore di un sorriso. Ma anche una risposta alle reazioni suscitate dalla sua morte nella società mediatica, reazioni a tratti scomposte, che rischiavano di cancellare la storia di Marco per farne materia da sciocchezzaio televisivo o da pettegolezzo in rete.

“Viviamo un giorno. Cosa siamo mai? Cosa non siamo? Sogno di un’ombra, questo è l’uomo. Ma quando un bagliore, come dono divino, ci giunge, un luminoso splendore ci sovrasta, e dolce è la vita”. Così cantava Pindaro, due millenni e mezzo fa, pensando alle gesta di un giovane lottatore vittorioso a Delfi. Ma anche oggi, se si fa tacere il chiasso della pubblicità, della televisione, dello spettacolo a tutti i costi, lo sport racconta di come la nostra vita possa essere, insieme, fulminea e luminosa.
Guardando i grandi campioni all’opera, scriveva David Foster Wallace, ci accorgiamo di quanto sia meraviglioso muoversi nello spazio, toccare e percepire l’aria, avere un corpo. Diventiamo consapevoli di quanto sia bello stare al mondo. Certo, i campioni come Simoncelli, con il corpo, corrono rischi che la maggior parte di noi ritiene saggio non correre, e fanno cose che la maggior parte di noi può fare solo in sogno. Per questo, a volte, diciamo che ci fanno sognare. E non è una cosa da poco. Senza sogni forse si respira, ma non si vive.

[Per le citazioni si ringrazia il giornalista Paolo Beltramo, che è stato amico di Marco Simoncelli e ha curato due libri su di lui per le edizioni Mondadori e Rizzoli]

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