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8 Novembre 2016 | Archivio / Protagonisti

Massimo Osti: inventare tessuti

L’attività trentennale dello stilista bolognese vive ancora nell’archivio che conserva più di 50.000 campioni tessili

A cura di Vittorio Ferorelli

La fantasia, diceva Italo Calvino, è come la marmellata: per apprezzarla davvero, non bastano le dita nel vasetto, bisogna spalmarla su una solida fetta di pane. Come dire che non c’è invenzione del genio senza applicazione di un lavoro concreto. Cominciamo da questa frase dello scrittore delle Città invisibili, care amiche e cari amici di RadioEmiliaRomagna, per raccontare la storia di un uomo che, la sua fantasia, l’ha spalmata, o meglio, cucita, su solide strisce di tessuto.

Massimo Osti nasce a Baricella, nella pianura bolognese, il 17 giugno del 1944. Inizia la sua carriera come grafico pubblicitario, lavorando nel capoluogo emiliano. Nel 1968, a 24 anni, per disegnare la sua prima linea di magliette T-shirt, utilizza le tecniche della stampa su carta. La chiama “Chomp Chomp”, dal suono che nei fumetti fa chiunque mastichi qualcosa. E la passione per il fumetto gli torna utile un paio di anni dopo, quando diventa socio di un’azienda tessile che produce abbigliamento sportivo. Su suo suggerimento, si chiamerà “Chester Perry”: lo stesso nome della megaditta in cui lavora Bristow, l’ironico protagonista delle vignette di Frank Dickens.
Sperimentare: è questo il verbo che traduce la fantasia di Massimo Osti nella realtà dell’invenzione. Il suo coltello per la marmellata. Nel 1973 prova a tingere in un unico bagno di colore alcuni capi finiti, composti da materiali diversi, con una tecnica che produce sfumature cromatiche inedite ma mantiene le caratteristiche naturali dei tessuti, evitando restringimenti in fase di lavaggio. Le vendite sono così elevate da suscitare la reazione di due colossi tessili inglesi: sono Chester Barry e Fred Perry, e si oppongono all’uso di un marchio che, a loro parere, usurpa il proprio. Osti è costretto a cedere, ma non si scoraggia: riduce alle sole iniziali “Chester Perry” e crea la nuova “C.P. Company”.

Arrivano gli anni Ottanta e la voglia di uscire dalle uniformi ideologiche del decennio precedente per entrare in panni più comodi, più ricercati, più vanitosi. Nel 1982 Osti disegna una collezione che utilizza un tessuto particolarissimo, ruvido e dilavato: ricorda molto da vicino quello che si utilizza per coprire i camion. L’invenzione nasce dallo studio di un materiale bicolore, talmente rigido e corposo che per domarlo occorre un lungo lavaggio con la pietra pomice. Il risultato è un capo dall’aspetto vissuto, che fa intendere di essere uscito indenne da molte avventure.
Occorre un nome che faccia risuonare tanto fascino e a questo scopo il genio di Osti propone “Stone Island”, un binomio che sa di imprese marinaresche e naufragi in isole selvagge. Ma non basta, negli anni dell’edonismo diffuso occorre anche un’etichetta particolare, che spicchi su tutte le altre. Ecco allora la mostrina scura che porta cucita la Rosa dei Venti, trattenuta da due bottoni. La ricordano in tanti, in quegli anni, e in vetrina si vede tuttora.

Il Tessuto Stella è la prima di una serie di invenzioni che Massimo Osti metterà a punto negli anni successivi. Il Raso Ray, un tessuto ottenuto spalmando una gomma impermeabilizzante sopra un finissimo raso di cotone. L’Ice Jacket, un materiale che cambia colore al variare della temperatura. Il Reflective Jacket, che associa a un tessuto impermeabile un sottile strato di microsfere di vetro capaci di riflettere fonti di luce minime.
Anche nel corso degli anni Novanta e anche dopo aver lasciato “C.P. Company” in altre mani, il suo talento inventivo prosegue la corsa. La collezione “Massimo Osti Production” anticipa le tendenze del decennio successivo accantonando i volumi ampi degli anni Ottanta a favore di forme più aderenti e di nuovi tessuti. Come il Tecnowool, nato dall’accoppiamento della lana con una rete indemagliabile di jersey di nylon che, mantenendone la traspirabilità, la rende più resistente e meno deformabile. O come il Mag Defender, che mescola poliestere e carbonio e ambisce a proteggere il corpo dalla dura vita metropolitana.

Alla sua morte, giunta il 6 giugno 2005, Massimo Osti ha lasciato a Bologna un ricchissimo archivio di tessuti, prove di tintura, abiti e maglieria. Un patrimonio di memoria che non testimonia soltanto le linee di abbigliamento disegnate, ma anche il valore di una ricerca continua, così pervicace da attraversare l’intero processo creativo, dalla prima idea schizzata sulla carta alla materia palpabile su cui calarla, fino alle parole e alle immagini con cui comunicarla al mondo (www.massimoosti.com/site/).

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