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6 Ottobre 2015 | Archivio / Protagonisti

Pietro Ghizzardi

Il contadino che dipingeva con i colori fatti da sé e scriveva in una lingua tutta sua, per avvicinarsi a un mondo che lo teneva lontano

A cura di Vittorio Ferorelli

Pietro Ghizzardi nasce alle sei del mattino del 20 luglio 1906 nella Pavesina, una corte di campagna nei pressi di Viadana, in provincia di Mantova. I genitori sono contadini fittavoli. Il bambino, fin da piccolo, mostra due segni particolari: una salute malferma e un certo talento per il disegno, che si manifesta in modo deciso verso i tredici anni, quando resta affascinato dalla maestria di un vecchio disegnatore, un uomo che in paese si guadagna da vivere vergando cifre in elegante stile gotico sulla biancheria destinata alla dote delle signorine. Cercando di imitarlo, il ragazzo passerà, in breve, dagli arabeschi astratti alle forme dei volti che vede intorno a sé: nasi, menti, bocche, e soprattutto occhi. Dipinge quadri di grandi dimensioni che appende alla finestra della sua camera e sotto il portico di casa, in modo che i passanti li possano vedere.

All’inizio degli anni Trenta, Pietro, contadino e pittore, segue la famiglia in un trasferimento che li porta tutti a Boretto, sull’altra riva del Po, nella Bassa reggiana. Anche se nessuno crede alle sue qualità di artista autodidatta, il ragazzo continua imperterrito a dipingere, sfruttando i momenti di pausa lasciati dal lavoro dei campi e utilizzando come colori le sostanze che trova a portata di mano ogni giorno: erbe, terra, mattoni tritati, la fuliggine del camino. Non a caso le tinte dei suoi quadri sono aspre e terragne, e le linee per lo più cariche di nero. 
In una vita fatta di lavoro e di scarsi contatti con il mondo di fuori, tutta votata alla famiglia di origine, senza relazioni amorose, le figure femminili diventano una presenza ossessiva nelle sue tele, dedicate quasi sempre a volti e corpi di donne, reali o immaginate, comunque aliene.

Poi, a quasi sessant’anni, il primo riconoscimento pubblico. La città di Guastalla cerca opere e autori per una mostra d’arte e Pietro, buffo e trasandato come di solito, si presenta in Comune con le sue tele tutte infagottate. L’addetto lo scambia per un vagabondo e lo caccia in malo modo. Lui va via, poi però torna indietro e insiste per consegnare le sue opere. Vincerà il primo premio. E, da questo momento, il mondo sembra accorgersi di lui. Nel 1965 la Film Luce gli dedica un documentario; tre anni dopo, il presidente della Repubblica gli conferisce la medaglia d’oro alla mostra nazionale del Naif di Luzzara.

Ma la consacrazione arriva nel 1976, quando Giulio Einaudi, l’editore italiano più colto dell’epoca, pubblica la sua autobiografia. Un libro scritto in una lingua tutta sua, poco grammaticata ma vivissima, pulsante di forza e di inventiva:

ora voglio schrivere tutto il passato della mia vita e di tutto quéllo che mi richordo a farsi a letà di 2 anni

mi richordo anchora che tutti gli anni quando cera la fiera alla pavezina mio nonno aveva una ghrossa pianta di cigliegioni noi li chiamiamo in dialetto chalun io andavo la sopra quélla ghrossa pianta con mio nonno a mangiare quei bei cigliegioni allora io in quei tempi avevo quatro o cinque anni e dora inavanti me la sono sempre richordata la chaza dei miei nonni e i miei zii che tanto amavo

Il libro vinse il premio Viareggio. Pietro divenne famoso, fu invitato alle mostre e celebrato dai critici. A Boretto, per tutti, era ancora “il Pietrone”. Cesare Zavattini, però, sapeva bene quante umiliazioni aveva vissuto Ghizzardi prima di quella gloria. Lo ricordava distintamente, quando, alle prime mostre, se ne stava in disparte, in piedi in un angolo, sdentato, con il paletò abbottonato male e la paura di disturbare di chi sente di non essere presentabile.

 

[La Casa Museo di Pietro Ghizzardi, a Boretto, è aperta alle visite: www.pietroghizzardi.it]

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