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21 Febbraio 2012 | Archivio / Protagonisti

Sessant’anni di vita spericolata

Un omaggio a Vasco Rossi: da Zocca all’universo-mondo

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

21 febbraio 2012

Brano: Eh già.

Cari ascoltatori, il 7 febbraio scorso Vasco Rossi ha compiuto sessant’anni. Gli è stata organizzata una grande festa sul web, il Vasco Day, una vera maratona per il suo fatidico anniversario, e la tv La 7 ha mandato in onda in prima serata Questa storia qua, il documentario presentato alla scorsa mostra del cinema di Venezia che racconta la vita del rocker con canzoni, testimonianze, filmati di concerti e filmini d’epoca. Il mensile Rolling Stone Italia è uscito questo mese con l’elenco dei cento dischi italiani più belli di sempre: e  al primo posto c’è Bollicine di Vasco. Non potevamo mancare, nel nostro piccolo, anche noi di Radio Emilia Romagna, poiché quella del “Blasco” è, sì, una storia italiana, ma soprattutto emiliana, che parte dal paese natale di Zocca per arrivare, come si dice, all’universo-mondo, essendo la nostra rockstar da tempo entrata nella zona del mito. Basta leggere cosa gli scrivono i fan in facebook: “Le tue canzoni sono pezzi insostituibili di quel grande puzzle che è la nostra vita. Emozioni, salti e urla di gioia, lacrime di commozione o di tristezza, e sempre grande carica per ripartire dalle sconfitte. La tua musica e le tue parole ci hanno fatto vivere meglio. Grazie per averle condivise con tanti di noi”. Una ragazza si chiede: “Prenderò sonno dopo averti sognato così tanto”? Vasco, tra un ringraziamento e l’altro butta lì una risposta: “Ho sempre vissuto alla giornata. Non mi aspettavo una vita molto lunga dato che la vivevo intensamente. Ma adesso sono ancora qua e dei giorni proprio non riesco a sopportarli. O meglio a sopportarmi”. Concetto, questo, espresso anche nella canzone “Manifesto futurista della nuova umanità” dove canta “Ti prego perdonami se non ho più la fede in te / ti faccio presente che / ho quasi finito / ho quasi finito anche la pazienza che ho con me”. 

Brano: Manifesto futurista della nuova umanità

Ma a raccontarvi Vasco Rossi così, facciamo solo confusione. Dobbiamo partire dagli inizi e, per farlo, non abbiamo trovato di meglio che leggervi le due paginette scritte nel 2004 da Edmondo Berselli nel suo libro “Quel gran pezzo dell’Emilia”. A quel tempo, Vasco aveva appena pubblicato “Buoni e cattivi”; mancano quindi all’oggi altri due lavori, “Il mondo che vorrei” (2008) e “Vivere o niente” (2011), più un paio di live per gli appassionati. Il capitolo in cui Berselli colloca le due paginette di “Se una radio è libera”, s’intitola “Vasco era uno di Zocca”.

Lettura. Edmondo Berselli: “Se una radio è libera”, da “Quel gran pezzo dell’Emilia” (Mondadori, 2004).

Se una radio è libera

La stranezza dell’Appennino si diffonde di qua e di là, oltre i confini delle province. Si poteva fare a meno della politica, nelle città emiliane, e inventarsi una vita e un la­voro. Ma lassù, fra paesi che si chiamano Fanano e Montefiorino, come si poteva passare il tempo? Le estati erano lunghe, con pochi villeggianti e pochi soldi in circolazio­ne. Sulle povere falde dell’Appennino, vita grama. Poi quattro ragazzotti mettono su una specie di balera, con il tipico fissato dell’hi-fi che presta l’impianto stereo e le casse, e si passa un agosto di musica vivace, mentre la no­tizia delle notti brave si sparge fino al crinale e verso la pianura: sicché arrivano i «giovani» dalla montagna e dal basso, da Fiorano, da Sassuolo, Maranello, Pavullo, Pievepelago, come se ci fosse una sagra laica permanente. Ri­sultato finale, anche un incasso strepitoso, al punto che praticamente un’intera generazione di paese si trova i quattrini in tasca per andare al mare (e infatti ci vanno, tutti insieme, all’isola del Giglio).

Zocca è così: inventiva. Fra gli originali tipi umani che ha prodotto ci sono un astronauta, un deputato, il più grande petrarchista vivente, sei o sette primari ospedalieri, tanto da far pensare che la deprivazione sociale sia una molla molto potente per puntare al successo, fra le stelle o sulla terra.

L’anno dopo gli sfigati della discoteca all’aperto, un po’ meno sfigati, si guardano in faccia: e adesso che facciamo? Il tipo fanatico dell’hi-fi dice: ci vuole niente a mettere su una radio privata. La legislazione è ambigua, ci si capisce niente, al massimo ci danno una multa spaventosa che poi non la paga nessuno. Dall’alto della montagna l’onda arriva fino a Verona, si sparge in Toscana, praticamente è una radio nazionale.

È così che, nel mezzo degli anni Settanta, nasce e cresce Punto Radio, radio libera e di tendenza, quale tendenza è secondario. Aspiranti cantanti, presunti disc jockey, esperti di musica rock, altre professionalità imprecise, e Vasco Rossi fra loro, destinato allora a una vita da insegnante precario o da precario comunque. L’aspirante cantante Vasco era ancora incerto fra il rock e il cantautorato, sus­surri discretamente rochi su musiche un po’ ruffiane. Ci casca ancora adesso, in qualche canzone, raccontando le storie di una che si chiama Sally e ripescando di tanto in tanto il suo inno adolescenziale, Alba chiara, quella che «con una mano, una mano ti sfiori», tu sola nella tua stan­za, e tutto il mondo fuori.

A suo tempo con quella canzone si presenta a «Disco­ring», un programma televisivo domenicale di Gianni Boncompagni, e ci arriva con una tenuta talmente impro­babile, da rocker sfasciato di provincia, occhiali scuri, giubbotto, jeans e cinturone borchiato, che Boncompagni lo crivella di sarcasmi, mentre lui, Vasco, non sa reagire se non con dei «vaffa» mentali e il sorrisetto difensivo di chi pensa: te la faccio vedere io. Comunque sia, mentre il perfido Boncompagni sta ancora sghignazzando fra sé per l’improbabilità dell’ospite, la regia sfuma Albachiara dopo un minuto e mezzo, in modo che il pubblico in studio e a casa non capisce di aver assistito all’esordio di un mito, e se fosse abbastanza obiettivo per ricordarsene, Boncompagni si morderebbe le dita anche adesso.

Che il Blasco allora fosse poco plausibile non c’è dubbio, si presentava come un dilettante disastrato. Solo che è simpaticamente squinternato anche adesso, al culmine del successo. Perché non crede in niente, e va bene, ma ci sono le masse che credono in lui, affollano gli stadi, lo adorano come se aspettassero da lui un vangelo. Mentre lui tace, al massimo bofonchia. E il messaggio, eh, il mes­saggio dov’è? Siamo solo noooooi! Noi chi? Boh.

Noi. Solo i moralisti più spompati possono ancora scan­dalizzarsi per la faccenda dei mezzi chili di coca. Accidenti, s’è saputo che la cocaina la tirava perfino il senatore a vita democristiano Emilio Colombo, «per uso terapeutico», a più di ottant’anni, vogliamo mettere? Vogliamo smettere?

Piuttosto mettiamo a fuoco la figura di Vasco per coglierne la profonda italianità, il suo essere un simbolo transregionale e multigenerazionale. Vasco non parla, non ammo­nisce, non offre decaloghi. Di tanto in tanto dice di essere antiproibizionista e pannelliano, e l’ultimo disco, Buoni o cattivi, l’ha presentato nella comunità del Gruppo Abele di don Luigi Ciotti. Forse come un esorcismo.

Con questo, e mettiamoci anche una visione del mondo fenomenologica, per cui si sospende il giudizio su tutto, si contempla la frammentaria eterogeneità del reale con la serena distanza di chi ne ha viste fin troppe, Vasco rimane politicamente muto. Non dice niente. Non comunica nulla se non se stesso. Si trovasse ancora davanti al microfono di una radio libera saprebbe fare dei mutismi molto ma molto suggestivi. Forse è lui l’erede più autentico di que­gli svaccati dei bar di tendenza e di ritrovo che votavano distrattamente per il Pci purché il Pci non rompesse le scatole: e quindi viene naturale dire, ancora una volta, nel modo più impolitico possibile, forza Vasco.

Brano. Gli angeli.

Ci sembra che Edmondo Berselli abbia spiegato bene la “fenomenologia”, non sappiamo se semplice o complessa, di Vasco Rossi. Tra l’altro, c’è stata recentemente una polemica tra il rocker di Zocca, o meglio i suoi fan, e un blogger che aveva scritto addirittura che “Vasco Rossi rappresenta allegoricamente tutto ciò che di Male hanno generato gli Anni ‘80: il culto dell’arroganza, l’ignoranza e la trascuratezza elargite a valore, la convinzione che la logica del ‘duro’ fosse adeguata per ergersi contro il sistema dominante”. Tesi facilmente smontabile perché negli Anni ’80 il Blasco era solo agli inizi: chi aveva allora circa vent’anni ricorderà la sua stralunata apparizione a Sanremo con “Vita spericolata”, un inno esistenziale a tutti i Roxy Bar della nostra vita, dove s’incontra Steve Mc Queen e si celebra il mito di Baudelaire e Rimbaud dello “sregolamento di tutti sensi”, almeno come lo si poteva immaginare da un bar di Zocca o da una radio privata della provincia emiliana, quella da cui veniva lui, come ci ha raccontato Berselli.

Brano. Il mondo che vorrei.

Certo, per molti Vasco Rossi resta ancora un tipo poco raccomandabile, anche se recentemente ha donato 75.000 euro all’Università di Bologna per la ricerca sui virus, e pure se assomiglia sempre di più a un buffo signore in sneakers e cappellino che la sua “trasgressione” l’ha già interiorizzata e pacificata. In fondo, la sua filosofia di vita l’ha esplicitata alla fine del “Manifesto futurista della nuova umanità” che abbiamo ascoltato prima, dove dice: “Ho fatto un patto con le mie emozioni / le lascio vivere e loro non mi fanno fuori”. Perché, dunque, denigrare Vasco per il fatto di essere idolatrato dai giovani? Se le frasi delle sue canzoni finiscono nei diari di scuola delle ragazzine, che male c’è? Non crediamo che lui sia l’interprete di chissà quale psicologia collettiva: è semplicemente un artista che segue un suo percorso, e il suo rock urbano è spesso la colonna sonora di alcuni momenti della nostra vita. Niente di più, e niente di meno. E diciamola tutta: siccome il mondo del rock italiano si divide tra i fan di Vasco Rossi e quelli di Ligabue (entrambi emiliani – rileviamo con orgoglio), voi avete già capito da che parte sta chi scrive. La potenza di fuoco nei concerti è altissima da parte di tutti e due, ma il Blasco ha qualcosa in più. Sa stare sopra le righe con nonchalance, ed è per questo che ha saputo fare così bene “Amico fragile” di Fabrizio De Andrè, la canzone scritta dall’autore genovese di notte, dopo una sbornia abissale generata dal disgusto. Una canzone scritta tra i fumi dell’alcool: ed è un capolavoro.

Brano. “Amico fragile”: Vasco Rossi interpreta la canzone di Fabrizio De Andrè. 

Sito ufficiale di Vasco Rossi 

Su RadioEmiliaromagna, dedicati a Vasco Rossi 

Questa storia qua documentario di Alessandro Paris e Sibylle Righetti sul rocker emiliano

L’Emilia o la dura legge della musica dal libro di Gianluca Morozzi, Guanda, Parma 2006

Brano corrente

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