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24 Giugno 2013 | Racconti d'autore

Americrazy. On the road sulle tracce della vera America

Racconto di Seba Pezzani, tratto dal libro omonimo (Piacenza, GL Editore – Nuova Editrice Berti, 2013) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

24 giugno 2013

Ottobre 2012: i “RAB4”, un’agguerrita rockband emiliana, viaggia su e giù per il Colorado, il New Mexico e il Texas, per presentare il suo ultimo CD, “Folk’n’Roll”. Lungo la strada, il cantante-chitarrista della band racconta i “suoi” Stati Uniti… 
Traduttore e interprete dall’inglese, Seba Pezzani ha collaborato con autori del calibro di Jeffery Deaver, Ruth Rendell e Joe Lansdale (la figlia del quale, Kasey, cantante a sua volta, si è unita alla band durante la tournée).

Dagli anni dell’adolescenza, praticamente da quando ho scoperto la forza irresistibile del rock’n’roll e ne ho subìto l’impatto travolgente, mi nutro di cultura popolare americana. In qualche modo, la mia passione per la musica, la scrittura e la cinematografia americane mi hanno portato a esplorarne la lingua, che alla fine è diventata il mio lavoro, e a essere quello che sono.
È, infatti, grazie a tale passione che ho inseguito con cocciutaggine l’aspirazione – ovviamente mai realizzata del tutto – di poter un giorno parlare e, soprattutto, cantare come un americano ed è sempre grazie a essa che della conoscenza della lingua inglese ho finito per fare la mia professione. Oggi sono un traduttore e un interprete letterario a tempo pieno.

Quando insieme ad alcuni amici (Jutta, Gianni, Vittorio e Davide) e alla mia rockband, i “RAB4”, che qui ringrazio, ho deciso di fare una vacanza tutto sommato alternativa negli USA, ho pensato immediatamente di stilare non un diario di viaggio bensì un ritratto semiserio della mia America. Già in passato ci avevo provato, ma solo oggi, anche grazie a un altro amico, Carlo Borella, passionale editore e tipografo piacentino, il progetto è andato in porto.
E, certo, ci vuole amicizia per scrivere le belle parole che il maestro americano del thriller, quel Jeffery Deaver che si è inventato il detective tetraplegico Lincoln Rhyme de Il collezionista di ossa, ha messo sulla copertina di questo libro. Una bella cosa, in un mondo sempre meno propenso alla sincerità dei rapporti umani. Ma la scelta di percorrere tre stati del Sudovest in furgone, di fare tappa in posti che quasi non hanno spazio sulle cartine, e di portare la nostra musica nella terra che, di fatto, l’ha concepita, mi sento di definirla al tempo stesso alternativa e audace. E concedetemi un po’ di malcelato orgoglio.

Non ho certo la pretesa di tracciare un quadro sociologico degli USA in queste poche pagine. Gli Stati Uniti sono un paese complesso, contraddittorio, stupefacente. Spesso di difficile interpretazione anche per chi vi è nato e cresciuto. Di pedanti saggi accademici e di saccenti e superficiali reportage giornalistici è pieno il mondo e, soprattutto, è saturo il mercato editoriale italiano. Meglio, dunque, lasciare al cuore il compito di descrivere l’America. Il cervello non sempre è adeguato, e qualunque tentativo di tracciarne un quadro razionale e scientifico risulterebbe pretenzioso e fallimentare, oltre che asettico e lontano dalle mie intenzioni.
In queste pagine, attraverso la piccola avventura di un gruppo di amici, troverete alcuni dei temi che da sempre animano i dibattiti sull’America: il razzismo, l’alienazione, la diffusione delle armi, il liberismo, la generosità, l’apertura e la chiusura di un popolo, l’immigrazione clandestina eccetera. Non aspettatevi profondità d’analisi. La superficialità con cui tali questioni vengono sfiorate è voluta. Meglio stuzzicare la vostra curiosità e, magari, spingervi a visitare il paese in futuro e a toccarne con mano la realtà.
Ciò nonostante, spero di riuscire a comunicarvi la meraviglia, l’incredulità e il piacere che tuttora provo nel vedere certi spettacoli della natura, nel constatare la diversità di questo paese dalla nostra Europa e la bellezza di certi incontri che solo da queste parti si possono fare.
[…]

Blues, improperi e barbecue

Stasera si suona. Finalmente.
In fondo, è anche e soprattutto per questo che ci siamo imbarcati nella nostra avventura a stelle e strisce. La serata non è interamente dei “RAB4” e dobbiamo ringraziare il titolare di uno strano albergo con locale incorporato se ci viene concessa questa opportunità. Anche perché l’abbiamo colta quasi all’ultimo momento.
La Boulder’s Home of the Blues ospita regolarmente concerti di artisti blues e soul di una certa fama e ogni martedì vi si svolge una “blues jam” libera, introdotta da un paio di bravi musicisti della zona. Insomma, basta presentarsi con il proprio strumento e accordarsi con il padrone di casa e il gioco è fatto.

Mi consulto con il chitarrista della “house band”, il gruppo che aprirà la serata e che ospiterà chiunque abbia voglia di esibirsi. La prima cosa che mi dice è: “Ti va di fumarti una canna?”. Sarà una costante di questo viaggio. I casi sono due: o ho la faccia di un vecchio sballone, oppure da queste parti chiedere se ti va di farti uno spinello o se hai uno spinello da farti in compagnia è la migliore forma di benvenuto tra musicisti.
D’altro canto, la marijuana è stata da poco liberalizzata proprio in Colorado e nello stato di Washington. Inutile dire che passo. Non sono mai stato uno di quei rocker maledetti che non possono rinunciare ai piaceri della trasgressione. Malgrado le apparenze, mi piace la sobrietà.

La nostra mezzoretta di musica fila via liscia e così, finito di suonare, ci sediamo a un tavolo e ci godiamo la musica suonata dagli altri. C’è anche Lionel Young, un bravissimo cantante e violinista afroamericano che ho conosciuto in Italia e che vive proprio nei dintorni di Boulder. Per sua fortuna – e pure meritatamente, mi sento di aggiungere – la sua fama è cresciuta notevolmente nell’ultimo periodo e ora gli capita spesso di condividere il palco con artisti di grande notorietà.
Lionel ha voglia di suonare, nonostante finga di fare il prezioso quando il capobanda, un certo Al Chesis, calvo come il sottoscritto e, se possibile, ancora di più, lo invita a sorpresa sul palco. Una volta salito, però, ci dà dentro con gusto palese e, a un certo punto, impreca di brutto. Gli americani, bontà loro, non bestemmiano e l’imprecazione che più si avvicini all’empietà è la parola “motherfucker”. Siccome è di fatto intraducibile e siccome, comunque, è meglio non tradurla, non proverò nemmeno a fornirvene il corrispettivo italiano. Mi limiterò a dirvi che, se proprio volete essere volgari, non c’è formula migliore.
Insomma, Lionel a un certo punto pronuncia la parola impronunciabile e proclama: “So che la parola motherfucker non si può dire, anche perché ci sono dei minori in sala, però la dico ugualmente, l’importante è dirla con sentimento”. Francamente, il ragionamento non mi è chiaro, ma tant’è. Forse, Lionel vuole esprimere la sua costernazione di fronte al tredicenne che, accompagnato dall’orgogliosissimo papà, sale sul palco, imbraccia una Fender Stratocaster più grande di lui e sciorina un assolo degno dei grandi maestri che senza dubbio devono averlo ispirato: Eric Clapton, Stevie Ray Vaughan e Johnny Lang su tutti.

Il ragazzino sprigiona felicità da ogni poro. Suonare con ottimi e affermati musicisti – di fatto con quella che presto sarà la band di Bob Margolin, un chitarrista noto soprattutto per i trascorsi al fianco del grande Muddy Waters – non è cosa da poco. Il capobanda dice, ammiccando, che tutte le ragazzine della prima superiore perderanno senz’altro la testa per un coetaneo che suona il blues in questo modo e che, in fondo, è proprio per quello che tutti i musicisti suonano.
Malgrado si tratti ancora una volta di un cliché, c’è più di un fondo di verità in queste parole. Chi non ha mai sognato la fortuna in amore che si suppone possa essere facile appannaggio di un idolo delle folle? La chitarra, in realtà, non è mai bastata a farmi vincere la timidezza che mi contraddistingue da sempre e non credo che le cose siano destinate a cambiare, se non in peggio. E poi, diciamolo: oggi le ragazzine, in camera, tengono il poster di un calciatore, di un giocatore di basket, forse, non certo di un rocker.
Ma il siparietto è solo iniziato. Lionel Young dice al collega calvo: “Attento a come parli. Ci sono dei bambini in sala e rischi di finire in galera”. Ma Al Chesis rintuzza simpaticamente l’attacco. “No, niente galera. Solo un affidamento ai servizi sociali”. Sembra di essere in un film dei fratelli Coen. In fondo, la vita è un film. E tiratemi pure le orecchie per questa frase fatta, trita e ritrita.

La frase che sto per pronunciare, invece, per quanto scontata, è sincera. Dopo aver visto questo ragazzino suonare in quel modo, mi sento di dire che c’è ancora un minimo di futuro per l’umanità, che i giovani possono aspirare a qualcosa di meglio e, soprattutto, di più vero dell’ennesimo vuoto, insulso e criminoso talent show. La vita è certo un campo minato, ma chi ha detto che deve per forza essere un concorso a eliminazione?
La mia riflessione è corroborata da ciò che è successo durante la nostra esibizione: il padrone di casa ci ha sostanzialmente appioppato un ospite. Prendere o lasciare. “Barbecue Joe”, un armonicista che non ne imbrocca praticamente una e che deve aver pescato l’armonica sbagliata dalla custodia giusta, mette in fila una serie di “cappelle” epocali. Ma poco importa: Barbecue Joe, come dice il nome stesso, è un cuoco specializzato nella preparazione a domicilio di costine, braciole, salsicce e chi ne ha più ne metta. Alla fine della serata, tanto per non smentirsi e per farsi un minimo di pubblicità, tira fuori un sacchetto di costine alla griglia sotto vuoto e ne fa dono a un membro della band. È questo il sapore dell’amicizia.

Brano corrente

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