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18 Maggio 2017 | Racconti d'autore

Argonauti in bicicletta

Testo di Claudio Gregori tratto dal libro “Il Giro d’Italia tra letteratura e giornalismo” (a cura di Angelo Varni, Bologna, Bononia University Press, 2010)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Il centesimo Giro ciclistico d’Italia attraversa il paese da Sud a Nord, trapuntando anche l’Emilia-Romagna. In occasione della tappa di oggi, da Forlì a Reggio, rileggiamo il racconto della prima mitica edizione, rievocata dal giornalista Claudio Gregori.

I partenti del primo Giro sono come gli Argonauti. La corsa è avventura pura. Un tuffo nel buio, nell’ignoto. Si parte alle 2.53 del 13 maggio 1909 sotto le stelle. Davanti alle ruote una tappa tremenda: 397 chilometri, da Milano a Bologna, passando per Padova. Non c’è l’asfalto. La strada è sterrata, con i solchi profondi lasciati dai carri. Quando piove si trasforma in palude impraticabile. Le biciclette pesano un’enormità: quella di Ganna è 15 chili. Hanno un solo rapporto e il pignone fisso: bisogna, quindi, pedalare anche in discesa. Non ci sono momenti di riposo. Le condizioni delle strade sono pazzesche. Il Giro d’Italia ha avuto come precedente il Giro di Sicilia, che si tenne per due anni consecutivi, nel 1907 e nel 1908. Lo stato delle strade era tale che i grandi assi di Francia, che Vincenzo Florio aveva ingaggiato nel 1908, portandoli a Palermo con una delle sue navi, spaventati, tornarono subito a casa dopo la prima tappa.

Il Giro è subito impresa. Si parte dal Rondò di Loreto. Dobbiamo immaginarci un’altra civiltà. Ci sono ancora i lampioni a gas, con le prime lampade elettriche, ma oltre la città c’è il buio più completo. La partenza è illuminata dalle lampade al magnesio dei fotografi. In viale Monza c’è un po’ di luce, poi si passa dalla luce delle torce alle tenebre. La corsa sprofonda nel buio, nel mistero. Dobbiamo immaginarci 127 corridori, su una strada difficile, lanciati nell’oscurità. La battaglia è subito omerica. Al Molinello, dopo 1500 metri di corsa, c’è la caduta. Sei corridori a terra. Tra loro due favoriti: Ganna e Gerbi, il famoso “Diavolo Rosso”. Ripartono tutti, tranne Gerbi, che resta lì con la sua maglia rossa sporca di terra e la ruota spezzata. Ha una mano ferita, perde sangue. Torna a piedi al traguardo. Lì trova il giovane Zambrini, dirigente della Bianchi che diventerà famoso con Coppi. Che cosa fa? Prende il “brum”, la carrozza a cavalli, e porta Gerbi all’officina della Bianchi, che naturalmente è chiusa. Non ci sono i telefonini. Ci vuole tempo per trovare il custode e riparare la bici. Gerbi riparte alle 5.30, che è giorno.

La corsa è incredibilmente avventurosa. Le bici percorrono di notte la strada per Concorezzo, che è in condizioni bestiali. La strada è ancora dei carri. Il fondo è solcato da carreggiate profonde anche venti centimetri. I corridori, perciò, pedalano sulla banchina, la striscia sottile percorsa dai pedoni, che sfiora i paracarri, giudici implacabili di ogni ciclista distratto. E oltre i paracarri c’è il fosso, il canale, l’acqua. Il ciclista è un equilibrista sul filo. Si avanza in fila indiana. Il sorpasso è un problema. A Vimercate il gruppo si imbatte in una mandria di mucche in mezzo alla strada e i corridori devono fare lo slalom al buio, tra corna e muggiti. Quando spunta l’alba, il gruppo di testa giunge al controllo a firma di Bergamo ridotto a 39 uomini. La selezione è già micidiale. Ganna firma per primo. Il grande Petit-Breton, vincitore di due Tour, è staccato. Gerbi transita con tre ore di ritardo. A Peschiera, nel passaggio sotto la ferrovia, Petit-Breton cade e si fa male all’avambraccio destro. Stoico, risale in sella. Più avanti, però, il gruppo investe un carro trainato da una coppia di buoi e Petit-Breton cade di nuovo. Fatica a riprendere. A Verona deve essere soccorso. Ma non si ritira. Insegue, guidando con una mano sola.

In testa, intanto, c’è battaglia. Nove uomini al comando. Vicino a Bologna rientrano in quattro, fra loro Beni. Sono in tredici a giocarsi la prima vittoria. Vedono San Luca di lontano e nuvoloni neri. Irrompono in città proprio mentre si scatena un temporale tremendo. La gente ‒ tutta la città è sulla strada ‒ fugge in cerca di un portico, un androne, un riparo. Ingovernabile. Indisciplinata. In questo contesto irrompe il Giro. Un drappello di cavalieri stremati da 400 chilometri di sella, smaltati di fango. La scena è epica. Ganna è in testa. Forzando è riuscito a prendere un po’ di vantaggio. L’arrivo è all’Ippodromo Zappoli: una freccia sulla Via Emilia indica l’ingresso. L’ordine, però, è saltato. È una babele. Ganna, per le pozzanghere e il caos selvaggio, cade nella curva che immette all’ippodromo e viene superato. C’è da compiere un percorso di mille metri sulla pista dei cavalli. Beni entra in testa. Ganna è ultimo, ma rimonta. Salta nove uomini. Finisce quarto. Primo è il romano Dario Beni, vent’anni. Petit-Breton arriva con 31 minuti di ritardo. Va all’ospedale e scopre che il braccio è fratturato.

Sul primo traguardo esplode subito la polemica. Il Giro è a punti, non a tempi. In ogni tappa si assegna 1 punto al primo, 2 al secondo e così via: vince il Giro chi, alla fine, ha il minor punteggio complessivo. Il palco della Giuria, però, è stato invaso e, con i corridori irriconoscibili per il fango, i giurati riescono a identificare solo i primi cinque. Un disastro con la classifica a punti. Così i rappresentanti delle case presentano subito il primo reclamo della storia del Giro. Il traguardo è ballerino. L’ippodromo chiude alle 20, così, a quell’ora, l’arrivo viene spostato all’Osteria del Chiù. Lì Gerbi arriva alle 23, che Ganna dorme già. La sosta a Bologna dura due giorni. C’è la festa della Madonna di San Luca. I corridori fanno il bagno nel mastello di legno. Trousselier, un giocatore ‒ quando vinse il Tour nel 1905, si chiuse in un locale dello stadio d’arrivo e si giocò fino all’ultimo franco il premio-vittoria ‒ va alle corse dei cavalli. Petit-Breton, invece, si fa ingessare. Si presenta col braccio al collo al via della seconda tappa per salutare i compagni. Lì c’è anche il lottatore Giovanni Raicevich, l’uomo più forte del mondo: diventerà un simbolo dell’irredentismo.

C’è un aneddoto divertente e poco noto. La “Stampa” non ha l’inviato al Giro. Dopo la prima tappa, però, il direttore Alfredo Frassati, accorgendosi dell’importanza della corsa, manda Corrado Corradini, un giornalista di 22 anni. Corradini arriva in treno a Bologna a mezzanotte, quando mancano quattro ore al via della seconda frazione. Ci sono solo tre macchine al seguito: una per la Giuria, una per le case, una per i giornalisti. Non c’è posto sulla macchina del giornalisti. Corradini allora chiede a “Magno” ‒ così si firmava Costamagna, direttore della “Gazzetta dello Sport” ‒ ma sulla Züst della Giuria sono già in quattro e sono “taglie forti”. Corradini prega, scongiura, impietosisce Magno, che lo fa partire sulla predella della Züst. Così l’inviato della “Stampa” incomincia il Giro “outdoor”, esposto alla polvere, in bilico sulla strada. Per darsi un tono tiene una bandierina in mano, a mo’ di direttore di corsa che vuol tenere sgombra la strada. Solo dopo un’ora, grazie a un temporale provvidenziale, trova posto nella macchina, trasformata in scatola di sardine. Il primo Giro regala mille aneddoti.

In questo volume, prima del mio c’è stato l’intervento del professore Ezio Raimondi, che ha scritto un bel libro sul letterato Renato Serra. Anche Serra appare sulla scena del Giro a cavallo della sua bici Peugeot. Gli appassionati possono inserirsi in corsa: lo fanno, anzi, con un entusiasmo così temibile, che, nella terza tappa, andando a Napoli, il direttore di corsa Armando Cougnet segue i primi in auto munito di una lunga frusta, che vibra sui “velocipedastri” che si avvicinano troppo. Nella sua Romagna anche il giovane Serra, paglietta in testa, entra in gruppo. Pedala accanto a Ganna. Si complimenta con Beni. Quando si avvicina a Gerbi, però, mal gliene incoglie. Il “Diavolo Rosso”, incattivito dalla sfortuna, gli prende la paglietta e gliela butta oltre la siepe. Sei anni dopo il gioioso Renato Serra cadrà sul Podgora, colpito da una pallottola in fronte.
Anche gli animali entrano in gruppo. Dopo le mucche di Vimercate ecco i cavalli di Rimini. Alle porte di Rimini un branco di cavalli al pascolo viene spaventato dal Giro e due di loro, un sauro e un baio, galoppano in gruppo per cinque chilometri fin dentro la città.

Il Giro offre delizie. Tra i corridori c’è chi si ferma sulla riviera adriatica ad assaggiare il brodetto di pesce, chi beve l’acqua da brocche offerte da belle ragazze o chi bagna i piedi dolenti nelle onde del mare. La corsa regala fatiche e stupori. E, poi, c’è l’epos, il duello per la vittoria, l’audacia temeraria, il dramma di strada. Ci sono monti affilati come spade: sul Macerone Gerbi è l’unico a non mettere piede a terra. Sulla corsa incombe il Fato. Nel tappone appenninico Pesce si schianta contro la spalletta di un ponte e Ganna fora quattro volte. Il corridore sfida pioggia, neve e fango, la fame, la sete, la fatica. Arrivare è già un’impresa.
 

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