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28 Giugno 2012 | Racconti d'autore

L’avvocata delle vertigini

di Piero Meldini, Adelphi Edizioni, 1994 (prima puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

28 giugno 2012


Un grande esordio letterario, “L’avvocata delle vertigini” di Piero Meldini, pubblicato da Adelphi nel 1994 e ristampato nel 1999, vincitore del Premio Bagutta nel 1995. Nato a Rimini nel 1941, dov’è stato a lungo direttore della Biblioteca Gambalunghiana, Meldini ha scritto altri due importanti romanzi per Adelphi: nel 1996, “L’antidoto della malinconia” e nel 1999 “Lune”. E’ anche autore di un numero imprecisato di saggi.

Ne “L’avvocata delle vertigini” il tema è una profezia che si avvera e diventa delitto. Protagonista di questo noir apocalittico è Vincenzo Dominici, un agiografo, topo di biblioteca, che si sta interessando della vita della Beata Isabetta, copatrona della città. In biblioteca conosce Manara il bibliotecario, che gli permette di decrittare un antico manoscritto contenente un messaggio in codice dedicato alla Beata, che racconta dell’avverarsi di sette profezie apocalittiche.
Dominici si fa talmente coinvolgere da questa profezia che si reca dal giudice Bosio – dopo aver avvertito l’amico monsignor Berlinghieri – per riferirgli che sarebbe morta nei giorni seguenti una donna, e che l’assassino sarebbe stato lui stesso. Trovato il cadavere della donna, Dominici viene arrestato e rinchiuso in un pensionato per malati mentali. Dopo alcuni giorni emerge la verità. Il bibliotecario era riuscito a decifrare l’antico manoscritto prima di consegnarlo a Dominici e aveva calcolato il tempo che l’agiografo avrebbe impiegato per scoprirne il contenuto. Manara amava la moglie di Dominici e non poteva sopportarne il rifiuto; scaglia così la sua rabbia su Dominici uccidendo la povera donna che frequentava la biblioteca, poi trovata morta davanti al cancello di Dominici.

“Il romanzo si fa davvero curioso e intrigante dove riesce a mischiare, con finto rispetto e vera irriverenza, il giallo con la speculazione religiosa, la riflessione esistenziale con le bassezze del quotidiano, l’inevitabilità del delitto con l’attesa della morte. E tutto con un linguaggio nel complesso lucido, serrato e teso”, ha scritto il critico Angelo Guglielmi.

L’avvocata delle vertigini

«Di sicuro avrei continuato a indagare» confermò Bosio. «Ma al colpevole, francamente, non so se sarei mai arrivato».

Sulle loro teste il tuono crepitò all’improvviso come una salva di mortaretti. Poi si allontanò brontolando. Un colpo di vento spazzò le strade e piegò le cime dei cipressi. Dal mare accorrevano, rotolando, nubi gonfie di pioggia e d’ira.

«Sta per scoppiare un temporale» osservò il vescovo.

«Speriamo» aggiunse Bosio. «Finalmente si respirerà un po’». Pulì con cura gli occhiali d’oro di foggia antiquata. «Come l’ha intuito?» chiese.

Il vescovo inseguiva il profumo arcaico delle more. Gli pareva di sentirne scricchiolare, sotto i denti, i semi pungenti. Allargò le braccia:

«Vede, dell’autenticità del manoscritto non potevo dubitare: se due insaziabili topi d’archivio come il professor Dominici e monsignor Berlinghieri lo avevano riconosciuto genuino, non c’era bisogno di altri esami. Così come dovevo prendere atto che le cinque prove che preannunciava si erano adempiute. Che la cagna avesse o no abbaiato, poco cambiava: il marchio rosso sulla porta della cattedrale avevo ordinato io stesso di cancellarlo; dell’incendio appiccato di notte nel teatro aveva parlato anche il giornale; che la tomba fosse stata davvero profanata me l’aveva confermato Berlinghieri; una donna, infine, era morta, e il suo corpo era stato trovato davanti alla casa di Dominici ».

Con le dita magre percorreva, accarezzandoli, i bordi della croce che gli scendeva sul petto.

«Non mi intestardii a negare l’evidenza» proseguì. «Il caso non è così ostinato. La conclusione obbligata, caro giudice, era che una predizione di quattrocento anni fa si era compiutamente realizzata. A patto, naturalmente, che la donna l’avesse uccisa Dominici ».

Il vescovo si soffermò ad ascoltare il sordo tam-tam che si rincorreva per i quattro angoli del cielo.

«La profezia» scandì « è un dono raro. Ma per chi crede non è irragionevole che un uomo – degno o indegno, sano o folle – sia per un attimo, in un bivio cruciale della storia, in una piega folgorante del piano divino, la bocca del Signore. Quando una voce potente come una tromba grida alle sue spalle, com’è scritto. Allora, sì, la profezia s’avvera.

«Io, però, respingevo fermamente la profezia del manoscritto. Continuavo a domandarmi se non c’era un’altra via per la quale il vaticinio potesse realizzarsi. Una via più corta e diritta. Una via che non incrociasse il soprannaturale. C’è, beninteso. Rifletta un istante: perché un vaticinio si realizzi, basta che qualcuno, di proposito, lo adempia.

«Supponga che una zingara preannunci a lei, o a me, che precipiteremo da una finestra. Se ci getteremo di nostra volontà, la predizione si sarà attuata, non crede?».

Negli occhi acquosi del vescovo ondeggiò un sorriso. I timpani celesti rullavano vigorosamente, inframmezzati sempre più spesso da scariche di fucileria. Si comandavano, tra le nuvole, esecuzioni sommarie.

« In effetti, » continuò «tutt’e cinque le prove indicate dal manoscritto potevano essere state realizzate intenzionalmente, e senza insormontabili difficoltà. Già. Ma da chi? Il primo a cui pensai fu proprio Dominici: temevo che il fascino ipnotico della profezia lo avesse spezzato in due e istigato una parte di lui a seminare di notte i segni che avrebbero terrorizzato, di giorno, l’altra: fino a indurlo, nel dormiveglia, a uccidere».

«Pur con tutti i miei dubbi,» lo interruppe Bosio «credo che senza il suo provvidenziale intervento anch’io, eccellenza, avrei finito per rassegnarmi alla pazzia, e di conseguenza alla

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colpevolezza di Dominici. Per accettare, prima o poi, la sua confessione».

«La pazzia, lei diceva, è un paese straniero» riprese il vescovo. « Ma c’è del metodo nella follia, e non solo in quella di Amleto ».

«Una logica, intende?».

«Una logica» assentì il vescovo. «Vede, io mi figuro che la malattia sia l’ombra allungata della salute. Non un di meno, ma un di più. Creda a me, non è per il poco che sentiamo pietà, ma per il troppo. Per ciò che di troppo umano c’è nell’uomo ».

Rivedeva la faccia da Erinni della madre all’appressarsi dell’ultimo fiato. Fissava quegli occhi appuntiti e vacui dove si specchiava la ribellione delle cellule, la rivolta anarchica delle molecole, quasi assistesse alla morte di una galassia.

« Divago. Volevo dire che se la follia del mansueto è l’estrema mitezza, e del debole la totale vulnerabilità, come penso, per nessuna ragione un uomo come Dominici avrebbe potuto uccidere. Dentro di me sentivo che era innocente. Mi ritornava l’eco della sua estraneità. Mi chiesi allora se non potesse essere stato un altro ad attuare la profezia ».

Al rullo cadenzato dei timpani le rondini precipitavano, stridendo, in picchiate sempre più basse, come se il peso del cielo le schiacciasse al suolo. Il vento s’era appostato dietro la cattedrale: fermo, aspettava il segnale.

«Quest’altro, naturalmente, avrebbe dovuto conoscere l’esistenza del manoscritto prima di Dominici» . seguitò il vescovo. «Era necessario, inoltre, che avesse violato entrambe le cifrature, perché, sapendo delle cinque prove, potesse a suo modo adempierle. E infine che non solo fosse al corrente che il professore stava lavorando sul manoscritto, ma ne seguisse i progressi nella decrittazione e ne precorresse le reazioni, se, come a me sembrava, voleva che i sospetti cadessero su di lui.

«Il solo che soddisfaceva queste condizioni era chi aveva segnalato il manoscritto a Dominici. Il bibliotecario. Manara. Così ragionai. Quando fui convinto non dico che doveva, ma almeno che poteva essere andata così, le telefonai ».

« È proprio così che è andata » assentì Bosio.

Manara non dubitava che Dominici sarebbe stato capace di decrittare il manoscritto. Di venire a capo del problema che egli stesso aveva risolto molti anni prima. Nessuno sapeva dell’impresa. Non se n’era mai vantato. In fondo a un cassetto, tra gli inediti, si nascondeva un ampio rendiconto, con una mirabile appendice documentaria sulle scritture convenzionali o dissimulate. Di quella, come di altre brillanti investigazioni, sottili congetture, luminose scoperte, custodiva il segreto. Essere il solo celebrante dei misteri: questo sopravanzava ogni lode altrui. Ai libri, che licenziava con impassibile periodicità, senza rimorsi e senza nostalgie, consegnava la propria faccia -visibile. Così facevano gli antichi; questo gli avevano inse­gnato i grandi eruditi del passato – i Grevio, i Montfaucon, i Muratori, i Tiraboschi – con cui amava dialogare. La faccia nascosta, quella aguzza, rifulgeva nelle pagine accantonate; o balenava in una nota a piè di pagina, in una parentesi, in uno svolazzo intemperante della penna.

Sapeva bene quale opinione Dominici aveva di lui; che cosa si mormorava nella sua cerchia. Essere sottovalutato non gli importava, se questo gli permetteva di starsene in disparte, nell’ombra, a scrutare coscienziosamente chi lo degnava sì e no di uno sguardo distratto e borioso. Egli, invece, non sottovalutava nessuna delle sue cavie. Tanto meno Dominici. Perciò era sicuro che avrebbe individuato il secondo livello di cifratura, appreso l’annuncio del veg­gente, saputo delle prove. Aveva anche calcolato il tempo che avrebbe impiegato. Lo stesso che era bastato a lui: un po’ di meno, forse, perché l’agiografo era più tenace, o forse un po’ di più, perché non era altrettanto esercitato nei rompicapi.

Intanto ne osservava i movimenti. Da lontano. Dall’alto. Ai commessi della biblioteca aveva dato ordine di avvertirlo tutte le volte che Dominici vi metteva piede e di annotarsi scrupolosamente i titoli e le segnature dei libri che chiedeva in lettura. Non voleva pensar male dello studioso, strambo sì ma perbene, e non poteva giurarlo, disse: c’è che aveva notato delle piccole mutilazioni – qui un foglio, là una tavola – che gli sembravano recenti e che lo obbligavano a stare all’erta: « Non lo sapete? » aveva ammonito. « È proprio degli insospettabili che bisogna diffidare».

Passò il tempo preventivato. Manara, per maggior sicurezza, lasciò scorrere qualche altra settimana. Quando fu persuaso che Dominici aveva toccato il fondo della profezia, cominciò ad attuarne le prove.

Davanti alla trattoria di cui era cliente fisso gironzolava da alcuni mesi un piccolo carie randagio. A donargli quella lana mal cardata, quelle zampe storte, quelle orecchie indecise se rizzarsi o abbassarsi, quegli occhi rugiadosi, aveva congiurato un’inestricabile serie di incontri febbrili e impauriti, sui marciapiedi, tra sconosciuti. Arrivava, con cronometrica puntualità, al rintoccare di mezzogiorno, e si sten­deva davanti alla porta, come uno zerbino, ansimando per l’afa e la debolezza. Spariva alle tre del pomeriggio, per sbrigare chissà quali faccende, e riprendeva servizio, in perfetto orario, dalle sette alle nove. Per farselo amico bastarono pochi morsi di pane.

Una sera Manara se lo portò a casa. Quella notte, e le due che seguirono, il bibliotecario e il cane, che non lo abbandonava un istante, entrarono nel campo incolto che confinava con la casa di Dominici. Si nascosero in un boschetto di robinie, dietro un rovo. Manara legò il cane a una pianta e si allontanò. Lo sguardo allarmato del povero randagio si riempì di terrore: appena stretto, quel tacito patto di fratellanza già si scioglieva. Gli uscì di gola un uggiolio supplichevole, e un secondo uggiolio e un terzo, disperati; poi un pianto dirotto di guaiti e ululati. Si slanciò contro il buio, dove ancora aleggiava, come un miraggio, la scia olfattiva del padrone. Lo strattone del laccio lo fece ruzzolare. Cominciò ad abbaiare. Manara ricomparve, lo accarezzò, se ne andò di nuovo. Il balletto di fughe e ritorni, accompagnato da latrati sempre più furiosi, durò fino all’alba.

Alla fine della terza notte il cane era strema­to. Manara gli si accovacciò vicino e lo guardò negli occhi: erano miti e fiduciosi, senza nem­meno un’ombra di rancore o di ribellione. Gli passò la mano sul muso; il cane gliela leccò. Il bibliotecario non sciolse il laccio. Udiva, mentre si allontanava, i guaiti lamentosi e flebili di un moribondo.

La prima prova era stata attuata, ma chissà se Dominici se n’era accorto. Dal luogo in cui Manara stava rintanato la casa dell’agiografo si scorgeva a fatica, e le luci accese non dimostravano niente: dovevano essere molte, soprattutto negli ultimi tempi, le notti in cui Dominici vegliava.

La porta del tempio? Il bibliotecario scelse l’alternativa più semplice, né ebbe dubbi sul segno della Bestia. La sua memoria, le poche volte in cui si era compiaciuto di esibirla, aveva lasciato di stucco: anche le incisioni del Grimoire dello pseudo Onorio vi erano stampate indelebilmente, e Manara ricordava benissimo l’occasione in cui Dominici, in sua presenza, aveva sfogliato il libercolo, e la faccia schifata che a­veva fatto, chissà perché.

A notte fonda, con la vernice rossa, tracciò più in fretta che poté il marchio sul portone della cattedrale. Si chiese divertito, mentre si guardava intorno, che cosa avrebbe raccontato se qualcuno l’avesse sorpreso. Avrebbe simulato uno sberleffo anticlericale, l’adesione a una setta occulta o un gesto di follia? O avrebbe lasciato agli altri, tacendo, l’imbarazzo di spiegare? Si fermò a rimirare, da lontano, la sua ope­ra. Non era gran che, ma. Dominici non si sarebbe ingannato.

Tornò a casa che albeggiava, dopo aver camminato tutta la notte. Fece una doccia, si sbarbò, si cambiò d’abito. Ripassò davanti alla cattedrale. Le donnette delle prime messe, strette attorno al prete, commentavano desolate l’ol­traggio. Si chiuse nel suo ufficio. Mentre atten­deva Dominici, riprese a inventariare, come da mesi faceva ogni giorno, le carte di un suo dot­to predecessore: migliaia di eruditissime pagine di cui, vivente l’autore, non era stata pubblicata una sola riga; il carattere schivo, taciturno e quasi ispido dell’illustre ignoto traluceva dalla grafia microscopica, così simile alla sua.

Di tanto in tanto il bibliotecario guardava l’orologio e faceva un giro di perlustrazione nella sala di lettura. Verso le dieci, quando stentava ormai a concentrarsi sul suo lavoro e ogni passo sull’assito gli faceva alzare la testa, un commesso venne a informarlo che Dominici era appena arrivato e gli consegnò la scheda di richiesta. La segnatura era quella del Grimoire. «Glielo dia pure» disse al commesso, e sorrise, ormai certo che l’agiografo era stato preso nella sua ragnatela. Bastava tendere gli ultimi fili, al centro, e aspettare.

Prima di decidere quale fosse la casa degli imbroglioni, Manara esitò a lungo. Dar fuoco a un edificio non era un’impresa di cui andar fieri, e comportava anche dei rischi. Disastri, sulla coscienza, non ne voleva. Gli vennero parecchie idee; sulle più brillanti almanaccò per delle ore, fregandosi le mani, e un paio le scartò malvolentieri. Forzando leggermente il significato della parola simulator (ma in Ovidio, d’altronde, non valeva «imitatore»?), optò infine per il teatro comunale, che confinava con la biblioteca.

Quale presidente della locale società concertistica, carica che gli era stata elargita in perpetuo in cambio di una modesta sovvenzione annua, deteneva una copia delle chiavi. Sotto una finestra dell’atrio ammucchiò un po’ delle cartacce che marcivano negli scantinati: rotoli di manifesti ammuffiti, pacchi di vecchi programmi, giornali ingialliti. Alimentato da fiammelle tisiche e azzurrognole, si levò un fumo denso e acre, che giudiziosamente infilò, a singulti, la finestra spalancata. Il bibliotecario, tossendo, uscì di corsa dal teatro e si precipitò a telefonare ai pompieri, fingendosi un passante nottambulo. Che l’incendio, per l’amor del cielo, non si propagasse.

Tre giorni dopo, a sera, quando dopo la seconda scampanellata si chiusero i cancelli del cimitero, Manara non uscì.

Brano corrente

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