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27 Maggio 2010 | Racconti d'autore

Liù. Biografia morale di un cane

di Edmondo Berselli, Mondadori, 2009
(terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

25 maggio 2010

Rendiamo omaggio al grande giornalista e scrittore modenese Edmondo Berselli, scomparso meno di un mese fa a soli 59 anni, con la lettura del suo ultimo, bellissimo lavoro. Com’è nel suo stile ironico e disincantato, Berselli – editorialista della Repubblica e de L’espresso, e autore di libri di culto che hanno raccontato l’Italia dal miracolo economico all’oggi berlusconiano – intorno all’idea di un cane (la sua labrador nera, Liù) costruisce un sistema di pensiero che sentiamo intimamente nostro. C’è in filigrana, nella sua Biografia morale di un cane, il sentimento dell’abbandono, quasi un’abdicazione della speranza travestita da accettazione dell’ultimo baluardo “politico” rimasto: il tepore dolce, filosofico e deliziosamente poco progressista, della pancia calda di Liù su cui appoggiare i piedi scalzi, in una serata in cui sono radunati gli amici più cari.

Cap. XI
L’universo morale di Liù

Sicché spesso ci interroghiamo sulle cose ultime, sull’ani­ma, gli odori e l’animalità, e la domanda è sempre la stes­sa: alla fine, la Liù è buona o è una carogna? Possiede una impalpabile inclinazione al bene, oppure incarna un puro orientamento istintuale senza valori? Da parte mia, pro­pendo difilato non tanto per una specie di neutralità mo­rale, quanto per una incoercibile carogneria, iscritta diret­tamente nei cromosomi. Dico questo perché, fra l’altro, non mi piacciono i cani idealizzati, non mi va giù il Canis ange­licus, e se si tratta invece di bestie un po’ nature, selvatiche quanto occorre, è meglio.

A me piace quando la nostra bestiaccia «fa» il cane, di­mostrando di possedere il peccato originale del cane, l’im­moralità oscena del cane, e, per esempio, si getta a terra e solleva la zampa per farsi grattare la pancia, o si gratta vi­gorosamente un orecchio con la zampa posteriore, oppure sbadiglia con l’apertura smisurata delle fauci e un soddi­sfatto mugolio finale, nonché quando si lecca il didietro e la patata con tutta la compunta professionalità di una fem­mina adulta, senza i pudori eburnei delle vergini cucce.

Queste sono soddisfazioni. Ma, nello stesso tempo, ci si rende conto che, nel rapporto con gli umani, era tutto vero ciò che raccontavano Beppe Preti e la Rosita. E cioè che, alla lunga, il labrador matura un atteggiamento caratteria­le prioritario, il cui scopo principale consiste nello schema «compiacere il padrone». Tutto ciò dipende da una quanti­tà di fattori in gioco e di variabili esistenziali, a cominciare dall’età e dalla maturità di carattere. Argomento scottan­te, su cui non esiste la minima sintonia di pensiero. Vole­te un consiglio serio, in materia, sui tempi, le stagioni, i ci­cli di crescita, la formazione del carattere? Non chiedetevi mai, e non chiedetelo mai a nessuno, quando il vostro cane. raggiungerà l’età della ragione. Vi diranno due anni, due e mezzo, tre, numeri a caso. Sono tutte favole, estenuate indicazioni che affondano nella mitologia. Il cane matura quando gli pare.

E, da parte sua, il cane se ne frega. Immaginate sempli­cemente un periodo, lunghissimo, in cui la Liù è zuccona, testarda, ostinata, cocciuta; e uno successivo in cui queste caratteristiche si attenuano, senza mai scomparire del tutto, e i manuali cominciano a parlare con libresco ottimismo di un cane equilibrato e socievole (salvo ricadute, in cui suc­cede anche di divertirsi a ritrovarla, lei che ormai dovrebbe essere così grande ed equilibrata, assurda e istintuale come la più scema delle cucciole).

Ma, d’altronde, se un cane non fa il cane, che cane è? Che carattere avrà, se non scappa all’impazzata per rincorrere un vecchio bastardone di diciannove anni, un matusalem­me che, per lo spavento, si arrovescia per strada a pancia all’aria, pronto a immolarsi non solo simbolicamente di fronte a quella belva nera apparsa sopra di lui all’improv­viso con la ferocia di un cavaliere medievale, che in realtà vuole solo prenderlo a colpi di naso e frugargli il vecchio, adusato pisello alla ricerca del tempo perduto?

Se non fugge per i prati, anche di prima mattina, a cac­cia di ossi e carcasse che sarà un’impresa strapparle via tra smorfie e urla di ribrezzo, molla queste schifezze, molla, molla il topo morto, brutta deficiente. Se non si getta in ca­duta libera e precipizio folle giù per l’erta del bosco perché ha usurato la traccia di un capriolo, che ce ne facciamo del cane, e da riporto per giunta?

Tanto più che, un paio di volte, li incrociamo davvero i caprioli, e un pomeriggio perfino un camoscio imponente, lassù, poco più in alto, verso le conifere, che urlava qua­si con un fischio di gola, stanato da lei a collo alto e a te­sta imperiosa, proprio come una furibonda dea della cac­cia, irata con l’intero regno dei camosci e degli stambecchi e di tutti gli ungulati superiori e inferiori, perissodattili e imperissodattili.

L’abbiamo anche varata in acqua, in un civilissimo ba­gno animalista di Rimini, ed è stata un’esperienza istrutti­va per noi, cioè per il nostro apprendimento. La tenevamo per prudenza al guinzaglio, memori che, secondo un truci­do racconto di Alberto Melloni, la prima volta in acqua in un laghetto dell’Appennino reggiano, per la brillante Clic­quot il varo si era risolto quasi in un annegamento, splash, aiutt!, alla faccia della naturale acquaticità del labrador e delle sue decantatissime zampe palmate.

Sicché davanti al Grand Hotel prediletto da Fellini, in una mattinata da Amarcord, ci si divertiva a vedere il suo imba­razzo, quasi il timore, il petto che si sollevava di sospetti ansiosi di fronte all’ondina che arrivava verso la battigia, cioè quella striscia di spiaggia che in un celebre discorso del giugno 1943 Mussolini portò a gloria sempiterna, indi­cando l’atteggiamento strategico da tenere contro gli Allea­ti in procinto di sbarcare in Sicilia: «Verranno congelati su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga!». Ma va’ là, pataca, il bagnasciuga! Vai a raccontarlo agli ameri­cani! Per forza, poi, lo sanno tutti che sono stati i romagno­li a fare i danni peggiori alla patria, due tipi pelati con gli occhi strabuzzati e sbruffoni: uno, quello di Predappio, ha rovinato la nazione, l’altro, quello di Fusignano, per fortu­na si è limitato a scassare la nazionale.

Qualche passo più avanti, con l’acqua che appena si alza, finalmente le zampe non toccano più e restano sollevate, e cominciano allora a muoversi, dopo un istante di sorpre­sa, nel classico nuoto dei cani, e via allora follemente fino a un pallone colorato, fino a una boa che sembra una pal­la a spicchi, fino a ogni traguardo possibile, marino e cele­ste insieme, un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più, sì sì, niente di più.

E allora qui viene il momento di affrontare il problema etico, ossia se il Cane, nel suo sistema panico e mitico-ma­gico, nelle sue percezioni semplici e ramificate, possegga idee di valore, abbia conoscenza o vaga percezione di nor­me morali, segua linee ascendenti di virtù, sia guidato dal vettore di un suo karma che lo porterà a interi cicli di rein­carnazioni, ovvero se non sia invece immerso fino al collo in un gorgo di oscure sensazioni e meccanismi vitali feri­ni, affogati nella cieca oscurità di una natura priva di qual­siasi finalità.

Orbene, confesserò. Io non credo nel Buddha, non in Siddharta, non credo in templi e colonne da costruire e ab­battere nove volte per la volontà del tuo maestro, non credo in universi olistici dove tutto interagisce con tutto e dove la vita di una scimmia babbiona può avere un legame con la salvezza dell’umanità; e penso inoltre che gli scrittori tede­schi come Hermann Hesse, che si sono dedicati all’ultrau­mano e all’ineffabile, abbiano recato seri danni a intere ge­nerazioni che si sono fatte idee precarie sulla spiritualità new age, consumando fin troppi incensi e candele.

Con tutto il mio buon cuore così spalancato alla bellez­za del non umano, e con una certa simpatia anche per gli umani stessi, almeno nei momenti di buonumore, appar­tengo alla categoria degli scettici totali. Come antidoto alla bontà, mi torna sempre in mente ciò che disse il grande re­gista Fritz Lang, l’autore di un film totalitario e agghiac­ciante come Metro polis: «Il fatto è che per comodità abbia­mo chiamato buoni i cattivi, e cattivi i molto cattivi. Tutti i problemi nascono qui».

Del resto, anch’io faccio l’equilibrista sul crinale dello scetticismo, benché sia affezionato a una nozione modera­ta della trascendenza. Mi auguro davvero che avesse ragio­ne l’amletico papa Montini, quando diceva che alla destra del Padre, nel giorno del giudizio, rivedremo nella gloria di Dio i «nostri» animali. Ci sarebbe soltanto da intendersi su quel possessivo «nostri», parola ermeneuticamente for­tissima e ambigua. Nostri perché appartenevano alle no­stre case, alle nostre famiglie, alla nostra comunità? Nostri perché hanno accompagnato la specie umana con la loro domesticità mansueta, rallegrando la vita di tanti di noi, nelle caverne come nelle più losche trattorie e nelle più ele­ganti magioni? Nostri perché ci sarebbe forse un principio di convivenza implicito nella creazione, di cui siamo tut­ti partecipi, ognuno con differenti scintille di divinità, con anime dotate di sfumature diverse, ma forse intrise di una sostanza non dissimile?

Ahi, quanta metafisica, quali ipotesi indimostrabili! Nel caso di Liù, animale effettuale e non animale teologico, sono convinto che, al pari di tutti i suoi simili, non possegga la minima traccia di un senso morale. Ignora sovranamente che cosa sia la colpa. In lei non c’è nessuna bilancia di giu­stizia cosmica fra pensieri e azioni, fra concetti, gesti e con­seguenze. Tutto ciò che fa è dovuto al suo completo ego­centrismo, alla radicale volontà colonizzatrice e ricattatoria di approfittare delle debolezze altrui, al piacere di rubar­ti un bocconcino di pollo, alla possibilità di far cadere dal­la tavola due etti di prosciutto San Daniele della premiata salumeria Giusti di via Farini – centro di Modena, di fron­te al palazzo Ducale, vecchia e insuperata boutique del gu­sto cittadino – e farli fuori in pochi istanti carta compresa, in una esaltante e furibonda strage alimentare.

Dov’è Liù, e dov’è finito il prosciutto? Lo sa lei dov’è fi­nito! Guarda le quattro leccate collose e umide con cui ha concluso il festino, con gli occhi che si girano all’intorno colpevoli e innocenti insieme, ma, tutto sommato, ridenti, come succede alle belve soddisfatte.

Nella casa monzese dei coniugi Preti, di fianco alla spal­letta del Lambro, la gentile e timida Ombra riuscì a far fuo-ri ventuno cotolette fritte, che aspettavano di essere passate in umido secondo la pesantissima ricetta della tradizione modenese, proprio alla vecchia maniera geminiana, e ne risparmiò la miseria dì tre, soltanto perché erano finite na­scoste sotto il coperchio. Stette sdraiata sulla pancia per tre giorni, con un’espressione di sofferenza allo stomaco che non riusciva a nascondere un brillio di bestiale gratificazio­ne negli occhi inevitabilmente intorpiditi da una digestio­ne complessa fino alla mostruosità. Poi si rialzò, si stirò a lungo e cominciò a cercare qualcosa da bere; subito dopo,  qualcosa da mangiare.

Brano corrente

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