26 agosto 2010
“Cesare Perdisa, il più veloce pilota su strada di tutti i tempi” così ebbe a dire Mauro Forghieri, indimenticabile progettista di tante Ferrari vincenti. Però, soffermarsi soltanto sulle eccezionali doti di driver del bolognese, tra i più giovani debuttanti in Formula 1 di tutte le epoche, sarebbe riduttivo. Egli, infatti, fu viveur, play boy, giocatore, scommettitore a tempo pieno e imprenditore di successo. Tutti lo ricordano per le sue gesta goliardiche, la sua generosità ed il divertimento che profondeva a piene mani. Attraverso questo libro si ripercorrono le tappe più significative della sua vita che fu ad un passo da un romanzo.
Maurizio Messori (Bologna, 1949) ha al suo attivo numerosi articoli e libri d’arte. Negli ultimi anni si è cimentato in biografie di campioni delle due e quattro ruote. Sue sono le biografie di Umberto Masetti, Tarquinio Provini, Odoardo Dino Govoni, Alfonso de Portago.
PROLOGO
Fotografia in bianco e nero. Schizza fuori un’auto che percorre a tutta velocità la mia immaginazione. L’aggredisce fino a tramortirla. È una Maserati, ha un colore indefinito per non farlo affievolire nel film della memoria, porta un numero importante stampato sul cofano e sulle portiere: 547. Mille Miglia, il concorrente è partito alle 5 e 47 minuti, quindi. Lui è Cesare Perdisa da Bologna, nel nome riposa il suo destino. Un suo omonimo predecessore fu console, lui condottiero di macchine ardite. Ora, che la foto pare vuota, leggo sul retro la data: aprile 1956. Il dio della pioggia ci ha messo lo zampino al punto che le mie mani sono bagnate. Fa niente o fa molto. Perdisa ha concorso a creare la storia dell’automobilismo e quella della mia città, turrita e opulenta, forse anche disperata. Senza di lui Bologna sarebbe meno Bologna, i locali avrebbero avuto un avventore in meno e molta noia in più.
Il tridente Maserati, divenuto modenese, e quello del Nettuno, rimasto graniticamente bolognese, risulterebbero meno gravidi di storie sorprendenti da raccontare,
perché quando un uomo traduce in giorni, quindi in ore, quindi in attimi, la propria esultanza di vivere, contagia i più fino a renderli partecipi. Cesare era un pilota sui generis, forte e generoso, con un bagaglio di difetti che si portava appresso con disinvoltura, anzi: ai conoscenti li faceva apparire pregi. Era un prestigiatore di casi della vita e di sentimenti. Tirava fuori dal cappello dubbi che diventavano certezze, interrogativi che si tramutavano in sonanti esclamativi. Però andava forte, per dio. Sfidava la dinamica piegandola ai suoi voleri; le curve, i rettilinei, i perigliosi tornanti erano note da intonare e urlare. Paura? Tanta, non per lui che la mandava a quel paese, ma per i suoi amici e parenti che facevano ripartire i loro cuori appena arrivava sano e salvo. Quasi. Accelerare, ecco sì, occorreva accelerare per fare ingoiare ai carburatori aria quindi ossigeno che sarebbe dovuto bastare per interi chilometri da mangiare, ruminare, digerire. Poi la vita di tutti i santi giorni sempre uguali e sempre diversi, buontempone, giocatore di carte, fabulatore di notti che non si risolvevano in albe, perché
tragiche e banali. Ecco, sento un rombo che si avvicina alla mia camera, questo deve essere un tremila, mica balle, con tanti di quei cilindri da umiliare motori poco dotati, smunti finanche anemici. Si avvicina e fa tremare tutto, è un tuono e un fulmine, una certezza e un forse. Entra senza chiedere permesso, si riposiziona nella fotografia perché è li che deve stare per sempre. La storia lo rincorre.
PRIMA SCOMMESSA
Percorro le colline che devo aggettivare con “dolci” per essere più poetico e romantico, tuttavia “dolci” lo sono davvero, se le si intendono come una riposante cornice della mia città, che sa di smog e vapori che avvelenano la ragione. Qui, nei torrenti e nei fiumi che solcano, graffiando, questi pendii non scorre acqua ma Sangiovese o Albana o tutti e due insieme purché la volontà di Bacco sia fatta e con essa la religione del vino e dell’ebbrezza. Ho un appuntamento con Alberto, figlio di Cesare, che abita un luogo dove gli gnomi e le favole si inseguono creando la realtà, quella meno dura da accettare. Notte solitaria come tante, luna e poche stelle mi indicano il buon cammino, mentre la mia auto arranca su per queste salite che diventano improvvisamente discese e poi ancora salite e poi ancora… L’ultimo libro che scrissi riguardante un pilota automobilistico fu quello intitolato e dedicato ad Alfonso de Portago, nobile nel sangue, ancor più nobile nei gesti e nelle gesta. Là, la Spagna con i suoi olé e la paella, qui, l’Italia, l’Emilia, le mie radici che sono quelle dei Perdisa, con la sua calma e i suoi tortellini. Quale scegliere? E perché mai occorre scegliere?…
Penso all’intervista che di qui a poco farò ad Alberto; tutte le volte che parlo con un parente prossimo di un campione sale in me una sorta d’ansia, un che d’indefinito e indefinibile che mi stimola e mi frena. Salgo queste strade strette e tortuose, avamposti di una Toscana la cui geografia parla un’altra lingua però simile per severità e avvenimenti alla mia regione. Non lontanissimo c’è la Futa con i suoi ricordi di bronzo che si chiamano Biondetti, Masetti, Nencini. È, questo passo, un’università per temerari a due e a quattro ruote, lo è stata anche per Cesare che qui visse momenti sportivi da non dimenticare, quando magari di giorno c’era un caldo infernale e di notte un quasi freddo da maledire. Poi, passare primi sulla Futa significava passare primi nel cuore degli appassionati, traguardi della mente e di un intimo io. Alberto mi ha detto che per arrivare alla sua residenza occorre deviare a sinistra tralasciando un’impervia salita che pare porti, dritto dritto, in paradiso, di sicuro più vicini alle stelle. Eseguo il suo gentile ordine e infatti scarto a sinistra. La mia auto sembra ringraziarmi per averle risparmiato una fatica improba. Poi a lei di un eventuale paradiso cosa può importare, se finirà i suoi giorni in un cimitero di macchine senza preghiere e senza amen? Ecco, sono arrivato. Adesso sì, adesso l’avventura ha inizio. Ma da dove?
TERZA SCOMMESSA
Chiesa situata nel pieno centro di Bologna. Una signora, appartata, ha in mano un rosario ed è inginocchiata. Prega a bassa voce, prega e ogni tanto guarda l’altare. È una donna ancora giovane, sguardo assorto e sofferente. Oggi, Anno Domini 1954, un pilota che di nome fa Cesare e di cognome Perdisa partecipa a una gara importante. È in Belgio, terra lambita dal Mare del Nord, pianure che finiscono in orizzonti audaci, convivenze di lingue differenti; di lì a pochi anni il Congo e il Ruanda non apparterranno più a questa nazione. SpaFrancorchamps, circuito che va interpretato con il cuore al minimo e il motore al massimo, pista da percorrere con un pensiero solo, qui più che altrove: arrivare comunque, qualunque sia la posta, perché non c’è pilota, brocco o sublime, che non abbia lasciato la propria firma su questo asfalto pieno d’incognite e di fascino. E di insidie. Perdisa vi partecipa con una Maserati prototipo. Occorre salutare il re, bisogna tenere alto il patrio onore, l’Italia è culla ben più vasta del Belgio per quanto riguarda il numero di piloti di razza. Cesare ha passato
quasi tutta la notte a giocare a carte con alcuni colleghi e ha vinto. Ha fumato e strafumato, bevuto quel tanto che gli ha permesso di mandare al diavolo i suoi freni inibitori, se mai ne ha. Poi, una giovane bionda gli ha fatto compagnia tutta la serata che diventa, in men che non si dica, nottata. Di lì a poco l’alba spazzerà il buio. Ma lui non ha sonno, e poi se si sdraierà sul letto non lo farà certo solo. Infatti, alcuni avventori lo vedono salire le scale con la bella di turno, che la mattina seguente diverrà la ex di turno.
Ore otto, un cameriere bussa alla porta: «Signor Perdisa, la colazione è pronta». Cesare si sveglia di soprassalto, ha al fianco la ragazza che ancora dorme. Si alza, si lava, si veste, non la sveglia, sbadiglia scendendo lentamente le scale. Due ore di sonno sono davvero poche. Immerge le sue occhiaie nel caffè, sbadiglia ancora e accende la sua prima sigaretta. Dopo ne seguiranno novantanove. Scatarra perché ha la trachea intasata come un tubo di scappamento otturato. Maledice il tabacco seguito da un chi se ne frega. Si dirige verso il parco chiuso dove dormono le auto che fra poco sfideranno le leggi della fisica. Sono belle, sono tante, sono macchine da desiderare per poi possedere. Sale sulla sua auto nata a Modena, è potente quanto basta per dare la paga al vento, quindi si dirige alla partenza. Non è in forma per niente, ma la sua giovane età lo aiuta. Anche la temerarietà, però. Intanto, la signora che prega a Bologna è quasi alla fine del suo rosario, che tiene dolcemente fra le mani.
Scenari monotoni e da inventarsi danno un’ebbrezza a lui conosciuta e desiderata. È un perfezionista ed è anche inventore di situazioni improntate alla non-noia, detestabile a volte, da schivare sempre. Poi… poi un colpo sordo lo desta da questo stato di grazia, la Maserati tossisce, si ribella e fa intendere di essere ammalata, fino a fermarsi per essere ricoverata. Cesare impreca, alza i pugni al cielo, forse bestemmia, ma non ne sono sicuro. Accosta a destra, forse a sinistra. Non occorre spegnere il motore perché questo lo ha fatto da sé. Scende, accende una sigaretta mentre vede gli altri corridori passargli vicino, ma proprio vicino, al punto che quasi può toccarli.
Per oggi la gloria è rimandata. A mille e cinquecento chilometri di distanza la signora Jole, la madre di Perdisa, esce dalla chiesa nella quale si era rifugiata ringraziando Dio per averle accordato la grazia di fermare il figlio a qualunque costo. Cesare lo saprà solo più tardi perché se lo sapesse subito…