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12 Febbraio 2015 | Racconti d'autore

Il bar dei cinesi di via Bentivogli

Racconto di Francesca Mazzucato tratto dal libro “Bologna Segreta. Luoghi, storie e personaggi della città” (Bologna, Historica edizioni, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Se la città cambia pelle ogni giorno, non bisogna temere di guardarla per quello che è. Con questa intenzione la scrittrice Francesca Mazzucato è partita per il suo percorso nella Bologna di oggi.

Bologna conosciuta e attraversata a piedi, Bologna sentita col tatto (spesso mi scopro ad accarezzare i muri, la pietra a vista di certe facciate), Bologna intesa come un corpo, in un viscerale, vivido percorso seguendo il reticolo delle vene e delle arterie, il sangue e il fluire. Eccomi in un luogo singolare, fra specchi e arredi rosso fuoco. Parto da qui, prendo appunti in un quaderno dalle pagine candide con una tasca per contenere i reperti, i ricordi, le scoperte, i piccoli e grandi indicatori, un quaderno stupendo, ispirante, comprato ieri, al volo, aspettando un treno.

Da un luogo di transito a questo bar, che non assomiglia a niente di quello che ti aspetti in un bar di periferia. Di solito chiudono presto, di solito sono arredati in modo abbastanza sciatto, oppure all’antica con tanto legno, o ancora, se ti spingi quasi dentro porta, sono pretenziosi. Qui ci si immerge fra rosso, fòrmica, plastica, specchi, panini a tutte le ore, paste buone anche di sera, ma devi imparare subito una regola fondamentale: si paga prima.
Tu ordini un cappuccino, una pasta, un succo di frutta, domandi alla ragazza cinese dai lunghi capelli e gli occhiali tondi se ci si può sedere, lei dice sì, certo, e tu andresti a sedere e pagheresti dopo, tanto sai che non scapperai, e non ci pensi proprio a scappare dal bar, entri per restare e scrivere, sei abituato così e fai l’errore, nella Bologna contemporanea, di pensare che, come un tempo, i bar, come le osterie o i locali di intrattenimento, abbiano conservato liturgie simili, che non si sia scivolati in una strana terra straniera che per appartenerci fino in fondo va conosciuta.
La cinese scosta appena il ciuffo dei suoi lunghi capelli e te lo spiega in un attimo, prima si paga, poi ci si può sedere. Non ci sono alternative, si paga, anche se il cappuccino non è pronto e tu al tavolo non hai ancora appoggiato la giacca sulla sedia, tirato fuori il quaderno e l’ereader. Paghi e poi sei a posto, autorizzato a tutto, e se vorrai un altro caffè, una grappa, un crodino, un negroni, una pizza al taglio pagherai ogni volta e ogni volta ancora.

La prima volta ti secca e pensi che non ci tornerai più, invece ci torni eccome perché è l’unico bar della zona, o uno dei pochissimi che alle 19 e 30 non chiude, velocemente, lasciando Cirenaica e Massarenti vuote di vita e di locali, in quell’orario fra l’aperitivo e la cena che soprattutto d’inverno richiede conforto. Cominci a famigliarizzarti con l’arredamento tutto rosso, con le foto in bianco e nero, e pensi che non è poi così male, decidi che non puoi tagliarlo fuori, impari a pagare all’istante, capisci che se paghi ci puoi restare anche cinque ore, non ha alcuna importanza, nessuno farà più caso a te che leggi o scrivi o bevi un caffè, una Coca Cola, che osservi e fotografi, per due o tre ore.

È cominciata così, la scansione dei miei pomeriggi con lunghe soste nel bar situato accanto a una sezione (si chiamano ancora così?) del PD. C’è anche l’unica tabaccheria che ha resistito fra quelle della zona e ci sono alcune botteghe e un ottico spesso deserto, emblemi del momento di crisi delle botteghe e dei commercianti, non solo nelle strade del centro, ed è una laterale di via Massarenti che porta in un quartiere di Bologna, la Cirenaica, a lungo noto per via dell’Osteria da Vito e per la casa di Guccini.
Anni fa. Molti Sembrano remoti brandelli, coperti dalla polvere del tempo.

Vista dal bar dei cinesi di via Bentivogli, la Cirenaica, la città, le botteghe, le storie delle varie sezioni di un partito un tempo egemone, la stessa via Massarenti, tutte queste realtà a lungo centrali, assumono una diversa prospettiva, il bar è interesssante per l’umanità che entra ed esce, per i momenti di vuoto, per i silenzi e i passanti, che entrano, siedono, si riposano, si riparano dal freddo, consumano qualcosa di rapido. Il resto fa parte di un’identità importante ma già stretta.

Siamo a Bologna, è Bologna senza dubbio, la città cambiata, la città dalle periferie in espansione anni fa, dove qualcosa un po’ si è bloccato. Qualche bottega chiusa, qualche negozio venduto, disillusione degli abitanti, file interminabili alle casse automatiche della vicina Coop, casse che nessuno, dentro il supermercato, ama. Nuovo e vecchio cominciano a conoscersi con reciproci dubbi e diffidenza, sono arrivati molti nuovi cittadini che tengono i bar rossi fiammanti aperti nelle sere di nebbia e diventano i gestori dei rifugi provvisori, rilevano i bar dei bolognesi che si sono stancati e impongono le loro regole. Paghi prima e poi resti.
Puoi guardare la tivù o scrivere, è lo stesso.

Si percepisce una certa vaghezza, e non è sgradevole, vaghezza delle lingue che si parlano (italiano, arabo, cinese, dialetto-poco), vaghezza di quello che si vuole ordinare (hanno sempre paste e panini freschi o li fanno sul momento e questo va contro ogni aspettativa) e una complessiva vaghezza esistenziale che è proprio quella che vado a cercare. Pagare prima, comunque, resta una legge universale.
Si sono adattati tutti i cittadini, un po’ affaticati dalla crisi, un po’ più stanchi, un po’ disillusi, cittadini che stanno volentieri nelle periferie di una città che non è ancora la tanto attesa e desiderata “città metropolitana” che è stata progettata, pensata da anni, ma lo diventa per una forza tutta sua, in barba a ogni progetto costruito a tavolino. Da qui, dal bar dei cinesi nei miei pomeriggi di osservazione lo noto. È già una città globalizzata, il bar rosso fiamma col bel quadro di Marylin potrebbe essere a Lione o a Barcellona, nonostante la voglia di dare un carattere all’arredo, è una questione di vuoti e di pieni, una questione di liturgie, smagliature, esigenze diverse.

Raccontare questa città è difficile, una bella sfida, penso, e annoto questa riflessione sul mio quaderno. Il rapporto con la città dove nasci è sempre diverso con quello delle altre città che scegli, l’ho già scritto e ripetuto ma lo scrivo ancora perché per un attimo nel bar dei cinesi mi sento come nel mio caffè d’angolo in Langstrasse a Zurigo e come nella mia brasserie preferita della rue Paradis a Marsiglia, non c’è nessuna reale differenza se non questa percezione di somiglianza nelle sensazioni e di quanto, noi che guardiamo influenziamo i luoghi, il modo di percepirli. Io che ci sono nata, amo cercare questa spersonalizzazione, questo straniamento necessario, ma lo cerco anche in altre città, mi piace abbandonare il peso e la trama della mia storia personale e semplicemente lasciarmi andare. Forse, chi viene a Bologna vuole andare a vedere la fontana del Nettuno. Forse. Ma chi vuole capire Bologna (e per volere questo c’è bisogno di uno sguardo ampio e di un grande amore per questa città grande come Nizza e come Zurigo, senza mare e senza lago, così poco metropoli in passato, così ibrida oggi, così “degradata” secondo alcuni, solo cambiata, con quella componente di ignoto che porta con sè ogni cambiamento, secondo me) deve fare uno sforzo in più.

C’è tanto passato che mi arriva addosso, anche solo squadrando uno scorcio della Cirenaica, ci sono tutti i miei anni, i sei, i quindici, i ventidue, stratificazioni, detriti, immagini nostalgie, respiri. Ogni angolo parla al passato, all’imperfetto, al futuro anteriore. Certe declinazioni sono più rare altrove.
Ascolto lo spazio urbano declinarsi in vari modi, sembrano quasi delle capriole.
Non somiglia alla città di quando ero bambina. Neanche a quella di cinque anni fa. Si sgretolano certezze, se ne trovano altre, i colori si fanno più luminosi nelle parti periferiche e inaspettate di una tela ancora tutta da comporre.

“Così l’esotismo che è sempre stato un’illusione, diventa doppiamente illusorio nel momento in cui viene messo in scena, e le stesse catene alberghiere, le stesse reti televisive imprigionano il globo, per offrirci la sensazione che il mondo è uniforme, uguale dappertutto, e che a cambiare sono solamente gli spettacoli, proprio come a Broadway o a Disneyland” scrive Marc Augé nel suo libro Non luoghi, ed è vero, a volte consolatorio ma vero, a volte disperante. Alla fine la mappa distintiva può essere solo individuale?
Costruiamo idee, aspettative, speranze, destinazioni e intorno luoghi di approdo e luoghi di perdita. Il bar dei cinesi di via Bentivogli a Bologna è un luogo di approdo ma sono certa della sua capacità di trasformarsi facilmente in un luogo di perdita, di perdita di tempo, di spazio, di coordinate, un luogo di turbolenze di qualche tipo, di appuntamenti necessari, di tentazioni, di sguardi veloci e intimiditi, o pervicaci e invitanti. Come tanti posti simili dove ho passato o perso un po’ di tempo, momenti fondamentali che ricordo a Parigi, vicino alla Gare du Nord, in brasserie senza storia, con un quaderno e tanti grovigli dentro di me, tanti dolori lasciati alle spalle, tanto caos destinato ad accompagnarmi, ecco, il bar rosso fiammante dei cinesi di via Bentivogli è come un bar nei pressi di Gare du Nord, è un bar adatto a un momento di tregua, un bar-rifugio, un bar che ti lascia stare, che ti lascia essere senza nessuno.
Questo può essere un segno che Bologna ha finalmente superato quella condizione di “medium size town” che l’ha condannata e protetta per tanto tempo, troppo. O può essere solo un caso, il caso di uno strano bar a orario quasi continuato, fuori porta San Vitale, come si diceva una volta. Quando fuori porta e dentro porta erano vere linee di demarcazione, frontiere urbane e umane molto precise.

Brano corrente

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