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17 Maggio 2012 | Racconti d'autore

Debite proporzioni

di Andrea Menetti, MUP (Monte Università Parma) Editore, 2012. Seconda puntata

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

17 maggio 2012

Andrea Menetti è nato a Bologna nel 1968. Ha curato il carteggio di Renato Serra con Luigi Ambrosini (Mio carissimo, MUP 2009), una raccolta di scritti di Ezio Raimondi (La stagione di un recensore, MUP 2010), un’antologia delle riflessioni dedicate da Antonio Gramsci a giornalismo, editoria e letteratura (Il lettore in catene, Carocci 2004) e, con Giovanna Delcorno, ha ricostruito la storia della biblioteca personale di Antonio Ungar, bibliofilo e allievo di Giovanni Pascoli (Un lettore marginale, Pàtron 2004). Debite proporzioni è il suo primo romanzo.
“Debite proporzioni – scrive nella prefazione Ivo Iori – (…) che ci invitano a vedere in queste pagine di Menetti echi di D’Arzo e del primo La Capria, ma pure di un certo Parise e di quell’aura ‘magica’ del realismo bontempelliano. Non c’è dubbio che una certa atmosfera sospesa, interrogativa, sfuggente nel voler celare, per un velato e profondo pudore esistenziale, alcuni passaggi della vita del protagonista Umberto Redondi, è consonante a diverse pagine di quello straordinario racconto che è Casa d’altri di D’Arzo. Così come una certa variazione di sentimenti, tra una sfumata realtà (un mondo dai contorni incerti, quasi, come mi ha confessato l’autore, fosse “una fotografia messa a bagno nell’acqua”) e un trasfigurato passato di ricordi affioranti – variazione che spinge Umberto Redondi a una più piena adesione alla propria vita – sembra proprio ciò che al pari anima il protagonista del Giorno d’impazienza di La Capria”.

Umberto Redondi si incamminò lentamente verso la corriera, individuata con una certa facilità. Aveva avuto fortuna: l’attesa non sarebbe durata che venti minuti, mezz’ora forse, come gli disse una donna con il viso avvolto in un fazzoletto scuro, per proteggersi dall’aria che si stava levando. Era scomparso, il sole, cedendo a una luminosità grigiastra che favoriva qualche brivido lungo le braccia, alla base del collo, per poi correre giù lungo le gambe. Guardò l’orologio con impazienza, cominciando a battere i piedi. Mancava poco alle 13. Non pensava a nulla tranne che a proteggersi, anche lui, dalla temperatura che era, definitivamente, cambiata. Si avvicinò alla corriera in cerca dell’autista, scorgendolo in un giovane con i capelli allisciati all’indietro. Era a capo chino, intento a sistemare delle carte.

«Senta…»

Il giovane non si mosse. Biascicò qualcosa, di sotto in su, che nelle intenzioni avrebbe dovuto corrispondere all’orario di partenza.

«Senta, scusi…»

La voce di Umberto Redondi, ora, si era fatta meno titubante. A quel punto l’autista si levò, mostrando un volto tirato, pallido, in evidente contrasto con il pellame nero del giubbotto che indossava. Lo guardò torvo, con un interrogativo imperativo, rimanendo comunque inclinato verso la manciata di fogli che stava maneggiando. Non era diverso dai volti anonimi – d’altronde, era anonimo anch’esso – incontrati e visti quasi per la prima volta, come qualcosa di omogeneo, qualche decina di minuti avanti. Riuscì però a ottenere quello che cercava: un comodo approdo per proteggersi dal freddo. A quel punto, salì anche la donna, con un viso dai tratti eleganti ma la cui bellezza aveva l’aria di non essere mai sbocciata. La compagna di viaggio dimostra- va una cinquantina d’anni, e si era seduta, con discrezione, giusto in fondo, quando mancava oramai poco più di un quarto d’ora alla partenza. Umberto Redondi aveva strette le braccia una con l’altra, afferrate appena sopra il gomito. Ancora la temperatura non era salita. Nel silenzio ovattato – l’autista, intanto, lo si intravedeva sul marciapiede, chiuso nel suo giubbotto scuro, intento a fumare – il pensiero era quello di ripetere qualcosa di noto. Finse di guardare altrove, cercando con gli occhi un appiglio qualsiasi, e per farlo si era messo in piedi, dalla fila centrale; ora, dopo un colpo ai pantaloni, in cintura, ed essersi rovistato nelle ta- sche, si era vòlto del tutto: di fianco, gli appariva la fila dei finestrini, così tagliati dalla luce che, al di fuori, non era possibile scorgere nulla. Rimaneva invece lei, una figura appiattita, china a guardare qualcosa che forse era tenuto sulle ginocchia. Più che una attesa, sembrava un raccoglimento religioso nel quale transitavano, in mescolanza, passioni e richieste, confessioni e giuramenti: quegli atti che portano lo stomaco a stringersi e il busto a piegarsi proprio nella posizione che Umberto Redondi, ritto quasi fosse di sentinella, vedeva adesso. Rifletté se avvicinarsi alla donna oppure rimanersene tranquillo lì dov’era, mentre nel trascorrere dei minuti l’autista aveva avviato il motore e chiuso lo sportello anche dal lato passeggeri. Nessun altro aveva scelto, dunque, di viaggiare insieme a loro.

Tuttavia, non vi fu occasione di contatto alcuno. Il mezzo si avviò, pompando il calore all’interno e alleviando, così, il senso di disagio provato sino a quel momento. Umberto Redondi guardò l’orologio, alzando leggermente il polso per incontrare una bolla di luce proveniente dal finestrino mentre la memoria, invece, era rimasta rivolta alla donna, al foulard di una discreta e passata eleganza; alla gonna troppo lunga; al pacchetto che aveva appoggiato alla propria destra, ora che il sedile, almeno fino a Bazzano, sarebbe rimasto vuoto. Man- cava anche, in quel viaggio, il vociare abituale, le parole confuse che ricordava da ragazzo. Adesso, i due passeggeri erano invece costretti a misurare i loro gesti, e pochissimo sarebbe sfuggito all’occhio vigile dell’autista dalla guida prudente, a dispetto dell’aria di sfida che non lo abbandonava nemmeno ora, con la platea alle spalle e le braccia larghe, in segno di resa, sul volante.

Bazzano passò senza che alcuno salisse o scendesse filando via in due strisce di case e fogliame a proteggere passate dimore gentilizie. Umberto Redondi cercò una sigaretta nella tasca interna della giacca, aprendo leggermente il finestrino per far uscire il fumo e riuscendo a osservare, di lontano e a tratti, i monti che parevano così diversi da quelli che vedeva dalla casa di Rastignano. Muovevano il desiderio solo di brevi passeggiate, che somigliavano più alle prime uscite dopo una lunga convalescenza che a una avventura, così come, nelle intenzioni di Redondi, avrebbe dovuto essere ogni salita in montagna. Degli uni lo aveva colpito il biancore, mentre di questi il colore scuro e l’unità del disegno.

Non andava forse, lui, a osservare da vicino proprio gli itinerari di una avventura? Per quasi vent’anni aveva sperato che ogni cosa fosse cambiata, riuscendo – addirittura – a convincersene. Era stato un lavoro lungo e duro, fatto di vuoti di memoria repentini e altrettanto improvvisi ricordi, i quali andavano a accrescere i dubbi, anziché a sostenere le poche certezze. Ai più, inoltre, per dimostrare quanto poco si comprendesse, all’esterno, dell’intera vicenda, la rinuncia all’insegnamento – per quanto temporanea, ma questo era noto a lui solo – era considerata incomprensibile. Così come il trasferimento in collina, mentre il professor Alceste, oramai in pensione, cercava di riaggregare intorno a sé le forze dei mercanti d’arte per riprendere il discorso da dove lo avevano lasciato. Si erano dimostrati quasi imbattibili nel fiutare le prede, sorprese in circostanze di estrema debolezza. Non vi era alcun rispetto per le difficoltà altrui, ma il rispetto, si ripeteva, era mancato anche a lui, e a nulla era valso cercare di dimenticarlo. Per quante volte si era convinto che le cose non stavano proprio così, altrettante aveva dovuto cedere. Il professor Alceste, tanto per fare un esempio, era proprio tra quelli che non volevano sentir ragione: le cose erano passa- te, e, chi per un verso chi per l’altro, ognuno aveva tirato le somme che meritava. Per alcuni anni, però, la grande casa di Poggio era rimasta vuota; il giardino incolto; la rosa lasciata rampicare su di un muro che perdeva l’intonaco facendo af- fiorare grosse chiazze grigie; le imposte chiuse come se si fosse abbandonato quel luogo per sempre.

In qualche modo, ne avrebbe recuperate le chiavi.

La strada continuava a scorrere, inquadrata dai piccoli finestrini. Le sigarette allentavano la fame. Umberto Redondi si girò di nuovo verso il fondo per vedere un’ultima volta la sua silenziosa compagna di viaggio. Ne associò l’immagine a quella della moglie: esatta; determinata l’una, quanto la donna col fazzoletto appariva quasi trasparente. Fece per avvicinarsi, ma la corriera, dopo una curva, accostò.

Scesero; lui per primo. Con un piccolo balzo e l’accenno di una corsetta rapida nelle intenzioni, Umberto Redondi raggiunse il pannello delle partenze. Strinse gli occhi, un po’ per la lama di sole, improvvisa, che tagliò il piazzale proprio, si sarebbe detto, addosso a lui; un po’ perché non si era mai convinto a usare regolarmente gli occhiali. Gli pareva, davanti allo specchio, di vedere uno sconosciuto, col viso, però, del professor Alceste ringiovanito di trent’anni.

L’attesa non sarebbe durata a lungo: a conforto di ciò, solo una manciata di minuti lo separava dalla nuova partenza. Si stropicciò il viso con le mani, soffermandosi sulle tempie, che gli dolevano. Nel silenzio, si voltò: quanti anni erano passati dall’ultima volta? Di sicuro, il professor Alceste si era adoperato per affittare una macchina, e allora questa attesa era, di fatto, nuova, condivisa con avventori sconosciuti. Nel confuso andirivieni, le uniche figure che davano l’impressione di non voler andarsene da nessuna parte, apparivano Redondi stesso e la donna col fazzoletto, la quale aveva poggiato a terra, stringendolo tra le gambe, il pacchetto. Con un movimento brusco e improvviso, quasi fosse nell’atto di scacciare un insetto, la donna, guardato Umberto Redondi in viso, sputò a terra. Il bersaglio, presunto, fece giusto in tempo a muoversi, ma di così poco che, se la donna avesse desiderato davvero colpirlo, non avrebbe avuta alcuna difficoltà.

Umberto Redondi sentì lo stomaco stringersi. In quell’istante pensò alla moglie, alle assicurazioni che gli aveva dato, specie negli ultimi tempi, quando si avvicinava alla sua poltrona, e rimanendo in piedi gli prendeva la testa tra le mani. «Non hai fatto niente» gli ripeteva piano, quando vedeva che gli occhi del marito erano diventati lucidi, e allora la causa di tutto quel silenzio era di nuovo la stessa. Su di lui, dopo tutto, nessuno poteva avanzare il minimo dubbio. E allora, pensò, pagare era stato un terribile errore; era stato ammettere una colpa che non aveva.

«Perché ha fatto questo?»

La voce era uscita incredula e debolissima, ignota a lui stesso.

Stava montando un’aria leggera, appena corrotta dall’odore portato dai camion di passaggio, i quali sollevavano, nel raro annunciarsi all’orizzonte prima della lenta, pesante scomparsa alla vista, un alone di polvere che le narici non sempre riuscivano a evitare, portandovi un senso di secchezza e prurito tali da far girare un po’ la testa. Forse proprio questo senso di ebbrezza lieve ma controllabile a stento, aveva indotto Umberto Redondi a osare: «Può dirmi cosa le ho fatto?» col tono di chi non si dava per vinto, ma aveva anche deciso di proporsi con cautela. Il coraggio aumentava a poco a poco, e l’attesa della risposta – quanto vana? – era inframmezzata dallo scorrere del rado traffico. Era una partita difficile da chiudere: la donna, incurante della domanda rivoltale, aveva mantenuto lo sguardo fisso avanti a sé, in direzione della strada, nemmeno vi attendesse un qualsiasi segnale, una possibile indicazione – speranza remota – di come uscire da lì. Umberto Redondi ne vedeva, dunque, il profilo appena accennato; le mani nervose; le lunghe dita sottili lievemente piegate.

«Io non minaccio nessuno.»

Inaspettatamente dura, uscì la voce della donna, con una frase pronunciata mantenendo lo sguardo ritto, sicura di aver scongiurato, con tanta austerità, ogni possibile replica. Come a conforto di ciò, infatti, Umberto Redondi tacque.

Poi parlò. «Signora, non comprendo il suo gesto.» «Credo, invece, che lei lo comprenda sin troppo bene.» Era affascinato dal cambiamento di tono, fattosi insieme sicuro e morbido, quando appena uscita dal deposito, la corriera li interruppe. Come a Bologna, poi, rischiavano di essere gli unici due passeggeri.

Così accadde.

Brano corrente

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