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17 Giugno 2013 | Racconti d'autore

Diana a Rimini. Tracce di uomini e di una divinità

Racconti di Valeria Cicala, tratti dal libro omonimo (Rimini, Guaraldi, 1996)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Mascia Foschi

17 giugno 2013

L’edizione 2013 del “Festival del Mondo Antico”, dal 21 al 23 giugno a Rimini, è dedicata alla Via Emilia, che da ben 2200 anni parte proprio dal cuore di questa città. Ne rievochiamo l’età romana con due testi che risvegliano le pietre dei nostri avi e le fanno parlare. 
Valeria Cicala, antichista e giornalista, lavora all’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, dove è caporedattrice della rivista “IBC”.

Diana a Rimini

Rimini è cresciuta su un tratto di pallido Adriatico, vicina alle colline che respirano già di Appennino. Terra di genti venute da altre storie, che avevano negli occhi altri paesaggi, altri colori, altri simboli.
Qui si incontrarono celti, italici, umbri, arrivati in momenti diversi, tutti lasciando per necessità una terra che era la loro ma che tale, evidentemente, non poteva più essere. Qui si trovarono, o meglio, si scontrarono per sopravvivere. Vinse il più forte? Certo la storia l’hanno scritta quei coloni, quei contadini-soldati che già verso il 236 avanti Cristo ponevano presso il santuario di Diana, sulla sponda settentrionale del lago di Nemi, una dedica alla divinità per ringraziarla della protezione accordata agli abitanti di Rimini, o per porsi sotto il suo benefico influsso.

Rimini era lontana, tanto lontana – sebbene fosse prossima la via Flaminia – dal Lazio tirrenico, dove i popoli Latini veneravano con particolare riguardo, a ridosso di uno specchio d’acqua, tra i fruscii di una radura sacra, la signora dei boschi e della caccia, degli spazi marginali.
Molti di coloro che nel 268 avanti Cristo avevano fondato Ariminum, separando il territorio dei Galli Senoni da quello dei Galli Boi, venivano dall’area centroitalica e avevano portato con sé almeno le loro tradizioni, i loro dei. Diana era appunto una di tali entità; svolgeva una particolare funzione nella vita di questi “pionieri” proprio per le sue valenze, per la sua peculiarità religiosa.

Rimini, in quel momento, costituiva uno sbarramento verso l’alieno settentrione, una sorta di avamposto lungo una frontiera ancora pericolosa. Diana, dea degli spazi agresti, extra urbani, si muove in una dimensione caratterizzata dagli aspetti violenti della natura, interpreta una condizione selvatica; è l’entità del “margine” preposta, si può dire, a garantire il rapporto tra i Latini e il mondo alieno; e tale apparve questa terra, al di là dell’Appennino umbro-toscano, immersa nell’“altra Italia”, ai coloni romani, una sorta di “nuova frontiera”. Diana esprimeva nella loro religiosità anche la contrapposizione e il tramite nei confronti dell’altro da sé; “l’altro”, “il diverso”, in questo nuovo orizzonte, era rappresentato soprattutto dalla presenza celtica, ma anche da un paesaggio differente, proiettato su una soglia verso l’ignoto.
È questo, forse, uno dei motivi per cui la divinità latina entrò a far parte del pantheon più arcaico della colonia: il suo teonimo, come quello di Apollo, compare graffito sul fondo di uno dei frammenti delle piccole ciotole votive, i pocola deorum, recuperare nel corso degli scavi archeologici, che costituiscono per Rimini, a tutt’oggi, i più antichi documenti inscritti.

Tornando alla dedica, rinvenuta nel santuario di Nemi, non è l’unica posta dai riminesi a Diana fuori dalla colonia: la tradizione manoscritta ne ricorda un’altra, conservata a Roma, ed oggi non più rintracciabile, che comunque presentava nella scrittura caratteri di relativa arcaicità. Dunque, possiamo dire che in età medio-repubblicana la devozione a Diana, da parte degli Ariminensi, era un fatto consueto ed è attestato, per ben due volte, non in loco, non a Rimini.
È proprio il documento ritrovato a Nemi il dato che, a mio avviso, qualifica il culto che alla divinità è tributato. Da ciò si percepisce la precisa esigenza psicologica dei coloni di entrare nell’immaginario geografico di coloro che frequentavano il santuario; si palesa il loro bisogno di ribadire, attraverso il messaggio inscritto, posto nel santuario, il legame culturale e religioso tra il nuovo orizzonte in cui la divinità era stata trapiantata (e in cui essi vivono) e il suo originario paesaggio.

Diana, che impalpabile appare sui marmi del Tempio Malatestiano e stende il suo bagliore lunare sulla rena adriatica, si respira nella storia di Rimini come la salsedine che impregna le sue epigrafi antiche, e sono tante.
Non sempre, tuttavia, esse sono rimaste laddove le vorrebbe la memoria degli uomini, la loro eterna paura di essere dimenticati. Le pietre rotolano, talvolta si reimpiegano malamente, spezzandole e scalpellandole, ma anche parole smozzicate o tagliate urlano il segno di una vita, i frantumi di una storia.

“Ave”, “Vale”, recitano alcuni sepolcri riminesi nell’orto-lapidario del Museo della Città. Una formula di saluto ed un colloquiale congedo nei confronti dei defunti che diviene esclamazione di richiamo, approccio emotivo che incapsula e attrae il “lettore di strada” ancora oggi, mentre, pietra dopo pietra, ricompone, alla luce naturale del lapidario, i tratti salienti della realtà sociale e della storia politica dell’antica colonia.
Sono scritture che invitano e sollecitano a fermarsi, a dedicare almeno il tempo di uno sguardo a queste biografie un po’ sbrecciate, a volte ostiche negli stereotipi delle sigle o nell’evanescenza dei segni. Le pietre di Rimini celebrano Augusto e Tiberio e poi ancora, nel IV secolo, Valentiniano, Valente e Graziano, ma l’esaltazione del principe non smorza la pietas per le quotidiane vicende di una umanità diversamente anonima: sull’epidermide di un piccolo sarcofago, Irene, una bimba, racconta la sua fuggevole storia. Vicende minori che si snodano ed intersecano, quasi inconsapevoli, gli eventi della Storia.

Tra pendii che precipitano verso le valli e corsi d’acqua, percorrendo i tratturi pedemontani, superando i fiumi oltre la Val Marecchia, i coloni che avevano seguito la via Flaminia e che più di un secolo dopo proseguirono per la via Emilia ed ancora per la Popilia, raccontano dalle loro pietre la tenerezza degli affetti, la dignitosa riservatezza del dolore, la munificenza del benessere, il superstizioso ed ossequioso omaggio ai loro dei.

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Le pietre raccontano

La luce del tramonto brucia i profili dell’Appennino laddove la Romagna, lontana dal promontorio della Focara, si proietta idealmente nell’orizzonte umbro.
Galeata, la Mevaniola di età romana, si illumina sparsa nell’alta vallata del Bidente, un po’ più a valle dell’antico insediamento, tra nastri d’acque che da sempre segnano la storia di queste colline e delle propaggini montuose: il Bevano che si insinua tra Ronco e Savio, percorsi e rive che accomunano la scrittura di un passato, che sollecitano ricordi.
Muti fantasmi, storie di pietra, archivi della memoria, nelle ombre di un limpido tramonto invernale, animano le schede di un silenzioso peregrinare tra musei, chiese ed abitazioni; un censimento che improvvisamente acquisisce nella geografia dei luoghi, nella caligine che evapora, le cadenze evocative di una elegia, di una “poesia di paese” che un coro senza volto bisbiglia come sulla collina di Spoon River.

Dove sono Rubria Tertulla che morì a vent’anni, Valentina che ne compì solo quattordici, o Sabinia Myrtale che pone un caldo saluto di congedo sulla lapide dell’uomo con cui ha vissuto per quarant’anni? Potremmo appunto rispondere che “dormono”, “dormono tutti sulla collina”.
Ma, dall’epidermide litea di una epigrafe, Rubria narra ancora la sua felice, seppur breve, esistenza, l’armonia della vita coniugale non logorata dal tempo; morì tra le braccia del suo sposo e questi, un notabile di Galeata, Caius Refanus Macrinus, molto innamorato e con ragguardevoli possibilità economiche, le fece erigere un’elegante stele funeraria su cui sono incisi anche i versi, il carme epigrafico, che avrebbe fatto conoscere al viandante che si fosse fermato, allora come oggi, la fugacità terrena della sua storia, il segno perenne della desolata malinconia creata dalla sua perdita.

Da Sarsina giungono le voci delle altre due donne; qui tante delle storie, delle pietre che le raccontano, ci sono state restituite da un’alluvione, più di settant’anni fa, quando dal fango riemerse la grande necropoli di Pian di Bezzo.
Il fiume Savio aveva ricoperto per secoli le vicende di molti degli antichi abitanti di Sarsina: storie di élite municipali, di mercanti, di personaggi provenienti dal vicino oriente, alcuni di loro, forse, avevano militato nella flotta; gente che qui aveva impiantato la sua casa, aveva portato le proprie consuetudini e le proprie divinità. In questa terra è successo così un po’ ovunque.

Sostrati umbri e religiosità orientale trasudano dalle pietre del crinale appenninico su cui ritroviamo i vota suscepta o i vota saluta (le grazie richieste e quelle ricevute, diremmo noi) di chi frequentava il sincretistico pantheon degli dei di Sarsina; nomi da cui traspare un’origine lontana oppure l’appartenenza, magari come liberti (schiavi manomessi), a grandi famiglie del centro Italia quali i Murcii, i Caesii, i Baebii, o i Caesellii. Solo alcune tra le tante gentes che, a partire dalla fondazione della colonia di Rimini nel 268 avanti Cristo, gradatamente, compongono e scandiscono la vita politica ed economica delle colonie e dei municipi cresciuti sul territorio di quelle che allora vennero poi individuate come regio VIII e regio VI.

“Ce ne sono di santi al mio paese”, scriveva Vincenzo Cardarelli, e indubbiamente anche la religiosità pagana crea tante divinità. C’è un nume quasi per ogni evento, ed ogni luogo custodisce una presenza, a volte indefinibile, che lo preserva, che lo tutela.
Santuari e sacelli sono ovunque all’interno del perimetro urbano, sulle alture o nelle vicinanze dei corsi d’acqua; quasi un tentativo di proteggere la precaria architettura dell’esistenza da una natura spesso ostile, da eventi imponderabili che si cerca di esorcizzare, di imbrigliare nel nome di un dio, nella ripetizione accorta di rituali e di offerte.

Iuppiter Serenus governa le onde dell’Adriatico sul promontorio della Focara e a lui si rivolge il pensiero di chi naviga; mentre alla Salus Augusta pone con gratitudine una dedica il riminese Quintus Plautius Iustus; un altro riminese, Quintus Pupius Salvius, ringrazia Minerva forse per una guarigione, ma potremmo compilare un articolato catalogo di messaggi e di destinatari.
Nomi diversi adombrano spesso le stesse divinità, che possono essere singole oppure multiple, astratte o fortemente antropomorfizzare; somatizzazioni di forze benefiche o di paure ancestrali che, ancora una volta, trovano sulla pietra il veicolo e il supporto per un messaggio liberatorio, per una preghiera che comunque sarà raccolta ed eternata; la scrittura diviene allora il tramite incontaminato, una voce incorruttibile e silenziosa articolata con gli occhi, assimilata nella memoria.

Brano corrente

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