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20 Giugno 2013 | Racconti d'autore

Via Emilia: 2200 anni in otto tappe

Reportage di Fernando Pellerano, tratto dal “Corriere di Bologna”, 10 e 15 giugno 2013 (prima puntata)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Mascia Foschi

20 giugno 2013

Da Piacenza a Rimini sulla Strada Statale 9. Per festeggiare i ventidue secoli della Via che dà metà del suo nome all’Emilia-Romagna, l’edizione bolognese del “Corriere della Sera” ha rispolverato un genere intramontabile: il reportage di viaggio.  
L’autore, il giornalista Fernando Pellerano, tiene sul sito del “Corriere di Bologna” un blog intitolato “Dammi il tiro”, in cui racconta il capoluogo attraverso le sue video-pillole.

10 giugno 2013
Si parte da Piacenza

In una rotonda. Ecco dove finisce la via Emilia. Una rotonda con un monumento al suo centro (almeno quello, grazie). Siamo a Piacenza. Piazzale Milano. A ridosso del Po, il grande confine naturale che separa la Lombardia dall’Emilia-Romagna e che taglia a metà la pianura Padana. L’altra linea, per certi versi rossa, e comunque non sottile, la costruirono invece i Romani esattamente 2200 anni fa: la via Emilia.
Un superdecumano di 262,387 km, come recita esattamente la stele in granito scuro dell’ANAS che si trova a due passi dal monumento/rotonda dedicato ai Pontieri, punto di partenza del nostro viaggio a ritroso lungo la consolare più dritta mai costruita dai Romani: da Rimini a Piacenza. Sotto il comando di Marco Emilio Lepido si registrano tempi di realizzazione formidabili: due anni, dal 189 al 187 avanti Cristo (alla faccia delle grandi opere annunciate, e mai finite e talvolta neppure iniziate, dai governi attuali).
Tecnicamente la Strada statale 9, questa la sigla dell’asse di riferimento dell’intero popolo emiliano-romagnolo, finisce a San Donato Milanese, ma la tristezza del capolinea appostato in campo lombardo toglie completamente fascino e soprattutto lettura storica alla via che non a caso si chiama Emilia. Quindi non si discute: si parte dall’umido confine emiliano-lombardo posto a metà del guado del Po (delimitazione certa) e a poche centinaia di metri dal cuore di Piacenza, adagiata sulla riva destra del grande fiume, cioè a sud.

Eccoci quindi qui, in mezzo al traffico cittadino della primogenita (nel 1848 fu la prima città italiana a votare con un plebiscito l’annessione al Regno di Sardegna), a cercare l’incipit dell’amata arteria che si rivelerà quasi un non-luogo (vi risparmiamo le ormai scontate battute sulle rotonde), un posto come un altro, caratterizzato solo dal tributo in marmo ai Pontieri: un obelisco con drammatiche figure in bronzo realizzate ai suoi quattro lati. L’esatto contrario del vero punto di partenza, splendido, importante, trionfale della «consolare»: l’Arco di Augusto di Rimini.
Qui finiva la via Flaminia, che collegava Roma ad Ariminum, e qui iniziava la via Emilia, decumano massimo che tagliava a metà l’urbe romagnola per proseguire dritta come un fuso fino alla colonia di frontiera Placentia, dove era necessario contrapporsi ai Galli Boi lì accampati, già sconfitti ma restii a firmare la pace. Insomma, serviva una via militare che consentisse spostamenti rapidi all’esercito. L’avvio dei lavori avviene dopo la conquista di Bona (ovvero Bologna) nel 189 avanti Cristo.
A Piacenza non ci sono grandi resti romani e l’inizio della via Emilia è caratterizzato da un fitto crocevia di ponti, viadotti e strade che si snodano e si inseguono alle sue spalle, lì dove scorre il Po. Oltrepassato dunque il fiume, il viaggiatore affiancherà la stele della SS9, un altro ceppo che ricorda la costruzione del ponte appena attraversato (1908) e davanti a sé ecco la rotonda con le auto che ci girano intorno e in mezzo il Monumento ai Pontieri: una dedica non qualsiasi, perché a Piacenza quel geniale corpo dell’esercito ha fatto la storia, anche quella più recente.

La popolazione piacentina ha sempre dovuto fare i conti con il fiume, mai uguale a sé stesso e quindi un po’ uguale a loro, né emiliani né lombardi. Da qui la maestria nell’arte dell’attraversamento dei confini tracciati dall’acqua, a cominciare da Annibale per finire con l’ultimo ponte di emergenza allestito nel 2009, quando a causa dell’alluvione crollò quello principale, ricostruito 500 giorni dopo (quei gran geni dei pontieri sono in grado oggi di allestire sul Po un ponte galleggiante motorizzato di 178 metri in 15 minuti, per dire).
Il Monumento, realizzato nel 1928, è quindi «dovuto» e meritato. Intorno, quattro angoli qualunque. Un grande poliambulatorio a est con 300 biciclette nelle rastrelliere, il ponte sul Po a nord intersecato anche da autostrada e ferrovia (pochi segni di vita invece sulle rive), il bar Pontieri a ovest lambito da un ex campo da calcio ora trasformato in parco cittadino, e infine a sud l’ampio viale Risorgimento che entra in città.
Guardando infatti in quella direzione, in lontananza si scorge il profilo del gigantesco e mai finito Palazzo Farnese, progettato da Vignola, e poco più giù c’è, sempre sullo stesso viale che però cambia nome in Cavour, Piazza dei Cavalli con il bel palazzo Gotico, simboli della città. Piacenza concentrata in uno sguardo. E se ci si rigira verso il Po ecco lo skyline industriale della Centrale Elettrica (altro simbolo, ebbene sì).

E la via Emilia che fa? Una cosa stranissima e singolare: non entra in città come uno si aspetterebbe (così accade a tutti gli altri capoluoghi della regione, escluse Ravenna e Ferrara fuori rotta), snobba viale del Risorgimento e prosegue con sicumera a est, sui viali di circonvallazione, lasciando il centro storico di Piacenza orfano della sua presenza. Un inizio di viaggio spiazzante che proseguirà alla volta di Parma, passando davanti alla stazione ferroviaria, e poi altra svolta a sinistra (dove si incrocia la via Francigena) sulla Parmense, precisamente allineata alla lunga diagonale che, 262 chilometri più avanti, finirà in mare.

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15 giugno 2013
La «r» unica che fa Parma così francese

Lasciata la placida Piacenza ci immergiamo nel quotidiano traffico della SS9, e si sente subito l’Emilia. Ci sarà anche la crisi, ma il su e giù è continuo. Il traguardo è Parma, città Ducale per eccellenza, fondata come colonia romana nel 183 avanti Cristo, proprio quattro anni dopo la realizzazione della via Emilia, arteria militare, civile e commerciale decisiva per la conversione economica della pianura del Po abitata dalle sconfitte popolazioni galliche.
Paesi, frazioni e città si susseguono a pochi chilometri di distanza: Roveleto, Fiorenzuola d’Arda, Alseno, Fidenza, Sanguinaro e poi la capitale del Ducato che fu.
Borghi un tempo tutti trafitti dalla SS9 – con auto, camion e motociclette in assetto da Mille Miglia: sempre suggestive le cartoline in bianco e nero del dopoguerra – oggi invece ci sono le tangenziali, la via Emilia sterza, svolta, si piega, si curva e infine si raddrizza e così si cambiano le porte d’ingresso. 

Lo storico e originale decumano romano che introduce il viandante a Parma si presenta con i seguenti nomi: Emilia Ovest in periferia, poi Gramsci nella prima periferia, quindi in centro D’Azeglio dove c’è il Ponte di Mezzo che segna il passaggio dall’Oltretorrente a Parma Nuova (come si sa la città è divisa nettamente in due dall’omonimo fiume che più elegantemente viene indicato come torrente), adesso siamo in via Mazzini e superata piazza Garibaldi (l’onfalo parmense) la via diventa Strada della Repubblica per poi tornare a chiamarsi via Emilia Est. Nomi classici e ricorrenti di tante città emiliane.
Insomma, la via è sempre Emilia eppure cambia mille volte il nome. Cosa che neppure i vigili urbani di Parma hanno capito bene: ne fermo uno in piazza Garibaldi e indicando la strada principale chiedo conferma: «Siamo sulla via Emilia no?», «No, questa è via Mazzini», «Sì» – insisto – «ma siamo sull’asse della via Emilia», «No signore, questa è VIA MAZZINI, la via Emilia è molto più in là», «D’accordo…».

Svarioni a parte, Parma si presenta in ordine e precisina, come da tradizione. La bellezza del suo centro storico non si è affatto dissolta come invece è accaduto alle casse comunali e in precedenza a una delle aziende simbolo della città, quella che produceva prima latte e poi cartastraccia. Spunti per raccontare la cronaca recente di Parma ce ne sono davvero tanti, basti l’accoppiata Movimento 5 Stelle – inceneritore. Per non parlare di cibo, musica, arte, teatri…
Ma la storia più intrigante è questa ‘r’ cosiddetta «uvulare» (leggi ugulare) che a Parma hanno quasi tutti. Possibile? Possibile. Perché? Chiedo in giro. Davanti al Battistero, al Duomo e all’incredibile attico sospeso su palafitte e pieno di fiori che si affaccia di fronte a tanta bellezza («prima era uno stenditoio» – racconta un bene informato – «poi l’hanno trasformato in casa, quindi condonato e ora ci girano perfino un film: Baciato dalla fortuna di Salemme») rivolgo la domanda di glottologia a una ballotta di autoctoni ottantenni (loro dovrebbero sapere): «dipende tutto dai francesi, dalla loro lunga presenza in città», «sì, anche io ho sempre saputo così, i francesi».

Indago ancora. Altri parmigiani doc in piazza Garibaldi, leggermente più giovani, diciamo. E loro, affermando la stessa cosa, «francesi!», la prendono però alla larga e raccontano di personaggi come Du Tillot e Maria Luigia, Neipperg e Maria Luisa («che faceva l’amore con gli stallieri»), passando poi, in questo breve corso di storia, per la saga anni Settanta dell’industriale Bormioli, di sua moglie e dell’amante Tamara la parmigiana (on line si trova tutta l’autobiografia) che venne accusata di aver assoldato dei killer per eliminare la rivale (storia assai nota in quel tratto della via Emilia) e proprio mentre scorre l’aneddoto «ecco, guardate chi passa! Quello era uno dei tre sicari, si è fatto un bel po’ di galera, è noto come grande estorsore»: ah, quando la città è piccola… che brividi.

E la ‘r’? Il gruppetto (quattro su cinque hanno quella pronuncia lì) aggiunge: «Più che a Parma la ‘r’ si sente a Fidenza e a Salsomaggiore, di là dai due fiumi. E sa perché? Perché là abitavano tutte le truppe, mentre in città ci stava solo la corte». Ah, ecco. Provo a verificare e chiamo Gene Gnocchi, fidentino doc, tuttologo con ‘r’ superuvulare. «Guarda anche a me dicevano questa cosa, io non ne sono certo però, ma un mo amico, Giovanni Petrolini, glottologo di grande fama, docente universitario, aveva elaborato un’altra teoria: chiamalo!».
Fatto: eccolo. «Tesi debole quella dei francesi. Le truppe hanno inseminato? Il seme non trasmette la fonetica. No no, qui la ‘r’ risalirebbe a qualcosa di più antico, è una questione di sostrato, di interferenza linguistica: la cosa dipenderebbe da una lingua non più parlata che prima di sparire ha influenzato quella soppiantata». Mmh. Niente di certo però. «No, niente». Ah. Neppure il suo saggio Nel nocciolo delle parole (Zara editore) risolve l’arcano: ‘r’ moscia, uvulare, alveo dentale, cacuminale, vibrata o meno, chissà. E con l’insoluto nel taschino s’abbandona Parma alla volta di Reggio nell’Emilia. Sempre sulla SS9.

Brano corrente

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