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8 Luglio 2013 | Racconti d'autore

Falcastrum. Alessandra

Testo tratto dal romanzo omonimo di Andrea Malossini (Narcissus Editore, 2013) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

8 luglio 2013

Il “falcastrum” è una roncola che nel Medioevo si usava per sfrondare i tronchi, ma poteva diventare un’arma. Di qui il titolo del primo romanzo di Andrea Malossini, giornalista, scrittore ed esperto di tradizioni popolari. Un noir storico ambientato in Emilia-Romagna, a Bologna e Forlì, tra il 1250, il 1530 e oggi.
Il romanzo, pubblicato in formato ebook, è disponibile in due versioni speculari: in una la protagonista femminile è etero, nell’altra il protagonista maschile è gay.

Prologo

Sono nato a Verona il 26 settembre 1206 e morto lungo la Strada Canturina, tra Como e Milano, il 6 aprile 1252.
L’eretica mano che mi trafisse fu beata.
Per la vera fede feci da morto assai di più di quel che feci in vita.

Capitolo I

Forlì, 24 novembre
San Prospero vescovo

Una piccola molla d’acciaio. Pochi luccicanti centimetri d’energia. Cristina l’aveva trovata un anno prima nel refettorio, sotto l’affresco raffigurante san Domenico nell’atto di resuscitare Napoleone Orsini.
Un luogo singolare per una molla.
Da quel giorno l’aveva portata con sé. Non era superstiziosa, ma era certa che quel sottile filo d’acciaio, avvolto a spirale, l’avrebbe protetta.
La rigirò tra le dita.
I lavori erano finiti. Nonostante gli imprevisti e l’incidente di fine luglio, si era concluso tutto nei tempi stabiliti.
Dopo la morte del giovane archeologo aveva temuto che il suo sogno non si avverasse. Era stata una tragedia che l’aveva turbata e messo in discussione la prosecuzione dei lavori. Poi il cantiere era ripartito e ora Forlì aveva finalmente un luogo per il museo, la pinacoteca e le esposizioni d’arte.
Per lei, che l’aveva voluto con tutte le forze, San Domenico era una creatura pulsante, vitale, dove l’energia dei secoli passati trasudava da ogni pietra.
Mancava solo una settimana all’inaugurazione. Per Cristina Foschi, direttrice della Pinacoteca e dei Musei di Forlì, trasformare un vecchio convento diroccato in un moderno museo era stata un’avventura emozionante.

Da quando se ne era andata di casa, abbandonando lo Studio di famiglia, dove già aveva mosso i primi passi di una facile carriera da avvocato, Cristina aveva dato fondo a ogni sua energia per dimostrare che occuparsi di mariti e mogli traditi e truffatori non era la vita che desiderava. Lei amava l’arte.
Si era rimessa a studiare. Una seconda laurea a Ravenna, in Storia e conservazione delle opere d’arte, le aveva aperto le porte a una nuova vita.
E ora stava portando a termine il sogno che aveva fin da ragazzina. Quante volte aveva immaginato di far rivivere quei palazzi colore del sole al tramonto che piano piano si sgretolavano: la chiesa di San Giacomo apostolo, Santa Caterina, Palazzo Pasquali, il Convento dei domenicani e quello degli agostiniani. Cinque edifici addossati uno all’altro che per sette secoli erano stati la meta di religiosi, studiosi e pellegrini provenienti da tutta Europa.
Quando nel ’78, in una fredda e grigia mattina, un crollo aveva distrutto la parte meridionale della chiesa di San Giacomo, Cristina aveva pianto. Era passata di lì mentre andava a scuola e si era fermata incuriosita da un capannello di persone dall’aspetto severo che, con gli occhi rivolti verso il tetto crollato, parlavano tra loro sfiduciati. C’era anche il cardinale. Non era elegante come quando l’aveva tenuta alla Cresima, ma era lui. Ne era certa.
Ricordava ancora le loro parole.
«E ora, dovremo abbatterla, non troveremo più nessuno disposto a finanziare il restauro.»
E invece, dopo 30 anni, quegli edifici erano tornati allo splendore di un tempo. Forse ancora più belli.

La fatica e le preoccupazioni dell’ultimo anno avevano segnato Cristina, anche se il pallore del viso e la schiena un po’ curva non erano riusciti a nascondere una bellezza calda e solare. Occhi verdi, capelli ramati, un sorriso luminoso.
Doveva riposare, distrarsi, ritrovare l’energia per affrontare l’intensa settimana prima dell’inaugurazione. Alessandra, la sua amica del cuore, la stava aspettando per trascorrere insieme due giorni in completo relax: terme, massaggi, shopping e chiacchiere. Senza uomini intorno. Al pensiero le si illuminò il viso.
D’un tratto i problemi e lo stress le sembrarono lontani. Nemmeno le telefonate che aveva ricevuto fin dal mattino sembravano più turbarla. Sempre dalla stessa persona. Erano mesi che insisteva. Sul momento si era arrabbiata tantissimo: che tipo, voleva a tutti i costi consultare i documenti sugli scavi. Di venerdì pomeriggio: “che andasse al diavolo” mugugnò Cristina tra sé e sé.
Chiuse la pesante porta dell’ufficio con cura. Scese rapidamente le scale, sfiorando con la punta delle dita le pietre chiare della parete. Lo faceva sempre. Le piaceva toccare quei vecchi muri. Erano lì da sette secoli e il sapiente restauro li aveva riportati all’antica bellezza. Emanavano energia.
All’uscita, le fioche luci di piazza Montefeltro erano avvolte da una leggera nebbiolina. L’aria fresca e umida le diede vigore e con passo veloce si diresse verso l’auto.
L’aveva lasciata in fondo al piazzale, come sempre. Anche se la parte coperta del parcheggio appena in fondo alle scale era più vicina al suo ufficio, la evitava. Preferiva fare qualche passo in più. Quell’improbabile garage era un posto triste, umido, buio. Ora che il complesso museale era stato rimesso a nuovo, quella colata di cemento grigio, con gli enormi blocchi colorati di giallo all’ingresso, era terribilmente fuori luogo: quasi oscena. Si era sempre chiesta per quale motivo un architetto avesse deciso di realizzare un obbrobrio del genere. Era inguardabile.

Cristina scese la scala che portava al piazzale e mise la mano in tasca per cercare le chiavi. Si fermò un istante. Eppure, era certa d’averle con sé. Tornò sui suoi passi, rovistando affannosamente nella borsa.
“Accidenti alle borse troppo grandi” pensò, doveva averle lasciate in ufficio.
Risalì la scala, percorrendo lentamente i 19 scalini grigi. I muri di cemento, stretti e coperti di un sottile strato verdastro d’umidità, la opprimevano. Pochi metri la separavano dall’ingresso del museo.
La sabbia, messa tra i masselli del selciato appena posati, scricchiolava. Si pulì le suole e fece per rientrare. Per un attimo si specchiò nella grande porta a vetri dell’ingresso. Il cipresso alla sua destra, mozzo, dai rami sfrangiati, era immobile, coperto di minutissime goccioline d’acqua. Il faro che illuminava la facciata del museo lo faceva scintillare.
In alto, la gigantesca gru che ormai da due anni stava sopra al tetto della chiesa di San Giacomo s’intravedeva appena.
Davanti all’ingresso un odore forte sorprese Cristina. Veniva dalla grata che dava sui sotterranei. Gli operai avevano lavorato alla fognatura il giorno prima e dovevano aver rotto qualche conduttura. “Un altro problema da risolvere prima dell’inaugurazione”. Pensò. Proprio in quel punto avrebbe dovuto accogliere le autorità, e far gli onori di casa con quella puzza non sarebbe stato certo un buon inizio.
Mentre pensava a come risolvere quel nuovo imprevisto, continuò a cercare nella borsa. Le sembrava impossibile aver perso le chiavi.
«Ah, eccole» esclamò forte Cristina. Erano proprio nella borsa. Si guardò intorno per vedere se qualcuno l’avesse sentita parlare ad alta voce. Sorrise. Cristina sorrideva sempre quando si accorgeva di fare qualcosa di strano. Sorrideva della sua apparente ingenuità. Eppure, se un’emozione la sorprendeva, non nascondeva mai lo stupore, la gioia, la tristezza. Era uno degli aspetti più affascinanti del suo carattere.

Tornò verso l’auto. Nel baule aveva già messo la borsa per il viaggio. Accappatoio, due costumi, le infradito e la cuffia per la piscina. Un abito elegante, un tailleur, due gonne, jeans, due camicie bianche, l’intimo per l’occasione e il suo inseparabile maglione norvegese di lana. Per dormire aveva portato un pigiama di seta color avorio. E poi, cinque paia di scarpe. Le scarpe erano il pallino dell’amica Alessandra. “La classe si riconosce dalle scarpe” le diceva sempre. Così, col tempo, anche Cristina era stata contagiata da questa mania. Per le scarpe spendeva metà dello stipendio.
Girò intorno a un furgone bianco e infilò le chiavi nella portiera della sua piccola Panda. Un rumore la fece trasalire.
«Dottoressa Foschi?»
«Sì» rispose Cristina, riconoscendo immediatamente la persona che le stava di fronte. Era la stessa che l’aveva assillata al telefono per tutto il giorno e che da mesi curiosava nel cantiere.
«Ha un attimo di tempo?»
«Ancora lei. Le ho già detto al telefono di venire lunedì, è tutto il giorno che m’importuna, ora ho fretta, mi scusi, ma non ho proprio tempo.»
«Peccato. È che non posso aspettare. Devo saperlo ora…»

 

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