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18 Luglio 2013 | Racconti d'autore

Falcastrum. Alessandra

Testo tratto dal romanzo omonimo di Andrea Malossini (Narcissus Editore, 2013) – seconda puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

18 luglio 2013

Il “falcastrum” è una roncola che nel Medioevo si usava per sfrondare i tronchi, ma poteva diventare un’arma. Di qui il titolo del primo romanzo di Andrea Malossini, giornalista, scrittore ed esperto di tradizioni popolari. Un noir storico ambientato in Emilia-Romagna, a Bologna e Forlì, tra il 1250, il 1530 e oggi.
Il romanzo, pubblicato in formato ebook, è disponibile in due versioni speculari: in una la protagonista femminile è etero, nell’altra il protagonista maschile è gay.

Ulisse Arnaud era appena arrivato a casa. Dopo l’allenamento era uscito con gli amici a mangiare la pizza e a bere birra. Lo faceva tutti i venerdì. Anche se gli anni passavano, continuava a giocare a rugby con i compagni di squadra di sempre. La palla ovale era stata la sua passione giovanile e, ora che il lavoro gli dava un po’ di respiro, aveva ripreso a giocare. Partitelle al tocco tra amici, qualche torneo in giro per l’Italia e divertentissimi “terzi tempi”. A parte qualche botta di troppo, lo considerava il sistema migliore per stare in forma e scaricare la tensione.
Le scarpe le aveva già lavate al campo, mentre il resto l’aveva buttato nella vasca per una sciacquata veloce e per non intasare come al solito di fango la lavatrice. Era stanco e gli facevano male le costole. Accidenti a “Naso”, poteva fare più piano. Gli aveva detto mille volte che quando si salta in touche non si può colpire l’avversario… almeno finché non tocca terra.
L’indomani sarebbe andato da Marta, la fisioterapista che di solito lo rimetteva in sesto dopo le partite.

Seduto sul letto stava cercando qualcosa da leggere per addormentarsi. Aveva iniziato da qualche giorno “Vite brevi di idioti” di Ermanno Cavazzoni. Pillole di una tragica comicità. L’aveva comprato dopo aver letto un commento sul web: “Per i lettori che sappiano fare un uso intelligentissimo della propria stupidità”. Geniale.
L’inconfondibile “din, don, dan” del cellulare lo fece sobbalzare. Era Alessandra, la sua compagna. Aveva scelto quella singolare suoneria anni prima: un modo come un altro per sottolineare il fatto che Alessandra non si faceva sentire molto spesso. O almeno non quanto lui desiderava.
“A quest’ora?” pensò Ulisse sorpreso.
Dall’altra parte, una voce sconvolta.
«Ulisse, Cristina è scomparsa.»
«Cosa?»
«Non si è fatta vedere e non ha chiamato, le è capitato qualcosa di grave.»
«Dai Alessandra, stai calma, avrà avuto un contrattempo.»
«La polizia ha trovato la sua auto con le chiavi infilate nella portiera davanti a San Domenico. Ho paura che l’abbiano rapita» continuò Alessandra.
«E la polizia? La stanno cercando?»
«Sì, ma l’allarme è scattato dopo cinque ore, quando hanno trovato l’auto. Chissà dov’è ora.»
«Sei dai tuoi?» chiese Ulisse ad Alessandra.
«Sì, sono a Cesena, da mio padre, puoi raggiungermi?»

Il vento freddo aveva pulito l’aria. Verso est si vedevano lampi in lontananza. “In novembre?” pensò perplesso Ulisse.
Si vestì alla bell’e meglio e uscì di casa. Il parabrezza dell’auto era coperto di piccoli e incerti cristalli di ghiaccio. La prima neve. Accese i fari dell’auto, il fascio di luce illuminò il nevischio che stava aumentando d’intensità. Diede una rapida occhiata al suo vecchio cronografo IWC Portoghese: era già mezzanotte.
A Ulisse piaceva guidare col cattivo tempo. Amava ascoltare il rumore delle nuvole.
Partì piano, per prendere confidenza con l’asfalto scivoloso. Iniziò a pensare: anche il tempo per il breve viaggio poteva essere decisivo per aiutare a ritrovare Cristina.
Accese il lettore e inserì un CD: era una vecchia raccolta di Carole King: “Tapestry”, e conteneva la canzone che Ulisse amava di più “You’ve Got A Friend”. Ne aveva bisogno. Tradusse mentalmente le parole che uscivano dalle casse:

Quando sei giù e hai problemi
e hai bisogno d’amore e attenzioni
e niente, niente va nel modo giusto
chiudi gli occhi e pensa a me
ed io arriverò
ad illuminarti le tue notti oscure.

Terminata la canzone – nonostante l’ora – decise di chiamare Giorgio Sala, il suo miglior amico, capitano dei carabinieri. Si conoscevano fin da piccoli e avevano entrambi la passione per l’arte. Giorgio era a capo del Comando Tutela patrimonio artistico di Bologna, e spesso avevano lavorato insieme.
Più volte erano stati protagonisti di recuperi di opere d’arte. Giorgio conosceva tutti, e anche se le indagini sembravano in mano alla polizia, i colleghi dell’Arma sarebbero stati sicuramente d’aiuto. In poco più di quaranta minuti raggiunse Alessandra.

***

Nel giorno successivo alla scomparsa di Cristina Foschi, la tranquilla e accogliente Forlì diede prova di quanto fosse in realtà vitale. Posti di blocco, controlli nei casolari abbandonati e nelle campagne. Chiunque a Forlì avesse una divisa, dai vigili urbani alle guardie forestali, dalla polizia ai carabinieri, si diede da fare per trovare un indizio che contribuisse al ritrovamento di Cristina.
Ulisse era stanchissimo: la notte insonne, la tensione di Alessandra, il dolore per la scomparsa di un’amica gli avevano tolto ogni energia. E poi il senso d’impotenza: nonostante decine di telefonate non aveva ottenuto nessun risultato.
Bisognava avere pazienza ma agire in fretta. Se di un rapimento si trattava – come quasi tutti a questo punto speravano – la telefonata dei rapitori sarebbe arrivata presto. I beni alla famiglia Foschi li avrebbero sicuramente bloccati, ma non era certo un problema. Erano decine gli amici in grado di “anticipare” ai Foschi il denaro per il riscatto.

Il nevischio della sera prima non aveva lasciato traccia, solo l’aria era più fredda. Alla sera, esausto, Ulisse tornò a casa a Bologna. Alessandra si era ripresa e con grande determinazione stava aiutando Marco, il fratello di Cristina, che per la famiglia teneva i contatti con la polizia.
La tensione gli impediva di prendere sonno, anche se ormai albeggiava. Pensava a come aiutare Alessandra, all’idea giusta per trovare Cristina.
Il “din, don, dan” del cellulare gli fece gelare il sangue. Rispose.
All’altro capo Alessandra. «Cristina è morta. L’hanno uccisa.»

***

Il corpo era stato trovato sabato sera da una coppia di ragazzi poco sopra Bertinoro, in un casolare abbandonato. I carabinieri non avevano impiegato molto per riconoscere il cadavere e avvertire i familiari, nonostante l’assassino avesse infierito su di lei.
Cristina era stata ritrovata appoggiata di schiena a una ruota di legno di un vecchio carro agricolo. Una logora ruota dai raggi rotti e con il cerchio di metallo che la fasciava, arrugginito. Cristina indossava i propri abiti, puliti e in ordine, anche se a stento riuscivano a celare il corpo martoriato e livido.
La testa di Cristina era a circa due metri di distanza, con gli occhi aperti. I capelli fulvi erano stati raccolti con cura in una treccia. L’assassino ne aveva posato il capo su una cassetta di legno in modo che non venisse sporcato dal terreno. Intorno al cadavere non c’era una goccia di sangue. Tutto perfettamente ordinato e pulito.

 

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