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11 Ottobre 2012 | Racconti d'autore

Falene. 237 vite quasi perfette

Di Eugenio Baroncelli, Sellerio editore, Palermo, 2012 (prima puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

11 ottobre 2012

Libro formidabile, questo che vi proponiamo: elogiato da Roberto Saviano (“Quanto mi piace quell’Italia minore”), racconta le storie di persone comuni, poco note o, talvolta, famose, comprimendole in una sola pagina, e spesso meno. Queste mini biografie puntano subito al sodo: com’è morta la persona? E’ la morte che spiega la vita: “Il solo stato di perfezione alla portata di un mortale è la morte”, spiega Eugenio Baroncelli, scrittore di Ravenna nato nel 1944, che prima di questo “Falene”, ha pubblicato presso Sellerio altri due raccolte di vite brevi, “Libro di candele” e “Mosche d’inverno”.
“I suoi tre libri di biografie – ha scritto Saviano – li porto in borsa da molto tempo. Da poggiare sui comodini dove mi capita di dormire. Leggo una biografia a notte e ogni volta ho l’impressione di aver conosciuto, davvero conosciuto, una persona diversa. Perché Baroncelli è un virtuoso della vita altrui. Perché divora migliaia di pagine per partorire una stilla di cristallo o una pietra dura”. Di Baroncelli dice ancora: “L’Italia letteraria nasconde questi autori preziosi, figli di una tradizione spesso dimenticata, che scrivono per il piacere dei lettori”.

 

L’uomo più dimenticato del mondo
«Je ne suis jamais seul avec ma solitude».
S. REGGIANI

Niente nome. Quello se lo tolse con gioia, la stessa con cui a noi lo mettono i nostri genitori. Niente musica, tranne quella canzone di Serge Reggiani con cui faceva volentieri sera. Niente vocazioni. Era portato per la poesia, ma non scrisse un solo verso. Niente è più poetico che farsi dimenticare. Niente indirizzo. Stava in un vecchio. autobus abbandonato, dove non è necessario essere ancora qualcuno. Se ne andò in fretta e furia. Stava per dire che se ne andava all’improvviso senza avvisare nessuno, ma invece di dirlo aprì la bocca in un sorriso. Chi avrebbe dovuto avvisare?
Robert Walser, l’uomo che entra in tutti i miei libri
Chi altro era, in quei mezzogiorni che parevano notti, in quel refettorio fioco nel fuoco delle fatue candele, l’uomo che scendeva puntuale al rintocco della campana per il pranzo, bianco di neve il cappotto, bianchi di neve gli occhi che hanno visto l’invisibile, se non un fantasma soddisfatto?

Margaretha Geertruida Zelle detta Mata Hari, vera e falsa
Fu la pantera e il serpente. Fu vergine e puttana. Fu sincera e bugiarda, colpevole e innocente. Fu tante vite che al vostro povero biografo toglie tutta la fantasia (poca, per fortuna) che ha. Fu a Zurigo. Là, trapunta di braccialetti (alle caviglie, alle braccia – su su fino al bordo delle ascelle -, ai polsi – quasi un presagio delle manette), debuttò come ballerina al Café Odeon, dove Lenin chiacchierava con Joyce e, quarant’anni dopo la sua morte, Carl Seelig avrebbe incontrato il giovane Jochen Greven per parlargli di un genio appena morto e già dimenticato. Fu a Vincennes. E fiera, ma si lascia legare al palo docilmente. I due dragoni le fanno un nodo finto, come le comparse in un dramma a lieto fine. Potrebbe liberarsi facilmente, ma non lo fa. Tiene alla Storia, mica al teatro. Rifiuta di farsi bendare gli occhi. Vuole vedere l’alba. Al comandante del plotone di esecuzione dice: «Non è per niente che Mata Hari vuol dire Luce del Mattino». Sente la musica del fuoco.Non sentirà, per sua fortuna, la tromba degli zuavi che attacca sbadigliando una stonata marcia funebre. E il 15 ottobre del 1917. Dieci mesi prima, quando erano venuti ad arrestarla nella sua camera d’albergo, dalla vasca da bagno era uscita nuda nata per sbalordire quei semplici gendarmi. Già. E andata a letto con tutti gli uomini, con principi e milionari, con Céline e Marinetti, ma ha amato solo gli ufficiali. «Preferisco essere l’amante di un ufficiale povero che l’amante di un banchiere ricco». Le piacciono i soldi e fare l’amore senza pensare ai soldi.Sospettata di spionaggio, aveva subìto un curioso processo, in cui l’aula del tribunale era la ribalta di un teatro e le prove della sua colpevolezza fantasiose come la sua vita (trentadue anni più tardi, il procuratore Mornet, che aveva sottoscritto la condanna a morte, avrebbe dichiarato alla radio: «Non c’era di che frustare un gatto»). Nemico della frivolezza, il nuovo secolo aveva giudicato e giustiziato non lei, ma quell’Epoca che continuiamo a chiamare Bella.

Hildegard von Bingen, dottoressa in castità
Cinque anni più tardi, il volto pietosamente coperto da una garza di seta preziosa, il corpo già devastato dalle piaghe, sulle sue gambe malferme salì al trono. Avrebbe combattuto coraggiosamente molti nemici: una madre malvagia e una sorella sciocca, i baroni intriganti e l’imbattibile Saladino. Forse a concedergli quel coraggio fu il dolore, che a noi lo toglie. Avrebbe perso l’uso delle braccia e delle gambe, che cominciavano a decomporsi. Avrebbe quasi perso l’uso della vista. Fu fortunato, se si potesse dire. Le umiliazioni che la malattia non risparmiò ai suoi occhi risparmiarono a lui di vedere quelle che stava per subire il Regno. Finalmente, il 16 marzo del 1185, la morte venne a liberarlo. Non tornò polvere perché lo era già. Tutto, del resto, a Gerusalemme era polvere, perché quell’anno le piogge invernali non erano cadute. Aveva ventiquattro anni.A tre anni vide per la prima volta le luci abbaglianti che ci mettono in contatto con Dio. Sarebbero i sintomi di una severa emicrania, ma i suoi erano altri tempi. A otto, fu fatta entrare in un convento. Altri ne avrebbe fondati, senza alcun maschio incappucciato a dirigerli. Ligia alle regole benedettine, le violò: deplorò le flagellazioni, il cilicio e il digiuno. Salvata l’anima, anche il corpo sarà salvo, e noi liberi di goderne i piaceri. Di gracile costituzione, malata ogni momento, visse ottantuno anni. Va bene che, monaca, era scampata alla quasi certa morte da parto, ma il fatto, che per quei tempi era un record, resta. Scrisse un’intera biblioteca, di lettere a papi e a principi, a santi e a vescovi, di libri penitenziali, di trattati di teologia, di medicina e di botanica, di luminosi spartiti di canti gregoriani. Sarebbe il sintomo della grafomania compulsiva, ma non crediate: ancora settantenne, inferma come e più di prima, gettati la penna e il calamaio, correva incontro ai suoi destinatari in groppa a un baldanzoso cavallo tedesco. Fece anche di più. Impeccabile dottoressa in castità, descrisse minutamente l’orgasmo femminile senza averlo mai provato.

Paul Celan, l’uomo d’autunno
Ha nel destino l’autunno, come il malinconico Babel’. Se se n’è andato in primavera, tuffandosi nelle acque di un fiume straniero, è per fare al Destino l’unico dispetto possibile. Ha avuto in sorte, misteriosamente, un giorno e un mese. È il 23 novembre del 1970 che Gisèle, moglie adorata e tradita, scrive alla Bachmann, amante del marito da una vita, per ringraziarla delle rose: « I suoi fiori sono qui: vengono da qualcuno che come me ha sofferto per Paul e come me lo ha amato». (Poi la Bachmann, sola, disperata e distratta, sarebbe morta fra le fiamme aizzate nel suo letto romano da un macilento mozzicone di sigaretta). Era il 23 novembre di cinque anni prima quando lui, colpendo lasua Gisèle con un obnubilato coltello da cucina, aveva rischiato di ammazzarla. (Poi le avrebbe scritto a mano, perché la battesse a macchina, questa angelica supplica: «Ficca il cordoglio nelle borse degli occhi, / il grido della vittima, il diluvio salato, / arriva con me a una tregua / e oltre»). Era il 23 novembre di cinquanta obbrobriosi anni prima che lui, davanti agli indimenticati pioppi della Bucovina, era nato.Si dice che tre indizi facciano una prova, ma lui sorriderebbe: di questa voce e di questa pagina, che a quella voce incautamente crede. Scriveva poesie, sfidando l’anatema di Adorno (scrivere poesie dopo Auschwitz è pura barbarie). Scriveva versi come questo: «Le prove fiaccano la verità».

Sabine Charrière da Nîmes, l’indecisa
Ebbe in sorte un busto tozzo e corto montato su gambe vertiginose. Al volto, diafano e cremoso come la carta di un’edizione pregiata, facevano ala due orecchie da poco, come se ne vedono tante. Ebbe in eredità la casa avita in place de la Madeleine. Cosa mi metto oggi? Ogni mattina passava le ore davanti all’enigmatico guardaroba, finché, stremata dai cavilli, sorpassata dal tempo, non decideva di restare a casa. È meglio se non esco, si diceva. Se usciva, puntualmente esitava fra l’Est e il Sud. Se faccio rue Emile Jamais (cognome che raggela), di certo dal tetto di un palazzo antico si staccherà al mio passaggio una tegola aguzza; se prendoil boulevard Victor Hugo, incontrerò di certo una sommossa urbana che sta per divampare e fare le sue vittime. Crespi o lisci? Un giorno affatturava i suoi capelli biondi con la piastra, e un altro con il ferro. Andò avanti così, pazientemente. Ci sono scrittori che non scrivono e marinai che non navigano. Ci sono sarti che non cuciono e vivi che non vivono, o vivono a quel modo. Cosa sarebbe la vita senza questo perenne viavai di obblighi inconsistenti e impegni insulsi, lo sanno solo in due: Dio e lei. La notte della fine, una notte indecisa fra il 12 e il 13 gennaio del 1978, si stupì. Vicina, la morte ha qualcosa di così inverosimile che lei esitò fino all’ultimo prima di credere che fosse la sua. Nessuno, in ogni caso se ne accorse. In Francia, da dicembre a marzo, nessuno si interessa di qualcuno.Chet Baker, l’uomo che morì per la sua trombaSi giocò i denti. Un giorno, a San Francisco, glieli spaccò un pusher incazzato. Ogni giorno si giocò la salute: troppo alcool, troppe droghe. Ogni giorno, sapendo che altrimenti non avrebbe senso, si giocò la vita.Si avvicina ciondolando al microfono. Lascia oscillare i lunghi capelli biondi che lava raramente. Lascia passare otto interminabili battute, e solo allora attacca. Sa che la materia prima della musica è il silenzio. Sa che la prima nota avrà un’intensità altrimenti irraggiungibile.Fuma anche sul palco. Pompa dentro la Martin Committee nascosto da una nuvola di sigarette senza filtro. Non assomiglia a Chet Baker. È proprio lui.Stava per giocarsi anche la sua tromba. L’ha dimenticata al terzo piano del Prins Hendrik, da cui l’hanno appena cacciato perché è troppo ubriaco. Non vuol passare dalla reception, e per recuperarla si è messo a scalare la fottuta facciata dell’hotel. E un alpinista stonato. Mette un piede in fallo, e cade nel vuoto. È il 13 maggio del 1988. Con lui, su Amsterdam e sul mondo, cadono la musica e il silenzio.

 


Brano corrente

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