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18 Ottobre 2012 | Racconti d'autore

Falene. 237 vite quasi perfette

Di Eugenio Baroncelli, Sellerio editore, Palermo, 2012 (seconda puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

18 ottobre 2012

Libro formidabile, questo che vi proponiamo: elogiato da Roberto Saviano (“Quanto mi piace quell’Italia minore”), racconta le storie di persone comuni, poco note o, talvolta, famose, comprimendole in una sola pagina, e spesso meno. Queste mini biografie puntano subito al sodo: com’è morta la persona? E’ la morte che spiega la vita: “Il solo stato di perfezione alla portata di un mortale è la morte”, spiega Eugenio Baroncelli, scrittore di Ravenna nato nel 1944, che prima di questo “Falene”, ha pubblicato presso Sellerio altri due raccolte di vite brevi, “Libro di candele” e “Mosche d’inverno”.
“I suoi tre libri di biografie – ha scritto Saviano – li porto in borsa da molto tempo. Da poggiare sui comodini dove mi capita di dormire. Leggo una biografia a notte eogni volta ho l’impressione di aver conosciuto, davvero conosciuto, una persona diversa. Perché Baroncelli è un virtuoso della vita altrui. Perché divora migliaia di pagine per partorire una stilla di cristallo o una pietra dura”. Di Baroncelli dice ancora: “L’Italia letteraria nasconde questi autori preziosi, figli di una tradizione spesso dimenticata, che scrivono per il piacere dei lettori”.

Charles Bolden detto Buddy, maestro muto
Fu due follie: un indimostrabile campione del Dixieland e un qualunque uomo ridotto al silenzio. Nella cornetta soffiò note che nessuno di noi ha mai ascoltato. Non c’è registrazione che ci aiuti a ricordarle. C’era lui, ma le avrebbe dimenticate. Nel 1907, visitato dalla demenza, fu rinchiuso in un manicomio di Jackson, Louisiana, dove avrebbe passato gli ultimi ventiquattro anni della sua esistenza. Entrò nel buio. Anonimo è il rullo che ha impresso sul suo destino il nome che gli diamo, vita. Entrava nell’oblio, senza sapere che lo avrebbe trasformato in una inviolabile leggenda. È inascoltabile, cioè perfetto.

John Coltrane, un amore supremo
Muore al principio di un’estate, vicino al suo quarantunesimo compleanno, per un cancro al fegato che negli ultimi mesi lo costringeva a suonare seduto. Sapete che da sempre era tormentato dal mal di denti, l’unico, con le emorroidi e le coliche renali, che concedeva alla vittima l’indulgenza per bestemmiare? Sappiamo che non ne profittò. Nella sua musica astrale c’è anche questo: il misericordioso ammaestramento del dolore fisico. C’è niente di più materiale di una bocca devastata dalle fitte che si schiude sull’ancia di un sax tenore? La nostra vita se ne infischia della coscienza, cioè della verità. La nostra vita non conosce che le categorie del dolore e del piacere. La sua, no. Nel suo fraseggio si vede Van Gogh che dipinge corvi con la mano piegata dall’artrite e uno scialle sulle ginocchia. Si vede Rothko che, pensando e ripensando al suicidio (che verrà), sulla tela stende un luminoso schiaffo nero. Si vede Rachmaninov che, fatta la pace con i pedali del suo piano, riscrive il Concerto numero tre. Tutti doloranti e, come dire?, felici.

Billie Holiday, battuta in volata
Correva, ma la sua vita corse più veloce. Vengo da una famiglia nera di Philadelphia. Clarence Holiday, l’uomo che dicono fosse mio padre, suonava il banjo con Fletcher Henderson a New Orleans. Quando sono nata, lui aveva quindici anni e mia madre tredici. A undici anni sono stata violentata. A tredici, facevo la puttana. A quindici mi sono trasferita a New York, e là ho cominciato a cantare. A quarantaquattro, quando sono morta, avevo 750 dollari nella tasca del cappotto e 70 centesimi sul conto corrente.

Freddie Hubbard, la musica per sempre
Fu caro agli invidiosi dèí della musica. Da giovane, fu la magnifica tromba di Coleman e Coltrane. Apriti, Sesamo, soffiò nel suo primo disco da solista, ma Sesamo non si sarebbe aperto. E troppo bravo, decisero lassù, e gli sfigurarono il labbro con un malevolo tumore. Credevano di averlo messo a tacere per sempre, ma si sbagliavano. (Ah, santa ingenuità degli dèi). Lui al silenzio non si rassegnò. Per molti anni, fino all’altro ieri, guidò un gruppo in cui un altro trombettista, un sosia irriducibile, suonava la sua musica.

Robert Leroy Johnson, la musica del Diavolo
Martedì 16 agosto 1938. Sta nel crepuscolo orlato di rosso dei suoi anni: ventisette, poco meno dei ventinove sulfurei blues che ieri ha inciso in Texas e oggi fanno la sua leggenda. Gli piace essere galante, soprattutto con le donne, ma la Morte, se è una donna, non apprezza la galanteria. Tiene al vestire, ma la Morte, per dispetto, gli va sgualcendo l’abito elegante. E alto come il sole dell’estate. E lungo come le sue dita snelle. E magro come un santo. Suonava come un dio, ma è figlio del Diavolo.Dicono che all’incrocio fra la Highway 82 e la Statale 49, a quattro passi da Greenwood, Mississippi, chi è fortunato può incontrarlo, il Diavolo. Là, la sera del 13, è uscito barcollando dal locale malfamato in cui ha incontrato il suo destino. Dicono anche che il Diavolo sia femmina, ma a versargli nel whisky una generosa dose di stricnina è stato un maschio, maritato e geloso. Dicono che il Diavolo è un vagabondo, e lui ci crede. Cantava: «Potete seppellire il mio corpo sul ciglio della strada, così il mio vecchio spirito maligno potrà prendere al volo un bus della Greyhound e farci un giro». Cantò quel pezzo anche quella sera.

Janis Joplin, tutto in una sera
Ieri, da qualche parte vicino a Salinas, ha perduto l’innocenza, l’amicizia e l’amore. «Libertà è un’altra parola per dire che non hai più niente da perdere», cantava ieri. Cantava la sua vera vita. Oggi sta a mille miglia da Salinas e a pochi mesi dalla fine. Oggi è a New York. Sta al Chelsea, il leggendario e fatiscente hotel in cui Dylan ha sognato la sua signora dagli occhi tristi e Sid Vicious ammazzerà nel sangue la sua fidanzata dagli occhi increduli. Son scese le ombre della sera. Lei aspetta che scenda il montacarichi che i proprietari dell’albergo si ostinano a chiamare ascensore. Un uomo misterioso si avvicina e le chiede: « Signorina, sta aspettando qualcuno?». Lei ride. Nessuno la chiama signorina, ed è sicura che l’altro l’abbia riconosciuta. Dice: « Sì, sto aspettando Kris Kristofferson». L’uomo sorride. Dice: «Lei è fortunata, signorina. Io sono Kris Kristofferson». Ridono tutti e due, si infilano nel montacarichi e salgono in camera. Lei gli fa un pompino sul letto disfatto («giving me head on the unmade bed»), mentre le limousine aspettano giù in strada. Lei stringe i pugni pensando a quelli come loro, ossessionati dalla figura della Bellezza («oppressed by the figures of Beauty»). Si è fatto tardi. Lei si riveste. Si liscia l’abito sgualcito, si pettina i capelli con le mani, ma non basta. Dice allo specchio: «Non importa. Siamo brutti, ma abbiamo la musica». Già. L’uomo, che avevo dimenticato di presentare, è Leonard Cohen.

Dorothy Parker, regina della Tavola Rotonda
Nata Rothschild (non quei Rothschild, ma altri comunque molto ricchi), rubò il cognome, che le sembrava perfetto per una scrittrice, a un marito di cui fu moglie «per circa cinque minuti». Scrisse gli articoli giusti e amò gli uomini sbagliati. A parte il gin, che il suo stomaco non reggeva, bevve tutto l’alcool che si può trovare a New York. Attorniata dalla crema dei giornalisti dell’epoca, nessuno dei quali è più bravo di lei, tiene banco a un tavolo riservato del bar dell’Algonquin, dove Dylan Thomas prese l’ultima delle sue mitiche sbornie. Brinda al successo. Ride e, soprattutto, fa ridere gli altri. Dicono che fosse la donna più spiritosa d’America. Il bar, che si chiama Blue (Azzurro o Triste, fate voi), sarebbe entrato nella leggenda grazie a lei. Brinda anche agli uomini, ma questa è un’altra storia. Quelli le entrano e le escono di casa come le settimane. Arrivata a quarant’anni, scrive: «Ogni amore è l’amore precedente / con un abito più scialbo». Il sesso, spiegaai suoi lettori, lo ha messo da parte « nello scaffale più alto, in una scatola su cui sta scritto: Cappelli invernali-1916». A intervalli regolari tenta il suicidio, ma nessuno la prende sul serio. Una volta sono i polsi, che poi avvolge in eleganti nastri azzurri e mostra indignata ai cavalieri dell’Algonquin: « È che il mio ex marito non mi ha lasciato lo straccio di un rasoio affilato». Più spesso sono i barbiturici, che ci lasciano il tempo di pentirci. Ha più di un’automobile, ma le manca la vigorosa fantasia di Anne Sexton. A intervalli regolari manda all’inferno quei fottuti editori che la incalzano perché scriva senza sosta. Fra una bottiglia di scotch e l’altra, sogna di «ritirarsi in campagna e passare il resto della vita a coltivare assegni». Vivrà a lungo. Vecchia, confesserà che il suo passato è «una fuggevole e labile sequenza, un film mediocre che mostra solo volti e ,corpi di sconosciuti». (Le piacciono, come a me, frasi ampollose di questo genere). Vecchia, morì all’improvviso nel 1967, tradita da quell’uomo del suo cuore. Aveva fatto in tempo a dettare questo epitaffio: «Scusate la polvere». Lascia i suoi lauti diritti d’autore al reverendo Martin Luther King e la sua vita amara e dolce a chi sta ancora leggendola.

Nicholas De Staél, o la pittura o niente
Antibes, 16 marzo 1955.Sta nella sera, che scende con il passo di un araldo. Scrive. Al suo mercante, Jacques Dubourg, scrive: «Non ho la forza di finire i miei quadri». Lascia sul cavalletto l’abbozzo del Concert, musica ferita. Apre la finestra del suo studio e si butta di sotto, su quelle mura di pietra in faccia al mare. Cos’è una vita se non sai più dipingerla?

Tiziano Vecellio, l’uomo che non sapeva morire
Lavora con mani che tremano a una Pietà per la Chiesa dei Frari. Dovrà farne un capolavoro, perché quella potrebbe essere la sua ultima opera, e lui vuol diventare immortale. Strano, perché sembra che la Morte, a quei tempi, si sia dimenticata di Venezia e dei suoi pittori. Giovanni Bellini arriva a 86 anni, Pietro Longhi a 83, il Guardi a 81. «Ecco il quadro. Domani sarà pronto», dice nel delirio la notte del 27 agosto 1576. Si addormentò per non svegliarsi più. Per finirlo si è dovuta scomodare la peste. Nel registro dei morti della parrocchia di San Cancian qualcuno ha annotato la sua età: « 103 ». Completò il quadro, con reverenti pennellate, il veneziano Jacopo Negretti detto Palma il Giovane, che sarebbe morto nel 1628, a 84 anni.

Carl Maria von Weber, l’uomo che sfidò la morte
Tenne alla sua musica più che alla sua vita. Ha i polmoni della madre Genovefa, storpiati dalla tubercolosi come il volto di un aviatore dalla fantastica velocità del volo. Nel 1824, quando la Covent Opera House gli commissiona un’opera (sarà Oberon, adattamento di quel sogno che Shakespeare aveva fatto in una notte di mezza estate), nessuno dei due esita. Il medico gli dice che se accetta di condurre una vita tranquilla, astenendosi da qualsiasi fatica, potrà vivere ancora per molti anni (ne ha trentotto), e lui si mette a sgobbare giorno e notte sullo spartito. Lo completerà. Per raggiungere Londra e la sua tomba salterà su una scomoda carrozza e tremerà su un bastimento che sfida le onde. Vedrà la prima: è il 12 aprile del 1826. Vedrà la luna spuntare nel cielo della musica (sembra un miracolo, ma forse non lo è). Vedrà l’ultimo colore dello spettro – il violet de bureau. È la notte fra il 4 e il 5 giugno. Non arrivò a vedere l’alba. L’anno seguente, alle sei della sera del 12 agosto, il settantenne William Blake muore come lui, cantando inni: ancora Londra, ancora musica. Diciotto anni più tardi, Wagner avrebbe fatto trasferire a Dresda il suo corpo inglese perché ritornasse tedesco.

Arpcíd Weisz, vittorie perdute
Bologna. Sta in via Valeriani, a mille passi dallo stadio che oggi chiamiamo Dall’Ara. Viene dall’Ungheria. Ha messo la patria nella valigia ed è venuto qua. Viene dall’Ambrosiana Inter, con cui ha vinto lo scudetto del ’29 e in cui ha fatto esordire un certo Meazza, detto Peppin. Tiene cinque uomini bloccati dietro. Fa pochi gol, ma ne prende ancora meno. Ad Andreolo dà il ruolo del regista. A Biavati dà la fascia, perché, giocando largo, col suo leggendario passo doppio procuri le vertigini ai terzini. Vince due scudetti consecutivi. Nel 1937 porta la squadra a Parigi e batte i maestri inglesi del Chelsea quattro a uno. Trionfa, ma c’è un ma nel mulinello inspiegabile della Storia e in quello infame del suo destino. Ha il sangue di un ebreo, che nella valigia non può nascondere. Inseguito dalle leggi razziali, deve lasciare l’Italia. Con moglie e figli corre come un ladro in fuga l’insicura Europa. Sarà arrestato e deportato a Auschwitz. Là tremerà di freddo e di dolore, lui che aveva fatto tremare il mondo. Lavora troppo e mangia poco. Muore il 31 gennaio 1944. Morì del tutto, ieri finito dagli stenti e oggi dimenticato dalla sbadata memoria dei vivi.

Virginia Woolf, la donna che amava le falene
Storie di falene. Lei, Virginia, che la sera le attirava spalmando miele sul tronco dell’albero, e alla luce dellalanterna si metteva a spiare il loro piccolo morire urgente. Storie di cieli. Lei che la notte alzava gli occhi in cerca della stella più disubbidiente. Storie di quasi aprile, il più pietoso dei mesi. Virginia, ancora lei, che, lasciata sulla mensola del camino l’ultima lettera per Leonard, afferra bastone e cappello e va all’appuntamento con il fiume. Chi sa se avrà cercato un aggettivo serpentino per redimere la dirittura delle acque? Io so che raccoglie due grosse pietre, se le mette in tasca e corre incontro all’unica storia che non racconterà.

L’uomo che sanguina
Visse e morì nel sangue. Quello che scorre nelle sue vene di principe. Quello che gli imbratta le mani quando non accarezzano dolcemente le corde della chitarra o non ingentiliscono, indolenti e guantate, i suoi modi da gentiluomo spagnolo. E un genio solitario e un marito geloso. All’alba di un diciassette ottobre, un mercoledì, sorprende a letto i due amanti, la moglie Maria e Fabrizio Carafa, e li finisce con la sua nobile spada. Arrossa quel vietato groviglio di lenzuola come il sole che nasce l’indifferente cielo di Napoli. E bello e malinconico. Sangue è la lama della luce che a tradimento ferisce l’ombra, della sua anima e della sua musica. Sangue l’intralcio dell’artificio, che insinua il dubbio in chi crede che il bello sia lieto. È Caravaggio, il fulmine e la tenebra, che compone madrigali. E ipocondriaco e feroce. Da sempre vive all’ombra della morte. Da sempre sferza il suo immeritevole corpo fino a farlo sanguinare. Se ne va a quarantasette anni, finito forse dalla più astuta delle sue piaghe, che non sanguina più ma si è infettata.

Brano corrente

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