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13 Gennaio 2011 | Racconti d'autore

Non fare la cosa giusta

di Alessandro Berselli, Perdisa Editore, 2010 (seconda puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

13 gennaio 2011

Claudio Roveri è un informatore medico scientifico. Conduce una vita di apparenze: è un professionista affermato, ha una famiglia felice, nessun motivo per non sentirsi soddisfatto, eppure le cose non vanno bene.  Roveri cova il disagio. Odia Bologna, che è diventata una città diversa da come se la ricordava: neri, sbandati e zingari ai semafori, e quella sensazione di degrado che ha ogni volta che cammina per il centro. Roveri odia, ma non fa nulla. Si rifugia nella famiglia, negli amici di sempre, nel lavoro. Fino a quando reagisce, assecondando la sua vera natura. Una sera durante un rapporto sessuale con una giovane dottoressa conosciuta per lavoro, sente suonare il cellulare, ma non risponde. A chiamare è sua figlia, in cerca di aiuto. La vita di Claudio Roveri, da quel momento in poi, cambierà per sempre.

Alessandro Berselli inizia a scrivere nel 1991. Affascinato da Stephen King e Bret Easton Ellis, approda al noir nel 2003, attratto da quella che chiama “la follia del quotidiano”. Nel 2005 esce il suo primo libro Storie d’amore di morte e di follia (Arpanet), a cui seguono Io non sono come voi (Pendragon, 2007) e Cattivo (Perdisa Pop, 2009), vincitore del premio “Il libro dell’anno 2009/2010” indetto dai licei classici di Perugia, in collaborazione con il Teatro stabile dell’Umbria e Umbrialibri. 

(Fantasie)

Tua madre parte per New York alle sette e venti di do­mani sera. Una trasferta di lavoro, corso di aggiornamento o qualcosa del genere. Non mi sono mai interessato più di tanto di quello che succede in queste situazioni.

L a aiuto a preparare la valigia. A fare il punto sugli og­getti, per evitare che ne dimentichi qualcuno. Mentre metto il phon nella tasca interna penso che se l’aereo cadesse o qualcuno le sparasse in una strada di Brooklyn, dal mio punto di vista non ci sarebbe solo dolore. Ne derivereb­be anche una sorta di variante sul tema. Un avvenimento comunque nuovo che arriva, inaspettato, a stravolgere la routine. I-‘, per questo non del tutto negativo, pur nella sua enormità. Perché mi consentirebbe, per un po’ di tempo, di non dovere pensare sempre alle stesse cose. Mi costrin­gerebbe ad affrontare il lutto. E i rapporti con le persone cambierebbero sensibilmente. La gente avrebbe molta più comprensione nei miei confronti, farebbe quadrato intorno alla mia sofferenza.

«L’hai messa tu la spazzola?».

La domanda interrompe i pensieri, e ritrovarmi nella solita routine che mi appartiene non è affatto un sollievo.

Eppure lo so che la amo, e che la vita senza di lei non saprei nemmeno da che parte ricominciarla. Sono legato alle nostre piccole cose, a quei gesti minimi che mi sono indispensabili. Per questo non ho il coraggio di lasciarla. Per questo vorrei che fosse Dio o chi per lui a decidere. Se lei muore io non posso fare altro che farmene una ragione. Non è più una questione legata al mio arbitrio. Lei non c’è e io ho facoltà di amarla senza averla tra i piedi. Posso rimpiangerla, ricordarla, andare a trovarla al cimitero. E nello stesso tempo fare quello che mi pare senza vincoli di sorta. E nessuno può mica dirmi niente. lo sono la vittima, il vedovo, il marito inconsolabile che cerca di rifarsi un’esistenza.

Qualsiasi cosa, lirica, ma non la noia. Ecco quello che penso. Sarò anche cinico ma è così.

Entri nella stanza. Hai in mano dei prodotti. Balsamo, gel, creme per il viso. Li butti sopra il letto, senza cura, né riguardo. Chissà. Forse anche a te girano in testa gli stessi miei pensieri. Mi solleverebbe molto sapere che non sono l’unico. Mi darebbe una sorta di tranquillità. Mi aiuterebbe ad affrontare il dolore, a conoscerne gli estremi per una sua condivisione. Guardare dalla tua parte e comprenderne la dimensione esatta. La regina è morta, e quindi viva la regina. Perché con la sua morte è lei che ci ha salvato.

«Ti serve altro, mamma?».

Ti osservo. Cerco di interpretare se le mie ipotesi sono un azzardo o un terreno praticabile. Non decodifico, rimango nel dubbio. Forse dovendo scegliere preferiresti sbarazzarti di tuo padre. Forse dovendo scegliere preferiresti che sparissimo tutti e due. E rifondare la tua esistenza sul non avere niente intorno e l’assenza di affetti. A me piacerebbe che non mi amasse nessuno. E avere una vita fatta solo di persone nei confronti delle quali non significo nulla. Non è sempre così, ma lo è sempre più spesso. A volte vorrei fare solo quello che mi va. Altre sento il bisogno della mia casa e della mia famiglia. E sapermi in mezzo tra emozioni così contrastanti mi soffoca. Mi crea angoscia.

«No, ti ringrazio tesoro. Finisco da sola».

Usciamo. Camminiamo in silenzio per i sette passi che ci separano dalla tua camera.

«Speriamo che vada tutto bene», ti dico.

«Si, sete non le succeda nulla di male»,

Che l’aereo cada, che nessuno le spari. Speriamo che ritorni a casa sana e salva. Per andare a tare la colazione insieme la domenica mattina, e guardare la televisione sul diva no ogni sera che Dio manda sulla terra. Per quindici giorni di vacanza al mare. Per la settimana bianca che facciamo in Per quei due o tre ponti durante i quali decidiamo di andare via.

Tutto sempre uguale, identico. Oramai preferisco i giorni di lavoro a quelli in cui sono a casa. Troppa prevedibilitìtà nel mio tempo libero. Ho bisogno di respirare, cambiare prospettive, stravolgere gli equilibri.

«Allacciatevi le cinture di sicurezza, stiamo altraversando una zona di forti turbolenze».

Sarebbe bello sentire il suo nome  al telegiornale. Essere intervistato su quello che penso e su quello che provo. Vedere la nostra casa al –TG5, con un giornalista seduto sul divano a interrogarci sugli stati d’animo.

«E terribile, me lo sentivo che sarebbe successo qualcosa. Mentre preparavamo le valigie avevo avuto una specie di terribile premonizione».

Come in quel film. Final Destination. La ragazza vede in anticipo che l’aereo si schianta. E dice agli amici di restarsene a terra. Anch’io vedo in anticipo che l’aereo si schianta. Solo che io non faccio nulla per farla rimanere a terra. La lascio partire. La lascio morire.

Fantasie, Erica. Nient’altro che farneticanti fantasie.

 

(Chiamata senza risposta)

La seconda volta con la Ricci succede sempre nel suo ambulatorio.

Sempre al venerdì, sempre alle sette di sera. Entro con la mia valigetta, la saluto come se non dovessi fare nient’altro che il mio lavoro, e senza tante cerimonie ci regaliamo un’ora di sesso in cui nessun pensiero esterno viene a minare il nostro piacere. Non ci sei tu, tua madre, i sensi di colpa, la Villa, la noia, nulla. Solo io, lei e un po’ di orgasmi da conseguire. Un paio per me, e un paio per lei. Se sarò bravo. Se non farà finta.

Assecondo i suoi respiri («l respiri di una donna sono il metronomo dell’amore», mi ha detto una volta Federico. «Se segui quelli non sbagli».). Solo che mentre lo faccio, suona il cellulare. Allora smetto di seguire i respiri e comincio a contare gli squilli. Quattro, cinque sei. Nove. Poi il rompiscatole abbandona. La cosa non ci distrae più di tanto. Chiunque sia, potrà aspettare. Tua madre è in volo, tu sei fuori a cena con Camilla, e di tutto il resto chissenefrega. Siamo meno imbarazzati questa sera. E con il minor imbarazzo ne consegue anche meno cura dei dettagli. Meno convenzioni e meno preliminari. Più voglia di arrivare al dunque. E ci arriviamo al dunque. Un sacco di volte. Unicità di intenti e perfetta armonia. Una congiunzione carnale da manuale, se mi pas­sate il narcisismo. Nessun dubbio possibile sulla reciproca soddisfazione.

Restiamo uno dentro l’altra, non c’è nessuna fretta. La Ricci prende la pillola, quindi il piacere è allo stato puro. Continuo a rimanere concentrato sul respiro. Che dopo il sesso diventa più lento, più incostante. A volte passa anche un po’ di tempo tra un respiro e un altro. Alcuni sono molto lunghi, come se cercasse di riprendere un ritmo normale e non ci riuscisse. Mi accorgo che è bellissima la fusione tra corpi, e che cercare di reprimere la propria parte animale in ragione di una presunta fedeltà è il più grande torto che si possa fare alla nostra esperienza terrena. Siamo fatti per catturare attimi di piacere, e non c’è piacere più grande di quello che ci siamo appena concessi. Ho represso tutto per troppi anni ma adesso basta. Tua madre non c’entra nulla. Lei c’è. E la amo. Ma questa è un’altra cosa. Non c’è sovrapposizione, o conflitto di interessi. Dice bene chi mette l’amore da una parte e il sesso dall’altra. Lei è su un aereo a mille chilometri da dove sono io. Cosa le tolgo facendo quello che ho appena fatto? Niente, non le tolgo assolutamente niente. Devo lavorarci su questo nuovo concetto di fedeltà. Scorporarne la parte fisica, ridurla a esperienza spirituale. Lasciare il sesso fuori dalla questione. E se le cose capitano, non farsele mancare.

Guardo il cellulare. Sei tu che mi hai cercato. Provo a telefonarti ma l’operatrice dice che il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile. E che devo riprovare più tardi.

Non mi preoccupo più di tanto. Mi rivesto. Vado a casa.

 

(E fuori è buio)

Mi sono addormentato sul divano. Quando mi sveglio guardo l’orologio. Sono le due e venti. Quindi sei già rientrata e non ti ho sentito. Mi sei passata davanti e non me ne sono neanche accorto. Nella porta però non c’è la chiave. Ti sarai dimenticata di metterla. È impossibile che tu sia ancora fuori.

Salgo le scale. Arrivo nella tua camera. Non ci sei. Il letto è ancora fatto. Sulla coperta c’è sempre quel CD dei Blonde Redhead che ascoltavo l’altro giorno. Non me ne frega niente dei Blande Redhead. Voglio sapere dove sei. Ti avevo detto a casa alle undici. Sono passate più di tre ore.

Scendo. Prendo il cellulare. Ti chiamo.

« Vodaphone. Messaggio gratuito. Il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi».

Fottiti. Non richiamo più tardi. Ho bisogno di chiamarti adesso. F, quindi telefono a Camilla. Tre quattro otto, quattro quattro, due nove, tre quattro zero. Suona un sacco di volte ma alla fine risponde.

«Pronto?!».

«Camilla, sono Claudio. Il padre di Erica. È lì con te?».

Silenzio. Pochi secondi, ma sembrano un tempo interminabile.

«Camilla?!».

1a sento respirare. «No. Non c’è».

Pensieri disordinati si accavallano senza criterio. Federico che litiga con Tedeschi, un paio di scarpe da trecento euro che ho visto da Tassinari, le previsioni meteo che hanno dato brutto tempo per almeno quattro giorni.

«Nel senso non c’è e sta venendo a casa?!».

Ancora silenzio. Ancora pochi secondi. Ancora un tempo interminabile.

«Non ci siamo visti stasera, signor Roveri. Ma che ore sono?».

L’ultimo film di Salvatores. Un incidente in tangenziale con due feriti e una signora che piangeva. Il pacchetto di Marlboro sul tavolino dell’ingresso. La partita a tennis con Mariani di venerdì prossimo.

«Come sarebbe che non vi siete visti? Non era con te stasera?».

Sento sua madre che entra nella stanza. «Camilla?! Ma chi è?!». «Il signor Roveri. Cerca Erica».

Frasi incomprensibili e il cellulare che passa di mano. «Claudio?!».

«Si, Alessia. Sono io. Scusa l’ora, Erica è li da voi?». Domanda inutile. So già che non ci sei, me l’ha appena detto Camilla. Ma ho bisogno di sentirmelo ripetere. Per farmene una ragione probabilmente.

«No, Claudio.Non c’è. Camilla è stata in casa tutta sera.

Da sola. Ti aveva per caso detto che sarebbe venuta qui?».

Il video di Give it Away dei Red Hot Chili Peppers. Il quadro di un amico di Fabiana che non mi è mai piaciuto anche se è dieci anni che lo teniamo appeso nel salotto buono di casa. Il sapore dello sciroppo per la tosse che bevevo da piccolo e di cui adesso non ricordo il nome. Il pigiama della Arimo che mi hai regalato due anni fa.

«Si».

Riattacco.

Non saluto, non chiedo informazioni, chiudo la conversazione e basta. I pensieri adesso sono un milione, e arrivano tutti contemporaneamente. Impossibile distinguerli. So che non devo preoccuparmi, che a tutto c’è una spiegazione e che le cose brutte succedono solo agli altri. Provo a richia­marti ma la voce è sempre quella dell’operatrice.

«Vodaphone. Messaggio gratuito. Il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi».

Mi alzo. Cammino. Faccio quattro passi. Riflesso nella vetrinetta mi trovo spaventosamente invecchiato. Capelli bianchi, rughe, espressione stanca. Tre tre cinque, cinque due, quattro quattro, cinque cinque sei. Vodaphone, il telefono, la preghiamo.

Non so come comportarmi. Sottovalutare, sopravvalutare, fare, non fare. Il testo di una canzone di Tiziano Ferro che dice che quando non ritorni ed è già tardi e fuori è buio. Sono le tre meno cinque. Non è tardi. È tardissimo. Non è buio. È oscurità totale, è il punto più profondo della notte. Che ore sono a New York? Le nove? Dovrebbero essere sei ore indietro, se non ricordo male. La minestra di verdure che ho mangiato stasera non era per niente buona. Forse dovrei chiamare tua madre.

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