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8 Aprile 2020 | Racconti d'autore

Felsina e la leggenda di Aposa

Racconto di Angela Nanetti tratto dal volume omonimo, illustrato da Arianna Farricella (Argelato, Minerva Edizioni, 2019)

A cura di Vittorio Ferorelli (Istituto Beni Culturali Regione Emilia-Romagna). Lettura di Alessandra Ambrogi (associazione "Legg'io")

La collana “Fatterelli bolognesi. Storie della Storia di Bologna”, curata da Tiziana Roversi per le edizioni Minerva, unisce al piacere delle illustrazioni quello del racconto breve. Come questo, che ci trasporta al tempo degli Etruschi. Ringraziamo per la lettura Alessandra Ambrogi e l’associazione “Legg’io”

Bologna è una città molto antica, piena di storie: le raccontano le strade e le piazze, i palazzi e le torri, le chiese e i portici. Ma la storia più bella la conosce un torrente che non si vede, perché scorre sotto terra, sotto i piedi. Se gli chiedete come si chiama vi dirà che è il torrente Aposa, e vi racconterà la sua leggenda tormentata.
Al tempo degli Etruschi, un re partì dalla sua terra in cerca di fortuna. La città sulla quale regnava era ormai troppo piccola per tutti gli abitanti, i vicini erano prepotenti e allora il re decise di cercare un altro luogo dove stabilirsi. Fece costruire una nave solida con una grande vela. Imbarcò uomini, donne e bambini, il sacerdote e le statue degli dèi. Salpò, navigò, approdò e poi ancora camminò.
Fu così che dopo un lungo viaggio per mare e per terra arrivò con il suo popolo in una pianura verde e fiorita, solcata da un torrente lungo il quale crescevano salici, pioppi, olmi, querce e roverelle. «Che posto magnifico per vivere!» – disse il re – «Qui costruiremo la nuova città».
Con un aratro tracciarono il solco del perimetro della città, non troppo lontano dal fiume né troppo vicino, il sacerdote lo benedisse con le statue degli dèi, poi uomini e donne si misero all’opera.
Nei pressi del fiume scoprirono una cava di argilla, le donne prepararono i mattoni e gli uomini li trasportarono, quindi s’incominciò a costruire. Prima un tempio per gli dèi, poi le strade principali e la piazza del mercato, quindi le case, con il cortile e il pozzo. Alla fine stabilirono il luogo dove seppellire i morti, che per gli Etruschi era una seconda città. Al termine dell’opera il re fu molto soddisfatto e decise di chiamare questa nuova città col nome della figlia: Fèlsina.

Il re aveva anche un figlio maschio di nome Fero, che lui amava molto. Al tempo della costruzione di Felsina era un bambino dai capelli neri e crespi, che tutti lodavano per la sua bellezza e intelligenza. Un giorno Fero uscì dalla città e andò nella foresta vicina a raccogliere fiori per farne una collana. Gli Etruschi, infatti, sia uomini che donne, amavano molto ornarsi di gioielli d’oro e di bronzo, di collane, di bracciali e di fiori nei capelli, e cospargersi di unguenti e profumi. Mentre coglieva i fiori vide una bambina bionda che lo spiava da dietro una quercia: aveva i capelli lisci e lunghi fino al petto e gli occhi del colore del cielo. A Fero sembrò così bella che la credette una dea e si inginocchiò.
«Chi sei? Che cosa fai?» disse la bambina ridendo.
«Io sono Fero, il figlio del re della città di Felsina. E tu, sei una ninfa o sei una dea?».
«Io sono Aposa, una principessa, e mio padre è il capo dei Galli Boi» rispose la bambina, uscendo dal suo nascondiglio. Da quel giorno Aposa e Fero furono inseparabili.
Aposa abitava in un villaggio di capanne sulla collina, circondato da una palizzata di tronchi, e il suo popolo era formato da guerrieri e cacciatori, alti e forti, e da donne bionde che ripulivano le pelli e tessevano il lino. Amava la caccia e cavalcava, saliva sugli alberi e si tuffava nel torrente.
Fero accompagnava il padre e la madre nelle cerimonie religiose, assisteva ai lunghi banchetti nei quali si festeggiavano gli ospiti, osservava il lavoro degli artigiani che modellavano i vasi di creta e le coppe per le libagioni, e la partenza e l’arrivo dei mercanti. Suonava il flauto e danzava.
Ad Aposa sarebbe piaciuto essere una principessa etrusca, a Fero essere un guerriero e un cacciatore, così decisero che non si sarebbero lasciati mai e che da grandi si sarebbero sposati.

Quando Fero fu un giovane uomo, il re padre e la regina madre un giorno lo fecero chiamare. Il re era seduto nella sala più bella del palazzo, col manto regale e la corona di foglie di quercia dorate in testa. La regina, che gli era accanto, indossava l’abito delle cerimonie e portava i suoi orecchini più belli. «Figlio mio, è tempo che tu prenda moglie e mi sostituisca. Hai in mente qualche fanciulla come sposa?» gli chiese il re. Fero non aspettava altro!
«Sì padre, è una principessa bionda come l’oro e bella come il torrente che ci bagna!» rispose con entusiasmo.
Bionda come l’oro?! Al re non risultava che nel suo popolo ci fossero fanciulle di questo colore, erano tutte brune e crespe di capelli!
Quando seppe che si trattava della figlia del capo dei Galli Boi, quel popolo mezzo selvatico che abitava sulle colline, per poco non morì di crepacuore. Ma il giovane Fero tanto pregò e supplicò, che il re arrivò a un compromesso. «Bene» – disse – «una principessa deve sapere almeno suonare il flauto e danzare. Vediamola alla prova!».
Fero sorrise: lui aveva insegnato ad Aposa a suonare il flauto ed era diventata così brava che gli uccelli si posavano sui rami ad ascoltarla. Quanto alla danza, era più leggera e aggraziata di un petalo di fiore!

Aposa venne convocata al palazzo e suonò e danzò con tale bravura, ed era così bella, che il vecchio re quasi se ne innamorò. «Figlio mio, non potevi scegliere di meglio! Manderò subito un’ambasceria presso i Galli per chiedere le nozze».
Furono mandati gli ambasciatori, preceduti da suonatori con le trombe e seguiti da due servi con uno scrigno di gioielli, i più belli che gli artigiani etruschi avessero mai creato.
Non appena il capo dei Galli vide il corteo e seppe del tesoro, ordinò che venissero accolti come ospiti graditi e fece preparare quarti di cervo arrostito e boccali di birra.
Mangiarono, brindarono ai due popoli, ma quando gli ambasciatori proposero il matrimonio tra il principe Fero e la bella Aposa, il padre per poco non si strozzò con un boccone. Sposare uno straniero scuro di pelle e crespo di capelli, con tutti i guerrieri alti e biondi che se la mangiavano con gli occhi? Mai! Ma Aposa, tanto fece e tanto disse, minacciando fuoco e fiamme, che il capo si piegò a un compromesso.
«Bene» – disse – «vediamo questo straniero dalle gambe corte quanto vale come cacciatore! Che mi porti qui tra due giorni un orso e un cervo, e mia figlia sarà sua».
Non sapeva, il capo dei Galli, che gli Etruschi erano abilissimi costruttori di trappole, e che gli orsi più di ogni altra cosa amano il miele.

Con l’aiuto di Aposa, Fero scavò nel bosco una grande buca, la ricoprì con una rete e con rami di salice e tutto attorno posò ciotole di miele appena raccolto, poi tornò alla reggia.
Al mattino non trovò niente, ma verso sera un bramito feroce gli disse che l’orso era caduto nella trappola. E che orso! Forse non se n’era mai visto uno di quella grandezza! Ci volle un carro tirato da due buoi per portarlo al villaggio dei Galli e, quando arrivarono, tutti lo circondarono, con esclamazioni di stupore e meraviglia.
«Padre» – disse allora Aposa – «questo è l’orso più grande della foresta, che i nostri guerrieri non sono mai riusciti a catturare. Riconosci dunque che vale anche per il cervo e concedi la mia mano a Fero». «Mai!» – disse il capo, che non aspettava altro – «I patti sono i patti. Se all’alba l’etrusco non mi porta il cervo, non avrà né l’orso né mia figlia».
Di nuovo Fero, con l’aiuto di Aposa, costruì la trappola con la rete, ma il cervo non si vide. Così, malgrado i pianti e le minacce della figlia, le nozze non si fecero. Tuttavia Aposa e Fero non si diedero per vinti e ogni notte continuarono a incontrarsi.
Forte e coraggiosa come sempre, con il buio Aposa attraversava il torrente per raggiungere l’amato. E al mattino, all’alba, faceva ritorno al villaggio. Ma una notte non arrivò e Fero l’aspettò fino all’alba, poi la cercò dovunque inutilmente. Il fiume se l’era portata via.
Per giorni e giorni Fero pianse la perdita della sua amata e il capo dei Galli quella della figlia; infine, per ricordarla, decisero di dare al torrente il suo nome: Aposa. Così quell’acqua che aveva diviso due popoli, da quel momento li unì per sempre.

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