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17 Gennaio 2013 | Racconti d'autore

Gotico rurale 2000-2012

Di Eraldo Baldini, Einaudi, 2012 (prima puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redighieri.

17 gennaio 2013

Torna dopo dodici anni il libro culto dello scrittore ravennate Eraldo Baldini. “Gotico rurale” si arricchisce di nuovi racconti ela Romagna, pianeggiante o collinare, torna ad essere protagonista con le sue campagne insidiose, le sue paludi piene di mistero, i fantasmi della mitologia popolare rievocati in storie gotiche che spargono orrore, paura ed emozioni. L’ancestrale, il primitivo, l’oscuro resistono sotto la superficie, nelle profondità immaginarie della nostra mente, nelle distese dei campi di grano dove sono ambientate allucinazioni che conducono al Medioevo di Romagna o alle pagine più belle di Stephen King.Da “Gotico rurale” di Eraldo Baldini

Arrivano dal buio

Michele è sveglio fin dalle cinque del mattino. Del resto alle sei cominciano a fare chiasso e movimento. Chissà per­ché negli ospedali, dove si presume ci sia gente che ha biso­gno di riposare e starsene un po’ tranquilla, devono pulire le stanze all’alba, servire la colazione quando ancora è trop­po presto per avere lo stomaco in funzione, fare iniezioni in ore che si dovrebbero dedicare alla fase Rem del sonno.

E sveglio e agitato perché fra poco lo dimetteranno. Lasce­rà quella cameretta che non è certo a cinque stelle, ma nella quale si è sentito protetto per piú di tre settimane. Venti­due giorni, per l’esattezza. Ventidue giorni in cui ha potuto respingere, rimandare, oscurare ogni pensiero sul «dopo ».

Dopo quell’incidente in macchina, un’uscita di strada a cento all’ora con la mente impastata dall’alcol. Dopo la gua­rigione, o meglio dopo la degenza, perché di guarigione vera, purtroppo, non si potrà parlare: la gamba destra era massa­crata, con le ossa che parevano passate in un tritatutto e il ginocchio a pezzi. Forse dovrà zoppicare per tutta la vita, gli hanno detto, e addirittura aiutarsi col bastone per cam­minare e provare meno dolore. Quel dolore che gli è stato compagno crudele sempre, dopo l’incidente, di giorno e di notte, smorzato solo dai farmaci. Anche quelli, probabilmen­te, dovranno accompagnarlo a lungo.

Chiude gli occhi, sospira. Vorrebbe ancora tempo, anco­ra qualche giorno, anzi, qualche settimana in cui rimanere li, in una specie di limbo ovattato. Perché fuori di lí non c’è niente di buono che lo aspetti.

Il dottor Savelli entra con una cartella clinica in mano, lo saluta con un cenno della testa e legge qualcuno di quei fo­gli. Con lui c’è una donna di mezza età.

Chissà chi è, non l’ha mai vista. Michele la fissa per qual­che secondo, poi chiude gli occhi di nuovo. Forse è dell’assi­curazione, o magari della polizia. Nell’incidente non ha coin­volto nessuno, ma gli hanno ritirato la patente per guida in stato di ebbrezza e gli hanno detto che finirà sotto processo. Facciano pure: per quel che gli importa, ormai…

– Come si sente, Contini? – gli chiede il medico.

Lui si stringe nelle spalle, riapre gli occhi e guarda verso la finestra.

– Ha avuto dolore, stanotte?

– Mi fa sempre un po’ male, ormai mi ci sono abituato. – E il morale come va?

– Bene.

Il dottore scambia un’occhiata con la donna, poi si rivol­ge di nuovo al paziente.

– Bene non direi. Lei, Contini, sta camminando sull’orlo della depressione, e quella è peggio della gamba e delle co­stole rotte.

Michele si stringe di nuovo nelle spalle.

Il medico chiude la cartella. – Oggi lascerà l’ospedale, per quanto mi riguarda è guarito. Le ferite sono rimarginate, le ossa saldate, la riabilitazione avviata. Però io sono solo un ortopedico. Lei di ferite e di fratture ne ha altre, che non si vedono, e bisognerà mettere a posto anche quelle, eh? Le faccio i miei auguri, di tutto cuore, e la lascio in compagnia della dottoressa Varzi: adesso le sue cure sono piú necessa­rie delle mie -. Gli si avvicina, gli stringe la mano ed esce dalla stanza.

La dottoressa lo segue con lo sguardo, poi si gira verso Michele. – Come va? – gli chiede sorridendo.

– Come un minuto fa, quando me l’ha chiesto il dottor Savelli.

La donna prende una sedia e si accomoda vicino al letto.

– Chi è lei?

– Una psicologa dell’ospedale.

Michele sorride storto, scuote la testa e si gira verso il muro.

– Non vuole che parliamo un po’?

Lui sospira. – Fra un po’ tornerò a casa e mi troverò ad­dosso tanti di quei problemi che… che nessuno mi potrà aiu­tare, né gli psicologi né i santi del paradiso. Tutto qui. Non ci sono pillole o sedute che mi guariranno da quella roba.

– Pillole e sedute potrebbero aiutarla, però. E quei pro­blemi che adesso le sembrano tanto grossi, forse cosí grossi non sono.

– Che ne sa, lei? Non li conosce.

– Non li conosco, in effetti. Le va di raccontarmeli?

– Raccontarglieli? Ci vorrebbe tutto il giorno.

– Io di fretta non ne ho.

– Neanch’io, però non ne ho voglia.

– Me li accenni, almeno: male non le farà.

L’uomo sospira. – D’accordo, le faccio un riassunto -. Alza le mani e comincia con l’indice della destra a contare toccandosi le dita della sinistra: – Uno: mia moglie sei mesi fa mi ha lasciato. Due: sono un giornalista, e da quella se­parazione non sono piú riuscito a scrivere una riga decente. Tre: mia moglie era tutta la mia famiglia; non ho figli, né fratelli o sorelle, i miei genitori sono morti quando ero pic­colo, sono cresciuto con una zia, la sorella di mio padre, che da anni è morta pure lei, e di amici veri non credo di aver­ne. Insomma, a cinquant’anni, quando dovrei contare su una bella famiglia, sono solo come un cane. Quattro: ho cercato

aiuto nel bere e mi sono ritrovato mezzo ubriaco tutti i gior­ni, dalla mattina alla sera. Cinque: mi sono schiantato con la macchina contro un albero e non camminerò mai piú come prima. Ho finito le dita della mano, ma avrei altre cosette da elencare. Ce l’ha una cura che mi guarisca da tutto questo? Se ce l’ha, l’ascolto, altrimenti, per favore, mi lasci perdere, ché non sono in vena.

– La cura può esserci, ma è lunga e richiede tutto il suo im­pegno. Le va che ci vediamo un paio di volte alla settimana? – No.

– Se non collabora, io non potrò aiutarla.

– Non ho chiesto aiuto. Comunque, grazie dell’interessamento.

– Ne è certo?

– Certissimo.

La donna si alza dalla sedia, sospira. – Non posso costrin­gerla. Cerchi di aiutarsi da sé, almeno; magari si prenda un lungo periodo di riposo, se ne vada in un bel posto lontano da tutto, rifletta. Io, se vorrà, sarò a disposizione.

– Grazie ancora. Me la caverò.

Michele chiude gli occhi. La dottoressa resta lí ancora un minuto, in silenzio, poi se ne va.

La grande sala della redazione, dove le scrivanie stanno stipate e vicine come ombrelloni a Rimini, e quel brusio, quella cacofonia ininterrotta di voci rivolte a cornette di te­lefono, e le decine di schermi di computer accesi, e il via vai di gente che sposta fogli da una postazione all’altra, lo som­mergono con un impatto che gli dà la nausea. Non entrava li da un mese, e adesso che ci si ritrova bastano dieci minu­ti per snervarlo, per muovergli dentro un senso di ripulsa.

Un mese appena, e non certo di vacanza, ma è servito ad allontanarlo, a erigere un muro fra sé e la sua vita di prima, quella che ogni giorno si ripresentava uguale, con la levataccia del mattino, le code in macchina su strade infestate di gente frettolosa e arrabbiata, l’ingresso in quello stanzone gremito che ricorda un allevamento di polli, l’arrabattarsi a distillare righe su argomenti ripetitivi e di solito poco gratificanti.

No, pensa, non sono pronto. Non ce la faccio. Non ce la posso fare. Non è vero che tornare al lavoro mi aiuterebbe, come dice qualcuno: aggiungerebbe peso allo stress della mia mente, fatica al mio fisico provato. Non mi guarirebbe, mi ammazzerebbe e basta.

Decide cosí, su due piedi, per un impulso improvviso e invincibile. Quando il direttore lo chiama e lo fa accomodare davanti alla sua scrivania sommersa di carta, sa già cosa fare, cosa dire, e sa che farà e dirà quello che si sente, a costo di perdere il posto.

Cosí rimane spiazzato quando è proprio il capo ad anti­ciparlo, ad assecondare i suoi desideri prima ancora che lui li esprima.

– Prenditi un po’ di tempo, Michele, – gli dice. – Non serve a nessuno che tu torni adesso, quando ancora ti zoppicano le gambe e la testa. Non li ho contati i giorni di ferie arretrati che hai, sai come vanno queste cose, qui non ci si ferma mai… però di sicuro hai diritto a una bella pausa, e se fossi in te me la godrei.

Lui annuisce. Si era preparato a combattere, ma non ce n’è bisogno. Rimane quasi deluso. Forse non è buon segno, questa generosità del capo. Forse vuole dire che non ha sen­tito per niente la mancanza del suo lavoro. Ma chi se ne fre­ga. Neppure lui l’ha sentita.

– Hai ragione, – risponde. – Ho da smaltire un po’ di problemi, da tirare il fiato.

– Bravo. Facciamo un mese, che ne dici?

– Un mese, sí. Mi farà bene.

È solo quando esce in strada e respira l’odore di macchi­ne, d’asfalto e di città, che arriva quel pensiero: un mese per fare che? Un mese in casa da solo a guardare la tivù e a piangersi addosso? Un mese da trascorrere in pigiama o in mutande, con la barba lunga, peregrinando da una stanza all’altra? Per ricominciare ad annegare nella birra, magari?

Lo prende alla gola qualcosa che stringe come un cappio.

«Vada via, in un bel posto lontano da tutto», gli ha det­to la psicologa. Forse ha ragione: via, via. Dai suoi problemi non può scappare, ma dalla routine sí. E dalla città, da quel­la città che mai gli è parsa cosf brutta e ostile.

Ma via dove?

Vedremo, si dice, qualcosa mi verrà in mente. Posso anda­re dove voglio, non ne devo rispondere a nessuno: essere soli dà almeno questo vantaggio. Adesso vado a casa, mi butto sul letto a occhi chiusi e ci penso, come facevo da bambino, che con la fantasia visitavo tutti i posti del mondo.

Tutti i posti del mondo, tutti i continenti, tutte le latitu­dini. Là dove è già stato o dove non è stato mai.

Ci pensa, una volta che è coricato al buio, ci pensa. Ma è solo quando sta per cadere nel dormiveglia che gli si presenta un’immagine lontana: una casa di sasso col tetto di arenaria che luccica al sole, uno smisurato prato verde che finisce dove comincia la massa scura dei boschi, panni stesi ad asciugare che ballano nel vento, un cielo blu che di cosf blu se ne ve­dono di rado, e voci di bambini che corrono ubriachi di quel vento, di quel prato, di quel cielo, di quello spazio enorme.

Uno di quei bambini è lui. Papà e mamma sono ancora vivi, lei aiuta a stendere i panni, a prepararli alla danza nel vento e nel sole, e sorride. I nonni armeggiano con grandi fasci di rami secchi e preparano un falò per la sera, quando le faville saliranno a sbuffi a rigare la notte nera e silenzio­sa dei monti.

Da quanto tempo non vede quella casa, quel posto? Molti anni, anzi, decenni. Chissà se esiste ancora. I nonni, quelli materni che abitavano là, saranno morti da chi sa quanto: dopo che è rimasto orfano, solo una volta l’hanno portato lassù, dove loro ancora vivevano insieme a uno stuolo di figli e nipoti. Dopo, basta. La zia e lui si erano trasferiti a Mila­no, e quel luogo era sbiadito piano piano nella memoria. Non si ricorda nemmeno più come si chiamavano, quei bambi­ni con cui giocava, quelle zie che gli preparavano le focacce.

Ci sono pezzi del nostro mondo, della nostra anima che a un certo punto, semplicemente, spariscono, vengono rimos­si, come se non fossero esistiti mai, e al massimo lasciano nei pensieri una nostalgia remota e incredula. Non si sa per­ché, ma succede che si perdano persino pezzi della propria famiglia. Pezzi di sé.

Chissà come ci ha pensato, ai nonni e alla loro grande casa sui monti, come gli sono tornati in mente, dopo tanto tempo.

Chiude gli occhi di nuovo nel buio della stanza. Sí, se c’è un posto in cui vuole andare, è quello. Lontano da tutto, e vicino a quel bambino che è stato, una volta, molto felice.

Il vecchio Giuseppe si fa schermo con la mano e guarda in alto. Non c’è una nuvola; il giorno è nato limpido e cosf rimarrà. Sente gli altri darsi la voce, sente il trattore che a tratti romba e tira, salendo l’erta. Portano nel prato grande i rami che serviranno per i fuochi.

Mancano solo due notti, poi ci sarà il novilunio; il primo novilunio d’estate.

Lui di estati ne ha viste tante, ormai, passate tutte lassù, tranne quando andò in guerra. Un’assenza di tre anni, tre noviluni d’estate persi. Ricorda ancora quanto gli mancò, in quelle occasioni, l’essere là con gli altri ad aspettare il momento più straordinario dell’anno, quello per cui la famiglia si riuniva a Ca’ Rampina. Tornavano tutti per l’evento, pure chi aveva scelto di andarsene lontano. E ancora tornano.

Si avvia verso la casa e guarda l’altra costruzione, quella che adesso serve solo da rimessa per i trattori, le falciatrici, per tutte le nuove macchine che negli anni sono arrivate ad alleviare la fatica di coltivare campi e pascoli dalle pen­denze ostili. Una volta la famiglia era così grande che tutte e due le case erano piene di gente, di donne, di bambini. Quando le macchine non c’erano, servivano tante braccia, mangiavano tante bocche, e non si può dire che ci fosse abbondanza; ma si tirava avanti.

Non può certo biasimare chi se n’è andato, chi ha scelto lavori meno faticosi, luoghi meno isolati, vite diverse. Lui la sua vita però non l’ha mai cambiata, ed è contento così. E felice di essere nato lassú e di esserci restato sempre. Ed è felice soprattutto quando tutti tornano, quando la famiglia, per qualche giorno, si riscopre grande.

Dalla porta di casa esce sua moglie Lina, che si asciuga la fronte e si ravvia i capelli con la mano. Lui la guarda e le chiede: – Finito?

— Finito? Figurati! Dobbiamo preparare cibo per un eser­cito, non si finisce mai. Ma è un lavoro che non mi pesa, lo sai bene.

Giuseppe annuisce.

Torneranno, stanno per tornare. Fra un po’ si sentiranno le automobili salire verso Ca’ Rampina, si apriranno le finestre di stanze vuote nel resto dell’anno. Fra un po’ tutto sarà vivo e animato com’era un tempo.

E quando tutti saranno li, la sera si accenderanno i fuochi per chiamarli. Per chiamare chi ogni anno arriva all’annunciarsi dell’estate, provenendo da chissà dove. Dal buio, pensa lui. Arrivano dal buio, quando la luna dorme dall’altra parte del cielo. Arrivano silenziosi e puntuali, misteriosi e attesi.

Il primo novilunio d’estate è così, è sempre stato così, ed è bellissimo.

Brano corrente

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