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24 Gennaio 2013 | Racconti d'autore

Gotico rurale 2000-2012

Di Eraldo Baldini, Einaudi, 2012 (seconda puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

24 gennaio 2013

Torna dopo dodici anni il libro culto dello scrittore ravennate Eraldo Baldini. “Gotico rurale” si arricchisce di nuovi racconti ela Romagna, pianeggiante o collinare, torna ad essere protagonista con le sue campagne insidiose, le sue paludi piene di mistero, i fantasmi della mitologia popolare rievocati in storie gotiche che spargono orrore, paura ed emozioni. L’ancestrale, il primitivo, l’oscuro resistono sotto la superficie, nelle profondità immaginarie della nostra mente, nelle distese dei campi di grano dove sono ambientate allucinazioni che conducono al Medioevo di Romagna o alle pagine più belle di Stephen King. 

Arrivano dal buio

Michele conosce la strada solo fino a un certo punto, là dove la statale si stringe attraversando l’abitato di San Savino Monte, un paese che pare essere tutto addossato a quella striscia d’asfalto, come se fosse nato e cresciuto solo per definirne i bordi. Dopo, ricorda, ci sono boschi, tornanti, saliscendi, e a un certo punto deve esserci una viuzza sterrata che si inoltra nel nulla.

A San Savino si ferma, parcheggia in una piazzola che fiancheggia un bar, spegne il motore e sospira. Gli fa male la gamba.

Il viaggio fin li è stato migliore del previsto, quasi piacevole, con la radio sintonizzata su una stazione che diffondeva poche parole e tanta musica. Il cielo estivo, nelle prime ore del mattino, è stato terso anche in pianura; e qui, a qua­si mille metri d’altezza, subito dopo il passo di Crocealta, è blu e spazzato da un vento leggero che fa muovere le cime dei faggi e degli abeti. Sarebbe tutto perfetto, se i musco­li non sembrassero presi in una morsa e il ginocchio non si fosse irrigidito, quasi bloccato.

Spegne la radio, scende gemendo, va nel bar e chiede un caffè. Lo assapora e se lo fa durare. Poi, al ragazzo che glielo ha servito, chiede indicazioni per raggiungere Ca’ Rampina.

Il giovane mette nell’acquaio la tazza e il cucchiaino, fa una smorfia con le sopracciglia aggrottate e risponde: – Ma cos’è, un paese? Io non l’ho mai sentito nominare.

– Non è un centro abitato, è solo una località, una fattoria. Non dovrebbe essere lontano da qui.

– Io in questo bar ci lavoro da poco, abito giú a Sargano. Se vuole, chiedo al capo.

Michele annuisce, zoppica verso un tavolino, si siede. Di colpo si sente addosso tutta la stanchezza del viaggio, e una nuvola grigia sembra oscurargli l’umore.

Adesso, pensa, verrà il proprietario e mi dirà: « Ca’ Rampina? Non esiste», e lui si renderà conto che se l’è solo sognato, quel posto, che quel bambino felice non c’è stato mai, e che un luogo dove andare non c’è, non c’è piú.

Dietro il bancone compare un uomo dai capelli radi e rossicci, che si pulisce le mani in un grembiule e lo guarda.

– Ca’ Rampina? – dice.

Michele, come se lo stessero interrogando su una cosa im­portante, si alza in piedi e mormora: – Si.

– Vada avanti ancora un paio di chilometri; dopo avere attraversato un vecchio viadotto che passa sopra un vallo­ne stretto, vedrà una stradina sulla sinistra. Non ci sono in­dicazioni ma
non può sbagliare: di strade a sinistra c’è solo quella. La infila, e procede per… boh, direi altri due o tre chilometri, tutti nel bosco. Finito il bosco, ci sono i pascoli e le case che cerca lei.

– Grazie. Grazie mille.

Avrebbe voglia di un Campaci, di un Martini, di un po’ d’alcol insomma, ma non beve da diverse settimane e resiste, caccia quel desiderio.

Paga il caffè, esce dal bar, e prima di rimettersi in macchina respira a pieni polmoni.

L’aria ha davvero un altro sapore, lassú.

Dietro la casa, dove il passaggio quotidiano delle mucche che vanno ai pascoli ha cancellato l’erba in una traccia antica e bruna, ci sono già, l’una di fianco all’altra, sei o sette automobili
che brillano nel sole. Voci di bambini che si aggirano eccitati tra stalle e pollai, curiosi di vedere gli animali, riempiono di suoni il silenzio del monte.

Lina ha accompagnato tutti alle proprie camere, ha aiutato a riporre borse e vestiti, ha abbracciato figli, nipoti e pronipoti, senza smettere mai di dare la voce a chi, in cuci­na, continua a preparare sfoglia e sughi, pane e arrosti. Poi esce dalla casa e si siede finalmente su una panca di legno addossata al muro.

Giuseppe la raggiunge, si siede a sua volta. – Ecco, – dice.

Lei sorride. – Si, eccoli qua, tutti. Non vedevo l’ora.

Il vecchio guarda lontano, verso la strada sterrata che si infila nel bosco. – Tutti no. Ne manca uno.

– Lo so, credi che me ne sia scordata? E non verrà, pur­troppo. Non viene da tanto tempo. La vita è fatta cosí, non ci dà mai una gioia completa.

– Verrà, invece. Quest’anno verrà.

La donna si gira di scatto a guardarlo. – Eh?

– Ho fatto dei sogni, nelle notti scorse…

– Non m’avevi detto niente!

– I sogni sono solo sogni, che ti dovevo dire? Magari mi sbaglio.

Lina sorride con gli occhi. – No, tu non sbagli mai, in queste cose.

– Chi lo sa.

– Sarei la donna piú felice del mondo, se arrivasse davve­ro. Ma:.. lui non sa, non sa nulla. Non può ricordare, manca da troppo tempo, ce l’hanno portato via che era cosí picco­lo! Cosa gli diremmo?

L’uomo scuote la testa. – Non lo so. Forse niente. Che cè da dire, in fondo? Vedrà quello che vedremo noi, e sarà lui a chiedere.

– Non è cosí semplice, Giuseppe. Gli altri sanno come comportarsi, sanno cosa dire e cosa tacere, ma lui…

– Lui fa parte della famiglia, e se verrà, sarà un novilunio d’estate ancora piú speciale. Dopo, vedremo.

Lina annuisce, guarda anche lei verso la strada. – Sí vedremo, – dice.

E proprio in quel momento si sente un’automobile che arriva.

Michele è ancora frastornato. Sente allo stesso tempo un senso di straniamento e di appartenenza, di familiarità, di déjà vu.

Quando è arrivato e ha parcheggiato dietro la grande ca­

sa di sasso, stupendosi di vedere molte altre automobili, si è trovato nel giro di un minuto circondato da abbracci, parole, persone, facce. Facce che non conosceva e che contempo­raneamente gli ricordavano qualcosa, nomi che gli rimbal­zavano alle orecchie suonando nel contempo sconosciuti e remotamente noti.

Adesso, finiti i saluti, le presentazioni, allontanati gli sguardi curiosi e affettuosi, strette le mani che gli venivano tese, si è seduto fuori, su un ceppo di legno fresco di taglio. Guarda verso i monti che, oltre il verde chiaro dei prati, si innalzano torreggianti e massicci, scuri di alberi fitti. Ricorda il profilo di quelle cime, o almeno gli sembra di ricordarlo, ma ciò che vede gli appare anche nuovo. Ha pensato tanto a quei luoghi, nelle settimane e nei giorni scorsi, che trovar­seli davanti, sentirsi li, fa un effetto a cui non era preparato.

Una donna lo raggiunge e si siede accanto a lui. – Miche­le, – dice solo.

Lui sorride. La donna gli deve aver detto il proprio nome, prima, ma lui ne ha ascoltati tanti che già non se lo ricorda, già non sa piú chi è, quella anziana signora dagli occhi chiari e penetranti. – Zia? – chiede incerto.

– Sono Lina.

– Zia Lina -. Strappa un filo d’erba, se lo attorciglia a un dito. – Sai, il tuo viso non mi è nuovo, è come se un ricordo si facesse strada nei miei pensieri, ma se ti avessi incontrata per caso non ti avrei mai riconosciuta. Mi dispiace…

Lei sorride e gli gli accarezza una spalla. – è normale, sono passati più di quarant’anni -. Poi sospira: – Quarant’anni! Santo cielo! Ci sei mancato, piccolo mio.

Michele non può non sorridere. – Piccolo? Sono ormai vercchio, altro che!

– Ma figurati!

Mi sento vecchio dentro. La mia vita, come vi raccon­tavo prima, non è che stia andando per il verso giusto.

– A tutto c’è rimedio.

L’uomo fa un cenno d’assenso e cambia discorso. – Zia Anna mi ha cresciuto e le sarò grato per sempre, ma non ca­pisco perché non mi abbia mai portato qua da voi, se non forse una volta. Mi ha allontanato da una parte della mia famiglia. Perché?

– Non le piacevamo, credo. Lei era nata e cresciuta in cit­tà, era istruita, dovevamo sembrarle una tribú di pastori. E poi, forse, non avendo mai avuto figli suoi, ti ha voluto te­nere tutto per sé. Comunque ti ha amato, e questo è ciò che conta. Quel che è stato è stato. L’importante è che adesso tu sia qui con noi. Una famiglia ce l’hai, l’hai sempre avuta e ora l’hai ritrovata.

– Ne ho bisogno.

– E chi non ne ha bisogno?

Michele si aiuta con una mano a distendere la gamba.

– Ti f a male? – gli chiede la donna.

– Un po’.

– Ti passerà, vedrai. Presto non avrai nemmeno piú bi­sogno di pillole.

– Vorrei poterti credere.

Lei sorride guardando il sole che tramonta. – Oh, puoi credermi. Davvero.

Dopo una cena abbondante e buona e le chiacchiere con i parenti, è andato all’aperto a godersi un’aria che da tiepida diveniva frizzante. Il cielo pareva di carta, come quello che da piccolo appendeva sopra il presepe: un blu scuro che si trasformava in nero e si accendeva di milioni di stelle. Non aveva mai visto uno spettacolo simile, o almeno non se lo ri­cordava: la traccia enorme della Via Lattea, le innumerevoli costellazioni. Sdraiato sull’erba, è stato a lungo a guardare in alto, perdendosi in una vertigine smisurata e densa. La luna, quasi appoggiata sulla cresta del monte, era solo una riga curva e sottilissima, uno spiraglio, una fessura di luce.

Poi è arrivato il vecchio Giuseppe, hanno fumato un si­garo. Tra l’erba si udivano i grilli e dal fitto del bosco arri­vavano mille piccoli rumori.

Si è sentito finalmente, per la prima volta da molto tem­po, in pace con sé stesso e col mondo. Mi fa davvero bene essere qui, ha pensato.

È andato a dormire presto. Non c’è un televisore nella casa, e poi era stanco. L’ha svegliato solo il suono di voci fuori, e allora è sceso a fare colazione. Dopo, nonostante i problemi alla gamba, ha provato a camminare nel bosco, inoltrandosi in un sentiero che, quasi in piano, arriva fino a una radura in mezzo alla quale troneggia, imperscrutabi­le monarca di pietra, un grande masso rotolato li forse da migliaia di anni.

Si è seduto, si è tolto le scarpe, ha pensato alla sua fami­glia ritrovata. Lo zio Giuseppe e la zia Lina vivono nella ca­sa che è stata dei nonni con due figli, quattro nipoti e alcuni pronipoti; poi ci sono gli altri venuti in visita: zie, zii e tanti cugini con relativa prole. Quanti sono? Una trentina, pen­sa. Prima o poi imparerà a conoscerli, riuscirà a ricordarsi i loro nomi. Per fortuna la casa è grande, e stringendosi un

po’ tutti hanno avuto un letto, uno spazio, usando anche un sottotetto dalle vecchie travi di legno a vista.

Pare che ogni anno si ritrovino all’inizio dell’estate, una tradizione del clan, un appuntamento che li richiama in un luogo che pare unirli ancor piú dei vincoli di sangue.

Ha appoggiato la schiena al masso e si è appisolato, cul­lato da un ronzio ipnotico di insetti. Quando è tornato alla casa già si sentivano, dentro, le donne che apparecchiavano la tavola per il pranzo.

Nel pomeriggio sono cominciati un fermento, un’anima­zione che hanno coinvolto tutti, piccoli e grandi. Per ore hanno lavorato a smontare due cataste di legna e ramaglie dividendole in una ventina di ammassi piú piccoli, disposti a cerchio nel prato davanti alla casa.

– Che state facendo? – ha chiesto Michele a Giuseppe.

– Prepariamo per i falò. Li accenderemo stasera. Te li ri­cordi, i falò?

Se li ricorda, si. Anzi, proprio quella è una delle immagini della sua infanzia che meglio è sopravvissuta nella memoria: le fiamme alte nella notte, le faville che salgono tra il fumo, gli schiocchi e gli sbuffi dei legni, le braci che sembrano oc­chi accesi nel buio.

– I fuochi… – dice. – Sí, li ho ancora in mente.

– Li hai visti ogni anno, nella notte del primo novilunio d’estate. Quando eri piccolo e i tuoi genitori erano ancora vivi, intendo.

– Si, li ho visti, e credo che mi piacessero molto.

Il vecchio annuisce, sorride, poi va ad aiutare gli altri.

Cenano presto, parlando poco, come se tutti avessero fretta di qualcosa, come se un’attesa spasmodica sovrastasse l’appetito. Quando esce dalla casa, Michele si accorge che qualcuno ha già acceso i fuochi.

Tutti vanno a sedersi nel prato. Le fiamme giocano con colori baluginanti e ombre sulle facce, sui corpi, aria calda e fumo arrivano ad accarezzare la pelle. I bambini corrono intorno a lungo, poi vengono invitati a calmarsi, a sedersi accanto ai grandi. Qualcuno dalla casa ha portato bottiglie di vino. Parlano, ridono, bevono, guardano in alto il cielo senza luna e pieno di stelle, faville tra le faville. I cani trot­terellano intorno, annusano qua e là, ogni tanto scompaiono nel buio e poi ricompaiono.

Michele si concede un bicchiere, si sdraia sull’erba, fissa incantato i bagliori che riverberano. Sente, e non sa perché, che la notte sta per portare qualcosa, qualcosa che nei suoi ricordi si è perso ma che ora sta per tornare.’

Quando le fiamme hanno esaurito il loro vigore crepitante e le braci dei falò disegnano un enorme cerchio rosseggian­te nel prato, il cielo oltre il monte si accende in un baleno improvviso.

Si fa subito silenzio. La vecchia Lina si alza, si spolvera la gonna e dice: – In casa, adesso. E ora.

– Arrivano, – mormora un bambino a un altro. – Fra un po’ vengono.

Michele vorrebbe chiedergli chi è o cos’è che stanno aspettando, vorrebbe dire che si sta cosí bene fuori, perché rientrare tanto presto? Non pioverà, non c’è una nuvola da giorni, quel baleno è frutto solo del caldo che si annuncia, che problema c’è? Ma tutti obbediscono al comando della donna e si dirigono verso l’abitazione.

Si alza con un sospiro, li segue.

In casa, tutti si siedono intorno al tavolo, le donne porta­no dolci e altre bottiglie, ma nessuno li tocca. Il senso di at­tesa si fa ancora piú forte; molti sguardi vanno alle finestre, anche se hanno le imposte chiuse. Sulle facce dei piú piccoli si legge qualcosa che sta fra l’eccitazione e il turbamento,

come quando ascoltano, divertiti e spaventati, vecchie fia­be di magia e di paura. Se qualcuno di loro diventa troppo irrequieto o parla a voce troppo alta, viene subito invitato a starsene buono e zitto.

Passano i minuti, nessuno si muove, si sono spenti anche gli ultimi sussurri. Poi il silenzio grave che sta impregnando la casa viene rotto all’improvviso: dalla stalla si alzano mug­giti nervosi, e fuori i cani iniziano ad abbaiare furiosamente.

Pare di sentire i cavi elettrici sfrigolare, ronzare, la luce comincia a vacillare, si spegne e si riaccende, e infine muo­re del tutto. Nel buio pesto della stanza gremita non c’è piú una voce, non c’è più un movimento.

Poi tutto tace anche fuori, gli animali si zittiscono, am­mutoliscono. E dalle fessure tra le imposte arriva un pulsare prima bluastro, poi giallo e bianco, come se strani lampi ac­cendessero la notte di un temporale silenzioso e inspiegabile.

Michele è sempre piú stupito. – Ma che succede? – chie­de sottovoce a una cugina che gli siede accanto.

Lei per tutta risposta gli stringe un braccio, come a chie­dergli di tacere.

C’è una vibrazione nell’aria; non è un vero suono, è solo una pressione che freme ai timpani, alle tempie. Poi anche quella sensazione scompare, le lampadine si riaccendono tic­chettando.

E come se si sciogliesse un incantesimo, se una malia ar­cana e paralizzante venisse vinta, esorcizzata. Tutti si muo­vono, ricominciano a parlare, prima mormorando, poi piú forte. I bambini lasciano le sedie, qualcuno si versa un bic­chiere di vino.

Lina si alza, va verso la porta. – Andiamo, adesso, – di­ce. Apre l’uscio, si affaccia. Fuori, nel chiarore delle stelle e degli ultimi riverberi delle braci, è tutto tranquillo, come se nulla fosse successo.

La vecchia esce, gli altri la seguono. Michele si accoda, va fuori, guarda nella direzione in cui si dirigono gli occhi di tutti.

Nel prato, all’interno di quello tracciato dai fuochi ormai spenti, c’è un altro grande cerchio, disegnato nell’erba alla perfezione e ben visibile in una luminescenza lattiginosa, la stessa delle stelle.

Hanno ravvivato i falò portando ramaglie sulle braci. Ades­so il cerchio dove l’erba è appiattita è del colore delle fiam­me. E in quel rosseggiare si muovono ombre e figure, come in una danza tribale e antica, come in un rito arcaico e sel­vaggio: tutti si rotolano in terra, dentro quella circonferenza.

La vecchia Lina arriva accanto a Michele e gli dice: – Dài, fallo anche tu.

Lui la guarda e apre le braccia in un gesto sbalordito, me­ravigliato. – Zia, ma da quando accade questa cosa?

– Da sempre, credo. O almeno da quando mi ricordo io, e da quando si ricordavano i nostri vecchi. Loro dicevano che era il ballo tondo delle fate, nel primo novilunio d’estate.

– Un cerchio nel grano… Se non l’avessi visto, non l’avrei creduto mai.

– Non è grano, – dice Lina sorridendo.

Michele scuote la testa. – Non importa. Succede da tan­te altre parti, lo sai? Anche se non in questo modo, perché nessuno sa in anticipo dove e quando.

– Sì, i miei figli me l’hanno detto. Parlano di dischi vo­lanti, di strane cose.

– Perché, a te non pare una cosa strana?

– No, a me no. L’ho vista ogni anno per tutta la vita. E da piccolo l’hai vista anche tu.

– Non me lo ricordavo.

– Lo so. Ma adesso sei qui, approfittane. – In che senso?

– Fa’ come gli altri. Sdraiati e rotolati nel cerchio, ti farà bene.

– Perché? – chiede Michele, rendendosi conto che è una domanda inutile e stupida.

Lei si stringe nelle spalle e se ne va.

Vuole assecondarla. E poi, con una consapevolezza che viene da chissà dove, sa che va fatto. Entra nel cerchio, si sdraia. L’erba e la terra sono calde, e trasmettono una sen­sazione di incredibile forza e beneficio.

Michele f a colazione in silenzio, poi sale nella propria stanza. La valigia è sul letto, finisce di riempirla con le poche cose che ha sparso in giro. Va alla finestra. La mattina è velata, qualche nuvola è giunta da ovest a rendere il cielo striato e opaco.

Il cerchio nel prato è ancora li, ben visibile, grande ed enigmatico.

Non sa che dire. Non si è mai occupato di cose simili, non fanno parte dei suoi interessi. Al giornale ha sempre scritto solo di politica e di pubblica amministrazione.

Forse, pensa, qualcuno della grande famiglia è uscito al buio, mentre Lina aveva riunito tutti in casa, e ha creato il disegno sull’erba aiutandosi con qualche attrezzo. L’ha visto fare una volta in tivú. Ma perché? Solo per un gioco che ac­comuna il parentado? Che senso avrebbe? E poi quei lampi, quei rumori, gli animali che urlavano inquieti. Un temporale elettrico? Una coincidenza? Come quella che l’ha condotto a Ca’ Rampina dopo quarant’anni proprio nel momento in cui erano arrivati tutti gli altri e stava per accadere quella cosa?

Scuote la testa. Potrebbe prendere dalla valigia la macchi­na fotografica, fare qualche scatto e scrivere un articolo; ma sa che non lo farà, non lo può fare. La sera prima, mentre stava per andare a letto, Giuseppe l’ha preso da parte e gli ha chiesto di tacere, di mantenere quello che per la famiglia sembra essere un antico e geloso segreto.

Ma non è solo per quel motivo, che rispetterà il silenzio: è soprattutto per ciò che nella notte è successo alla sua gamba.

Tira un sospiro profondo, finisce di sistemare le proprie cose.

Lina e Giuseppe sono fuori a salutare i parenti che, macchina dopo macchina, se ne vanno.

Michele li raggiunge con la valigia in mano.

– Potevo aiutarti a portarla giú, – dice il vecchio.

– Non ce n’era bisogno. Non ho piú male. Stanotte ho dormito come un sasso, anche se avevo la testa piena di pen­sieri, di emozioni, di domande, e quando mi sono svegliato non mi doleva piú la gamba, e il ginocchio si piegava come se non avessi mai avuto l’incidente e le operazioni.

Il vecchio annuisce, per niente meravigliato.

Lina chiede: – Perché te ne vai già? Avevi detto che sa­resti rimasto due o tre settimane.

Michele scuote la testa. – Non lo so, zia. Sento che devo andare a casa, ho voglia di rimettermi a lavorare, o forse voglio ricominciare da subito a riordinare la mia vita. E ho tante cose a cui pensare da solo.

– Non scriverai sul giornale di quello che hai visto, vero? Rovineresti tutto.

– No, ve l’ho detto, non scriverò e non ne parlerò con nessuno.

– Giuralo.

– Ve lo giuro.

– E giura che tornerai.

– Certo che tornerò. Tornerò prestissimo, magari in uno dei prossimi fine-settimana, e non vi perderò piú.

Abbraccia i due vecchi, raggiunge l’automobile senza zop­picare e se ne va.

Lina e Giuseppe guardano la macchina che scompare nel bosco, poi si incamminano verso casa.

– Dici che manterrà la promessa? – chiede lui. – Sì, la manterrà. E uno di noi.

L’uomo sospira. – Adesso ha visto, adesso sa tutto. O quasi tutto.

– Quello che non sa, lo conoscerà la prossima volta. In fondo è solo un dettaglio.

– Un dettaglio? Crede che siamo uno zio e una zia. Non si ricorda.

– Non me la sono sentita di dirglielo. Di confidargli che siamo i suoi nonni, che abbiamo duecentodieci anni in due, che il cerchio del novilunio è ancora più potente di quanto ha visto, di quanto crede.

– Glielo diremo la prossima volta. E forse non si sorprenderà più di tanto.

– Già, – dice lei.

Si è alzato un po’ di vento, e i fili di fumo che si sollevano dai fuochi non ancora del tutto spenti si scompigliano e si dissolvono come nebbia al mattino.

Brano corrente

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