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8 Novembre 2012 | Racconti d'autore

Il guardiano dei morti

Di Giuseppe Merico, Perdisa Editore, Bologna, 2012

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura Fulvio Redeghieri.

8 novembre 2012

Giuseppe Merico, nato in Puglia tra Brindisi e Lecce, vive a Bologna. Scrive per la rivista letteraria «Argo», ha pubblicato la raccolta di racconti Dita amputate con fedi nuziali (Giraldi, 2007) e il romanzo Io non sono esterno (Castelvecchi, 2011). Il suo sito è www.scrivoeleggo.com.
Il suo ultimo lavoro, Il guardiano dei morti, è ambientato in un Salento per niente solare, ma dolente e cattivo, tanto da rappresentare il lato oscuro della Puglia e dell’intero sud. Protagonista è Mimino, che lavora nel cimitero di un piccolo paese e ha appena perso il padre. Il giovane vive con l’anziana madre bisognosa di cure e nel contatto quotidiano con i cadaveri. Fuori del cimitero, il paese è vittima di un antico conflitto che sembra precludere ogni speranza, la quale invece fa capolino anche in un noir terribile come questo.

Giuseppe Merico
Il guardiano dei morti

Luce. La scritta si legge, Hodie mihi cras tibi, gli uomini di poca fede che la capiscono si tastano sotto, i credenti reclinano il capo dicendosi: «È così o è così che dev’essere». Io, la scritta sopra il cancello la guardo tutte le mattine, pedalo e la guardo avvicinarsi. Di rame, verderame, barocca, immobile e impassibile. Vorrebbe spaventarmi, vorrebbe farmi stringere il manubrio della bicicletta o farmi stringere forte le chiappe, non ci riesce, non è cosa per lei, non adesso. Non dopo che è morto papà. Non dopo che ho contato i respiri, non dopo che non finivano mai, non dopo che la mamma mi ha guardato con quegli occhi, che io quegli occhi spero di non vederli mai più. Lo abbiamo portato a casa, messo nella stanza in cui son cresciuto, messo dritto, girato di lato, alzato, abbassato, consumato. Lo abbiamo messo nella mia stanza da piccolo, nel letto con le sponde di ferro, sotto il quadro della Madonna con il bambino. Ce lo siam portati via dall’ospedale. È stato lui a volerlo. La mamma, poca luce, gli ha detto: «Ora stai a casa tua, Nino», gli ha stretto la mano destra e glielo ha ripetuto. Ancora meno luce. Lui non ha risposto, ha continuato a respirare; non so se papà abbia mai sentito le parole della mamma o le sue preghiere silenziose recitate dentro di sé quasi si vergognasse, non so se abbia mai sentito gli ultimi quattro giorni. Luce che va a spegnersi. Lo abbiamo portato a casa che era già in coma, con la febbre da coma, con le mani da coma, con l’innocenza da coma, con la pelle che era la pelle di mio padre ma era pelle da coma, pelle in transito. Luce che si spegne. La scritta dice Hodie mihi cras tibi, lo sanno tutti, anch’io, per questo sorrido.
Buio.

(…)

Qui dove sto ci sono due stanze e due letti di marmo, le stanze sono unite tra loro dallo spazio di una porta, così ti puoi muovere da una stanza all’altra e magari fare le condoglianze ai vicini. Prima, lo spazio della porta aveva anche una porta di legno brutto, poi quando hanno portato uno che lo avevano sparato i poliziotti, il fratello di questo l’ha buttata giù e nessuno l’ha più rimessa. Le due stanze hanno due finestre, una per stanza. Ci sono due avvolgibili di plastica verde, uno di questi è rotto e non si alza, l’altro è rotto e non si abbassa. Nessuno ha bisogno di più luce di quella che c’è e nessuno ha fatto richiesta perché gli avvolgibili venissero aggiustati, una volta l’ho detto al prete, lui ha storto il muso e ha imboccato la strada per l’uscita dal cimitero. Da un lato e dall’altro dei letti di marmo ci sono quattro sedie, due per parte. Il prete le ha prese da una scuola materna della zona, dice che gliele hanno regalate, io penso le abbia rubate. Dice che quattro sedie vanno bene, perché sennò le stanze si riempiono di gente che se ne sta comoda a parlare dei fatti suoi e non gliene frega niente del morto. Le sedie sono talmente piccole che i parenti del morto prima di sedersi si scambiano occhiate interrogative, poi va a finire che ci si siede solo qualche anziana che non ce la fa più con le gambe o qualche bambino che i parenti hanno lasciato entrare, al quale dicono: «Hai visto lo zio? Dorme». Oppure è il bambino a chiedere ai parenti: «Ma non li apre più gli occhi?» Gli uomini non ci si siedono mai perché pensano sia indecoroso stare accovacciati su quelle sedie piccole che poi va a finire che sembra stiano seduti sul cesso di casa loro.

Nelle stanze c’è odore di candeggina, la passo spesso con lo straccio e quando ho finito me ne sto sull’uscio con le maniche della camicia arrotolate a guardare i muri del cimitero. L’edera li ricopre fino in cima e in cima ci sono pezzi di bottiglie rotte, me li ha fatti mettere il prete per evitare che i ragazzini ci si arrampicassero. Quando arrivano i parenti del morto mi metto da parte in un angolo o me ne sto fuori ad accarezzare il cane orbo del cimitero. Qualcuno mi chiede dov’è il bagno, glielo indico col manico della scopa. Quando è ora faccio uscire i parenti. Prendo la lastra di stagno, chiudo la bara, i parenti sentono il rumore che fa il trapano avvitatore, li sento piangere. Sono l’ultimo a guardare il morto e sono l’ultimo a toccarlo, lo bacio sulla fronte. Li bacio tutti, sempre.
Questa mattina mentre ero nel bagno che mi facevo la doccia l’ho sentita urlare, voleva che le portassi qualcosa. Ho continuato a lavarmi, a contare le coste, a carezzarmi le ginocchia tremanti. Mi sono asciugato in fretta e vestito con le urla di lei che venivano dalla stanza in fondo al corridoio. Ho fatto finta di non sentirla, per una volta ho fatto finta. Sono uscito di casa e sono venuto qui in bicicletta. Sistemo la cassa sul carrello con le ruote, la porto fuori, per un attimo i parenti non mi lasciano proseguire, si riuniscono attorno alla cassa, la baciano, la accarezzano, salutano il morto e continuano a salutarlo fino a quando non è nel loculo, fino a quando non getto il cemento con la spatola e chiudo tutto con i mattoni di tufo che taglio al momento, e anche dopo loro continuano. Li lascio lì alle loro cose e risalgo il vialetto, il cane orbo mi segue e ogni tanto scodinzola.

Quando torno a casa passo dalla piazza del paese, hanno montato le luminarie per la festa del patrono, le toglieranno tra un mese buono perché il Comune non ha i soldi per pagare la ditta che le ha messe su. La luce della sera taglia a metà la serranda chiusa del barbiere con la scritta Sala da barba e la faccia del vecchio seduto al bar dei mafiosi che mi saluta con la mano, perché saluta tutti e non sa nemmeno lui perché. La nostra casa è l’ultima del paese, più in là ci sono solo ulivi e una masseria in stato di abbandono, ci vanno i tossici per farsi o qualche coppietta per scopare. Quando entro sento la puzza, se l’è fatta addosso e io non l’ho cambiata perché non c’ero e non c’era nemmeno la signora albanese che le fa compagnia. Sente la porta e comincia a urlare, chiamandomi «Cane» e «Vieni qui che ti sistemo io». Tiro fuori due uova dal frigo, le rompo in un piatto, ci aggiungo del parmigiano, metto tutto a friggere.
Sopra il cucinino c’è una finestrella con la tenda unta di grasso e olio, fuori passano le pecore, al seguito il pastore, lo chiamano Paneperso perché non si sa bene di chi sia figlio.

(…)

Portano uno, certi forestieri, uno con una bara costosa, solo che dopo che arrivano si guardano in faccia e si accorgono di aver sbagliato cimitero. La macchina delle onoranze funebri riparte con le macchine dei parenti al seguito.
Il cane orbo li guarda per tutto il tempo con un orecchio su e l’altro giù fino a quando non se ne vanno. Cercavano il cimitero dov’è seppellito un avvocato che di cognome faceva Moscagiuri, hanno chiesto al custode, quello ha controllato nell’elenco, ma non è risultato niente. Una signora col vestito nero costoso, una parente del defunto, si è avvicinata per sentire quello che si dicevano l’autista delle onoranze funebri e il custode del cimitero. Si è allontanata un attimo dopo perché il custode puzza sempre di vino e di vestiti sporchi.
L’autista si è rivolto alla signora col vestito nero costoso, dicendo: «Abbiamo sbagliato paese, non è questo il cimitero». Le macchine ripartono lasciando i segni sul brecciolino e alzando tanta di quella polvere che il custode bestemmia i morti a tutti e il cane orbo prende ad abbaiare. Dallo stanzino del custode esce Mirko, mi saluta con la mano, ricambio il saluto, poi sembra incepparsi, non riesce più a fermare la mano, la muove frenetica di qua e di là. Il custode che è il suo patrigno, lo guarda, ci è abituato e anch’io ci sono abituato. Si siede sul muretto accanto alla baracca dove vendono i fiori, le gambe penzoloni, lo raggiungo, mi metto seduto accanto a lui. Mirko non la smette di mulinare la mano nell’aria, sembra saluti i pioppi e la croce di ferro arrugginito della chiesa e le file dei loculi e le persone e il cielo azzurro.
Gli abbasso il braccio, delicatamente. Respira affannato, aspetto che si calmi. «Come stai, Mirko?» gli chiedo. «Come stai Mirko», risponde guardandosi le gambe nude, i pantaloncini dell’Adidas gialli. Gli metto un braccio sulla spalla, le gambe sono piene di graffi lunghi e rossi. Il custode ci urla da lontano che assieme facciamo una bella coppia, poi mentre sta per andarsene si volta e dice che se fosse stato per lui ci avrebbe mandato a raccogliere pomodori sotto il sole. Sorrido. Mirko ha preso a sbavare e non ho nemmeno un fazzoletto per asciugargli la bocca.

(…)

Quand’è mattina vado da lui. Prendo in prestito tre garofani rossi da un loculo dove i fiori non mancano mai e vado. Papà, nella foto ovale con la cornice dorata sorride alticcio. Sotto la foto c’è un mazzo di fiori di campo, non so chi ce li abbia messi. Sistemo i garofani assieme ai fiori di campo. La foto è stata scattata il giorno del suo cinquantesimo anniversario di matrimonio. Non è una brutta foto, ma non è lui. Sorride guardando l’obiettivo; sul tavolino – ma non si vede – c’è un bicchiere di vino. Lo saluto: «Ciao papà». Non risponde. Me ne sto in silenzio per un po’. Nove mesi dopo che è stata scattata la foto, un male ha deciso di sostituirgli le cellule del cervello con altre, speciali, diverse, inutili, che lo hanno ucciso. Nove mesi. Gli dico di non spaventare più la mamma, di lasciarla stare. Non risponde. Papà, nella cappella di famiglia, è accanto al nonno e sopra il nonno c’è la nonna, accanto alla nonna c’è un posto vuoto e sopra il posto vuoto ce n’è un altro vuoto pure lui, i due posti vuoti sono uno mio, uno della mamma. Gli dico di star bene. Chiudo a chiave la porta della cappella, la luce si riflette sui vetri scuri della porta, i cristi dorati luccicano. Gli dico che la deve lasciare stare anche mentre porto la carriola con i quadri dei santi che il prete non vuole più nella chiesa perché ha deciso di cambiarli con altri che ha ricevuto in regalo da un suo amico, un prete anche lui che è venuto a trovarlo dal nord. Poco prima di uscire mi chiedo perché non ho avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, non li ho guardati. Giro la chiave nella serratura, la metto nella tasca dei pantaloni. Spingo la carriola verso il cimitero nuovo. Costeggio i muri di mattoni e arrivo alla fossa. Lascio cadere i quadri dei santi. Nella fossa ci sono le bare da bruciare, adesso ci sono anche i santi da bruciare.

«Fuori dal cimitero succedono cose», mi dice il prete quando torno con la carriola vuota. Mi sventola in faccia una pagina tutta spiegazzata della “Gazzetta del Mezzogiorno”. Mi dice che a stare coi morti non s’impara niente, che dovrei interessarmi di più ai miei paesani. Gli rispondo che io mi interesso a loro quando loro hanno finito di interessarsi a se stessi: quando varcano la porta del cimitero con i piedi avanti. Ride. Sul giornale c’è una foto, le luminarie per la festa del patrono e dietro la Chiesa Madre. L’articolo dice che quest’anno le luci della festa saranno pagate dal signor Salvatore e che il sindaco e tutta la giunta comunale lo ringraziano perché ha dimostrato ancora una volta di avere a cuore la comunità. In basso a destra c’è la foto del signor Salvatore in piedi accanto a un cavallo bianco nella sua scuderia. Dopo aver letto velocemente il breve articolo dico al prete che fuori dal cancello del cimitero non cambia mai niente, lui mi risponde: «Meno male». Mi guardo le mani che stringono i manici della carriola, sono magre e nervose, tutte le vene vengono fuori e si mescolano ai nervi. Mia madre dice che ho le mani forti. Dico al prete che devo andare, spingo la carriola verso il magazzino degli attrezzi. Mi urla dietro: «Mai contento tu!» Penso alla faccia del prete quando il signor Salvatore viene a trovare sua madre, che sta in una delle cappelle del cimitero nuovo, penso a come gli brillano gli occhi, perché da un saluto in più ne può venire fuori qualcosa di buono per la sua chiesa. Mia madre dice che anche papà aveva le mani forti prima che iniziassero a tremare. Io, le mani di mio padre, non le vedrò più.

Brano corrente

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