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26 Gennaio 2017 | Racconti d'autore

I Mesi del Duomo di Ferrara

Testo di Giuseppe Raimondi tratto dal volume “Un occhio sulla pittura” (Bologna, Edizioni Alfa, 1970)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Attivo tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento (con un silenzio eloquente durante la dittatura), lo scrittore bolognese Giuseppe Raimondi amava incrociare il suo sguardo con quello degli artisti. Come in questa pagina dedicata a un capolavoro della scultura medievale, oggi conservato nel Museo della Cattedrale ferrarese.

Dodici giorni scelti uno per ogni mese; e, nel giorno, nella giornata, che pure è lunga di fatti, piena di cose, è stata scelta un’ora, il grumo compatto, denso di tempo in cui le cose e i fatti acquistano la lucentezza, l’infinita profondità di un oggetto collocato, nel proprio spazio, sotto l’occhio della lente. La lente, qui, non ingrandisce, semplicemente chiarisce, definisce, stacca ogni contorno. Si prova il senso che tale lente fatta di luce specchiante sia confitta dentro il nostro occhio. Sta di fatto che, d’altra parte, codesta luce, codesta sostanza di chiarimento e di definizione: quasi un liquido cristallo, finisce per costituire la natura, la natura materiale delle cose. Il mondo o per dir meglio la verità della vita è fatta di pochi momenti, di attimi riuniti insieme: l’importante è che quei momenti siano chiari in noi.
Nella mente dello scultore dei Mesi del Duomo di Ferrara dovevano essere chiari. Forse lui, la lente di luce doveva averla addirittura in testa, più che nell’occhio. Ogni cosa, ogni figura si presenta e si compone dentro questa materia, che è concreta, ma in cui è come se un di più di verità la fissasse dentro una impassibile felicità. In ogni scena, in ogni episodio, che dichiara la giusta verità dell’ora e del tempo, tutto è semplice, naturale. Niente allegoria. È un momento come un altro della giornata e della stagione, ma è stato scelto con intelligenza, con opportunità. C’è, in quasi tutti i Mesi, un medesimo personaggio, il protagonista di codeste piccole storie, che agisce, si fa avanti. Fa la sua parte. È un giovanotto atticciato, di membra robuste, nella statura modesta. Di bello c’è la sua salute, e la tranquillità dei suoi gesti, dei suoi atti. Talmente comune, come tipo, da non mostrare un carattere particolare. Sarà contadino, ma non è georgico. Del resto, sembra che, ignorando ogni possibilità di paesaggio e di dintorni di natura il giovanotto si muova dentro uno spazio fisico, dentro una fetta di mondo morale, che egli si porta con sé.
Il suo corpo di carne, gli attributi del suo corpo: cioè il suo capo rotondo come un frutto, le sue braccia, le sue mani, le sue gambe, sono sempre lì intorno alle cose da fare, in mezzo alle cose: i rami degli alberi, i frutti, i fichi pesanti, le pere, i grappoli dell’uva, il cesto di vimini, il mastello di doghe robuste, insomma in mezzo alle cose, agli oggetti di ogni giorno. Quelle che egli trova immutate ad ogni nuovo mattino. Le novità, egli pensa, sono solamente quelle delle stagioni. Se anche non è la felicita, e un modo di godere dell’esistenza, senza sogni, senza salti. Così il volto, le mani, le brevi braccia, i muscoli delle gambe, sono cose tranquille nello spazio limitato di natura, ma giuste di dimensione, di collocazione, e giunte al grado perfetto di maturazione come i frutti degli alberi. Chi li spremesse, ne sortirebbe un succo, un liquore. A morderli riservano un grato sapore. Nient’altro di più naturale, dei grappoli d’uva, dei grossi fichi, delle pere verdi.

A ripensarli, i particolari di codesti Mesi, ma più che i particolari, direi, l’insieme, il tema centrale, il fatto importante di quasi tutti i quadri in pietra di un così singolare Calendario dal vero, mi vengono subito in mente dei «fatti della natura morta». Mai il tema, anzi l’avvenimento della natura morta è entrato con tanta forza nella vicenda terrena, nella vita, nella giornata degli uomini. È naturale che gli oggetti, o i modelli di codeste raffigurazioni fossero lì, a portata di mano. Ma ci voleva l’artista che con tratto di straordinaria verità, e col sentimento di un’autorità quasi unica, come è quella di chi vive dentro la natura senza farne strepito, decidesse che quelle pere, quei fichi, quei grappoli di uva, quei tronchi di ramo, quei cesti di vimini, quei mastelli di legno, dovevano una volta per sempre fare racconto, e creare un esempio figurato, in quanto essi erano la parte medesima della giornata, dell’esistenza di un uomo in una giornata. Così che solo a vederli, nel loro riquadri di pietra, la gente dicesse: «Questo era un giorno di aprile; questo, un giorno del mese di giugno; questo, un giorno di luglio. E questo è settembre, quando le pere sono mature. E si ha voglia di andare a pescare nel fiume».

Sarà stato un emiliano l’anonimo autore dei Mesi di Ferrara? A me piace di pensarlo. Avrà lavorato questi pezzi, così all’ingrosso, intorno al mille e duecento. Ma dove avrà imparato? cosa avrà visto in questo genere di lavori? Emiliana è la pianura che si estende dal Po al corso del Reno. Le campagne, le città e i paesi in mezzo. Parma, Modena, Ferrara, forse Bologna. E arrivare fino alla Romagna, dove le terre giungono a toccare il mare? Questa sua ferma grazia nell’esprimere, nel rappresentare. E questa sublime e inerme semplicità di cuore. Avrà veduto i Mesi di Benedetto Antelami, a Parma? È probabile. O almeno la poetica di nobiltà nel vero dell’Antelami lo avrà messo in soggezione. È nella verità dell’Antelami, anche d’impeto potente, un concetto superiore dell’ordine e dello spazio plastico. Ed essa verità sorta faticosamente, a gomiti puntati, dagli strati confusi del passato, non viene avanti senza una sua grandezza, anche eloquente. Basta vederli i suoi personaggi al Battistero di Parma: li accompagna ancora nel gesto, nel porsi, nel girare degli occhi, qualcosa di un biblicismo gotico, o la fierezza dei tempi borgognoni, dell’eloquio di curia e di corte. Aprile avanza come un re di Francia: una maglia di acciaio nascosta sotto la veste. Maggio a cavallo viene come nella piazza dei tornei. Non è una piccola falce, che egli impugna, ma un’arma per combattere. Luglio conduce i cavalli a pestare il grano col gesto bellicoso, militare, del colono latino appena smobilitato. Anche questi saranno dei contadini: ma di un tempo antico, che si ricorda di essere stato eroico.
Il nostro ferrarese (chiamiamolo così) doveva conoscere poco di antichità e di eroismo. Oppure, di antichità, cioè di classicità, quel tanto appena necessario perché, dal corpo dell’antichità, della classicità di scuola, egli potesse estrarre un suo personale insegnamento, una indicazione, una norma per il suo mestiere, per questo mestiere di cavare racconti dal marmo. Gli antichi, aveva visto, facevano così e così. Egli faceva al suo modo, direi secondo il suo carattere, che era di vedere il mondo dentro aspetti comuni. Certo un’attenzione, un gusto della precisione, un senso di doversi sbrigare nel cogliere la luce giusta, dove collocare le cose. E cogliendo a puntino questa giustezza di luce, gli pareva che anche i «sentimenti delle cose » trovassero la loro spiegazione. Forse questo tempo della sua attenzione era lento e prudente. Oppure era repentino a passare, ed egli lo costringeva a fermarsi, a durare sul motivo del suo lavoro. Un lavoro, del resto, che non gli costava fatica.

Tanto si immedesimava in codeste storie da introdurre, probabilmente, nelle vicende di esse qualcosa del suo stesso sentimento, del suo animo. Ma egli chiamava il suo animo come un modo di fare. Del resto, questi fatti comuni, non erano gli stessi della sua esistenza di ogni giorno? E che eroismo ci può essere a trascorrere, a consumare la propria vita nel modo, così semplice, che è quello di tutti? Ci fu una volta, era una giornata d’autunno verso l’inverno. Concepì nella scena un se stesso un poco diverso dal solito. Lo vide come un giovane di forme più pulite, snelle, nel volto, un profilo sottile, armonioso, elegante. Un viso, in certo modo, nobile, distinto. Perfino l’acconciatura dei capelli, insolita, signorile, i capelli raccolti in riccioli schiacciati, come forse aveva visto in qualche medaglia. Gli parve strano. Ed eccolo a ricavare, nello spazio ristretto del riquadro, un luogo dove collocare particolari, cioè motivi più alla mano, della giornata: un castelletto di rami d’albero, su cui bolle un pentolone. E appesi a un travicello, gli insaccati di maiale, le fette di lardo, i pezzi di salato. Non doveva essere altro che uno dei giorni in cui, dalle nostre parti, si veste il maiale di casa.

(Sul filo dell’analogia, nella passione di codesto piccolo scultore per la verità appena affettuosa delle cose, ma nella scelta, d’altra parte, che egli ne fa per i suoi quadri di marmo, l’amore degli oggetti di casa e di lavoro: cosa m’ha portato a ricordare Cézanne, e il suo mondo dove la realtà è un pretesto all’invenzione delle forme? Non so, taluni disegni di taccuino di Cézanne, dove sono ritratti oggetti immobili, schienali di sedie, cuccume, bottiglie, pomoli del cassetto, e i piedi di un tavolo. Una suggestione di altro ordine è questa, che mi procura la forma realistica dei suoi modelli. E mi pare che, scavalcando i secoli, tanti secoli dopo lo scultore dei Mesi ferraresi, solo un altro artista scoprisse, inventasse e applicasse nei suoi dipinti, un principio, un modo, un tratto quasi da niente, tanto è naturale, di cogliere e rappresentare le cose: le persone, ‒ e i loro corpi, come dentro un involucro di luce ferma, che li fa risplendere e durare, come di cristallo, e quella luce è anche il solo significato della loro verità. Il pittore fu il Caravaggio. Ma queste non sono che delle fantasie.)

(1965)

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